Tre incontri con Giampiero Neri

Riordinadiario 2000

di Ennio Abate

Se n’è andato anche Giampiero Neri. Con Danilo Montaldi, Franco Fortini, Giancarlo Majorino, Renato Solmi e Michele Ranchetti – diversissimi tra loro, distanti o addirittura contrapposti per orientamenti poetici, politici e culturali – anche lui  ha rappresentato  per me una figura della generazione dei possibili padri. Da interrogare dal vivo e mediante la lettura delle loro opere. Da comprendere ma anche da mettere in discussione. Al di là delle automitologie personali o dei loro cortigiani, seguaci e  amici più intimi. L’ho fatto per quanto mi è stato possibile. Oggi  ricordo Neri pubblicando i miei appunti di diario sui tre incontri che ebbi con lui prima della purtroppo infelice ed equivoca nostra comune esperienza nella rivista Il Monte Analogo (qui). Ciao Giampiero.

Incontro del 13 giugno 2000

Sulla rivista Confini ho visto una intervista a Giampiero  Neri di Giuliano Accordi. Me la rileggo prima di andare a casa sua a Milano. L’ appartamento è al piano rialzato di piazzale Libia al 20. Ci arrivo in auto ben prima delle 10,30, ora dell’appuntamento. Prima di bussare esploro i vialoni intorno. Cerco un’edicola. Compro il manifesto. Comincia a piovigginare.
Per l’incontro con lui, dopo aver letto Liceo, l’unica sua raccolta di poesie che ho trovato nella Biblioteca Civica di Cologno, mi sono preparato una scaletta di domande. Prima di cominciare, però, Giampiero vuol sapere di me. Giusto, mi conosce poco o niente. Non sarò per caso un commissario di polizia! Ridacchia. Gli racconto alcune peripezie della mia gioventù salernitana e degli anni d’insegnamento al Molinari dal 1980 al 1998. Mi prepara un caffè e comincia a parlare senza più riserve.

Ha lavorato in banca dal ’47 fino al ’59 anni. (È nato ad Erba nel ’27). In ufficio a far niente. Una punizione. All’inizio scrive racconti. E, sì, ha una grande passione per le scienze naturali. Si era iscritto a zoologia, ma confessa di non essere riuscito a seguire neppure una lezione. Perché? Non aveva trovato l’aula delle lezioni. Aveva la testa nelle nuvole. Glielo dicevano da giovane in tanti. Ma come? Non potevi chiedere  indicazioni a qualcuno? Non era nel suo costume. Ha fatto il liceo scientifico ed è stato un grande lettore di Dante.  Affinità? No, uno stimolo esterno. Il suo professore metteva un voto in più a chi imparava un canto del Paradiso a memoria. La pulizia della sua scrittura viene da quella formazione scientifica. Un principio di economia: se occorrono due parole, non se ne dicano tre.  “Se ne dici di più, rischi di addentrarti in una selva di significati…”.
Gli rileggo un verso: “Il viale alberato finiva in una grande macchia” (pag. 28, Liceo). Mi dà conferma: per lui la macchia (la selva, il groviglio, il guazzabuglio: aggiungerei…) ha un significato “orrifico, sinistro”. [Mi rimanda, non ricordo più a che proposito, al suo testo Un caso di omonimia].
Lavora – anche lui e a distanza di decenni – su suoi vecchi testi scritti, ma ha l’abitudine di strappare i fogli delle fasi preparatorie. Gli porto l’esempio della traduzione in dialetto di alcune mie poesie scritte da giovane. Ma è restio al dialetto. (Anche lui!). Parliamo – mi dice – per gli altri. E non stima la produzione di messaggi in bottiglia indirizzati a noi stessi. Perché è passato dalla prosa alla poesia? Per avere più libertà. Non è mai stato un tipo eloquente, dice. Gli mancherebbe il senso della costruzione architettonica. (Anche se Massimo Raffaelli ha scritto in proposito un articolo – me  lo mostra – su Alias N. 4, gennaio 2000, che afferma il contrario).  Sostiene di non saper seguire un filo logico per tappe. “Salto di palo in frasca. Scrivo non per abbondanza ma per difetto e ancora intervengo ad asciugare”. Quindi, lavora su una materia linguistica già ridotta. Sarebbe curioso sapere quante parole del vocabolario ha usato nelle sue poesie. Non crede che siano tante, perché segue un principio: dire quello di cui si sa. Certo, per sentito dire, sa tante altre cose. Ma queste non sono mai veramente “nostre”.  Che il fuoco bruci, lo si sa per esperienza. “Una verità, per essere nostra, lo deve essere davvero. Che la fame è brutta posso dirlo, perché l’ho provata”.
Gli obietto: se è così, che legame ci può essere fra le nostre verità e quelle degli altri? Sì, il problema esiste. L’umanità, perciò, fa una grande fatica a trovare punti unificanti. Omero, Dante: sono stati per lui esempi della funzione unificante svolta dalla letteratura. In genere lo scrittore dà una testimonianza, ma la sua non è mai la Verità.
Gli chiedo delle  tante figure di animali  presenti nella sua poesia. Certo, non sono scelte per caso. “Due sono le scaturigini di queste immagini: l’aggressività, la violenza che domina il mondo e il fraintendimento”. Mi fa l’esempio degli americani: sono bonaccioni o gangsters? Sono degli “allegri gangsters”. E l’asino? Forse è davvero poco intelligente, come si dice? E l’allocco? “Se è arrivato fino ai nostri giorni senza previdenze,  malgrado le calamità naturali” non può essere considerato uno stupido. E’ il ribaltamento di questi luoghi comuni a guidare la scelta delle sue immagini. Sì, ammette, è una sorta di risarcimento  che viene tentato, quando se ne parla in poesia. “Perché non parlo del cavallo, che pure piace anche a me? Perché preferisco parlare di figure che vengono fraintese”. Mi cita un altro esempio [Cfr. Teatro naturale]: un episodio della vita di Alfieri, che proprio non conoscevo. A Dover lo scrittore incontra una sua ex amante. E’ ancora bella e ha saputo rendersi indipendente. Ma lui insinua che è una poco di buono.Ma perché – gli chiedo – l’uomo sarebbe così portato all’apparenza, al fraintendimento? Ci sono zone dei rapporti umani in cui apparenza e inganno rendono, permettono il dominio. Il rimando al mondo naturale è immediato: “Tutti gli animali sono violenti. La civetta deve uccidere per vivere. L’asino – l’episodio gli fu raccontato da un amico missionario – è paziente, ma con un morso segnò per sempre la mano del padrone a cui tanto a lungo s’era mostrato docile. Ma la violenza dell’uomo….[Dobbiamo interrompere la conversazione…]

 

Incontro del 10 novembre 2000

Gli dico che ho letto alcuni saggi  su OTTO/NOVECENTO che esaminano le sue poesie. Non si scompone. Né ha voglia di approfondire. Concede fin troppo diplomaticamente: “ogni lettore ha il suo punto vista”. Mi dice – forse per esemplificare la varietà delle interpretazioni – di aver parlato con una “dantista eccentrica” [Nota 2023. La studiosa doveva essere Maria Soresina, di cui pubblicammo poi un’intervista su Il Monte Analogo] che  presenta Dante come un eretico,  legato ai catari (Ricordo  che me ne accennò anni fa anche Attilio Mangano).
“La storia del mondo sembra sia sempre da rifare” mi dice. E si richiama a Cartesio, a Bacone. C’è un’esigenza di partire da zero. Parla di “cementificazione della menzogna” e  ricorda con grandissima stima Fenoglio: lui aveva in mente di dire la verità. Per contrasto mi rivela tutta la sua antipatia per Tasso, che considera succube della propaganda controriformista. Come si fa a non rabbrividire di chi dice “Canto l’arme pietose”?
Un altro dei suoi autori – preferiti perché non nascondono le verità – è Machiavelli. Neri non sopporta una civiltà come la nostra fondata sul principio del “superare la frontiera della natura”. “Noi siamo la natura” dice con forza e accosta questa sua affermazione a quella di Flaubert: “Madame Bovary c’est moi”.  Poi si ricorda di aver conosciuto un macellaio arabo e di aver capito quanto per lui l’uccisione dell’animale  fosse un gesto sacro. (Ha il gusto per gli episodi precisi tratti dalla sua memoria).
Il discorso scivola  di nuovo sul tema dell’aggressività umana. Io tendo a darne una spiegazione storica e materialista. I ricchi sono aggressivi perché ricchi, dico. Neri minimizza: quella del materialismo storico è solo una delle spiegazioni. Lui pensa che l’aggressività umana sia NATURALE. E gli uomini possono nascondere o  svelare questa verità. “Machiavelli [che la svela]non è più cattivo di don Bosco [che la vela]”. È il suo grande tema. Gli animali sono mimetici e ripetitivi. Anche gli uomini sono mimetici, ma il mimetismo della parola è qualcosa che può ingannare e depistare.
Un altro dei suoi autori (scoperto o letto da poco, mi pare di aver capito) è Jacob Taubes. E’ ammirato dalla sua visione escatologica e apocalittica. Taubes, che io ho sentito solo nominare di sfuggita [forse ho letto qualche recensione su L’indice], considera “il mondo come estraneo, la conoscenza come frammento, l’uomo come straniero”. Anch’egli appartiene alla schiera degli scrittori di verità. Mi legge un brano che riguarda la guerra: per Taubes chi condanna la guerra in quanto guerra non l’abolisce, ma la criminalizza e così la guerra finisce per essere condotta nei modi peggiori. Mi ricorda che gli austriaci durante la Prima  guerra mondiale chiamavano gli alpini italiani le tigri..[Forse si riferisce al salto nella disumanità che ebbe inizio col primo conflitto mondiale?]. Proprio perché Neri considera strettissimo il legame uomo/natura (ha una visione naturalistica dell’uomo) non gli si può obiettare – che so – che nella sua opera la storia è sullo sfondo o non c’è. Egli replicherebbe: “Se conoscessi a fondo la vita di una sola specie di formiche, ne saprei più su di me”.

 

Incontro del 28 novembre 2000

Questa volta non ho preso appunti e scrivo a memoria e, dunque,  lacunosamente. È solo in casa. Sua moglie sarà uscita per qualche faccenda. Sta scrivendo una lettera con una stilografica. Mi stupisce sempre la precisione con cui designa i luoghi quando parliamo di una persona. Di Pagnanelli oggi. L’aveva incontrato la prima volta a Macerata durante una lettura  di poesie.

Cosa inseguo io facendogli domande su Pagnanelli? Di lui avevo letto il libro su Fortini. Neri me ne fa un ritratto tutto fisico. Occhi a mandorla. Aria intelligente. Si vedeva la sua intelligenza anche nei movimenti, mi dice. Mangiava pochissimo. Gli piacevano le donne. Scriveva moltissimo. Non voleva stare a Macerata. S’era innamorato di una donna che poi se n’era andata a Parigi ed era tornata in Italia ormai sposata con un altro. Parliamo anche di musica. Quando sono entrato nella stanza dove mi riceve, la stava sentendo in sottofondo, ma solo perché scriveva lettere. Bisogna stare attenti, mi dice, perché la musica entra in quello che scrivi, condiziona. Mi meraviglio. Possibile che abbia su di lui un effetto così invadente? Gli dico che ascolto spesso musica classica, sia quando scrivo che quando leggo.

 

Nota
In Poliscritture su Giampiero Neri: Due conversazioni con Giampiero Neri (2004-2005)qui,  Il dilemma irrisolto di una rivista di poesia (2019)qui  

 

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