di Cristiana Fischer
Il personal computer (da ora: pc) è un archivio, una rete di corridoi uniformi, con alti scaffali alle pareti. In quelli più distanti nella memoria sui palchi superiori cartelle gialle di contenuti accessibili, con titoli che si ripetono nel tempo: letteratura (in cui vecchi ebook di poesia e romanzi, le opere minori di Dante, manuali di fonologia e di metrica, analisi di figure retoriche); salute (raccoglie esami, dimissioni post-ricovero, prescrizioni e cure); conti (mese per mese le entrate e le uscite: lontani viaggi, molitura delle olive, nuova auto, bollette); cucina, cioè particolari ricette; filosofia (personaggi presenti e passati e i loro agganci a pensieri propri e a questioni per dir così eterne). E altre: politica, scienze, riviste, Marx, etc…
Invece il bene accumulato dei ricordi procede a lampi di verità, tornano volti e risate, domande e gesti di affetto.
Scrive Franco Nova:
“Nutro per loro un vero amore
ma confesso il mio disagio
di ritrovarli vestito di stracci,
privo di sangue e della carne;
avremo più tardi tanto tempo
per raccontarci l’inutile senso
della morte che tutti odiamo.”
I ricordi appartengono all’invisibile (la dimensione che evoca Cristina Campo), viventi in un intreccio che lo sostiene e gli affida il compito di dare profondità alla superficie quotidiana. La soglia tra la vita e la morte (“la morte che tutti odiamo”) nella dimensione in cui Franco Nova idealmente si situa in queste poesie, diventa irrilevante. Credo che egli rimandi alla comunità storica ed extratemporale dei pensieri, partecipati e viventi attraverso le generazioni, che costituiscono un révenant archivio dell’umanità. E’ certo della realissima esistenza di questa fascia immaginaria in cui, solitario, “non è privo di una ben rumorosa compagnia”:
“Sono forse soltanto i fantasmi
delle mie amicizie ormai lontane;
non per i luoghi abitati un tempo
in cui tanto parlavamo ridendo
e dandoci nuovi appuntamenti.
Non ci sono solo gli estinti,
ma pure quelli spariti nel mentre
sembravamo uniti per sempre.“[1] *
Ma negli anonimi corridoi del pc esistono solo persone fictae. Scritture e immagini digitali le richiamano come maschere di correnti sociali, di tappe culturali, di svolte morali. Hanno un cartellino legato all’alluce con uno spaghetto che ne segnala il prezzo: si comprano con varie monete, il costo del libro scaricato; il prezzo dei bisogni quotidiani nella cartella “conti”; oppure, come ormai tutti sappiamo, offrendo noi stessi come “dati” ai Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft). E a più piccole imprese che scansionano i nostri accessi alla Rete (quasi) Universale per offrire il loro prodotto, diverso ma uguale, per sfamarci, coprirci, scaldarci, spostarci e immaginare.
Senza il pc sarebbe necessario agitarci: andare, incontrare, parlare, verificare, scontrarci, ballare nelle piazze, discutere al bar o nei circoli. Fare politica. Scambiare affetti, sesso, lavoro, denaro.
Oppure navigare in solitaria negli oceani. Camminare fino ai confini del mondo. Abitare nei boschi e nelle grotte. Nei monasteri che praticano la preghiera esicasta. Tuttavia l’artefatto pc è una mediazione necessaria. Come la scrittura che, da qualche millennio, imposta e disciplina i rapporti sociali, inquadra i singoli. E’ necessario disporne persino nelle imprese solitarie, per lanciare l’estrema richiesta di aiuto in difficoltà insuperabili.
Ho conosciuto un archivista, vive sullo scoglio di Procella, 17 miglia a sud-est di Montecristo. E’ il guardiano del faro, la luce è prodotta da un generatore alimentato da energia eolica. Si nutre di pesci e di mitili, raccoglie l’acqua piovana e si scalda con i legni sospinti dalle correnti, residui di tempeste con naufragi. Raramente approda una barca che lo fornisce di qualche farmaco e di altre particolari risorse.
L’arcipelago toscano è tutto intorno. Nelle notti fredde e stellate l’archivista riconosce il pulsare dei diversi fari, quelli vicini: di Montecristo a nord e del Giglio e di Giannutri a est; più lontano il faro di Pianosa e quelli della costa sud dell’isola d’Elba. Ma riconosce persino i numerosi fari sulle coste della Toscana e della Corsica. Di ciascuno ha segnato quante pulsazioni di luce emettono, con differente intensità, in una serie, con il tempo dell’intervallo tra una serie e l’altra.
Il suo archivio non prevede corridoi bui e lontani, sembra piuttosto una raggiera di linee chiare e diritte, ripete certo i raggi dei fari imprigionati nel suo schedario.
L’archivista è un mio incongruente amico di facebook. Inavvertitemente io riproduco le solite cartelle, letteratura, scienza, storia, filosofia, conti, salute… includendo quelle vecchie come sottocartelle di quelle nuove (così “letteratura” ha una sottocartella “letteratura”, che che ne contiene un’altra ancora più vecchia). Un sistema a matrioske, con logica a frattali. Invece l’archivista ha un archivio astratto di numeri, che evocano tempo e luci.
Nota
[1] https://www.poliscritture.it/2023/05/06/su-solitudine-amore-ingannatore-malinconia/
Grazie Cristiana, molto bello il tuo scritto…mi ha catapultato in una dimensione di persone solitarie, che non significa sole, al centro di una rete infinita di rapporti, tra virtuale e reale, in dialogo continuo…Solo una mente logica, ordinata, sensibile, da archivista guardiano del faro, vuoi del bosco, puo’ cosi’ artisticamente e filosoficamente concepire…
Matrioske che si accrescono nel tempo tramite i ricordi di persone non piu’ eppure ancora, in buona compagnia di altri solitari viventi o estinti, vedi Cristina Campo, Franco Nova, il guardiano dello scoglio di Procella…mareggiate e grandi nevicate fanno da abbraccio, da immersione subacqua, da scalata sulle vette di cartelle ben allineate…
“Nutro per loro un vero amore/ ma confesso il mio disagio/ di ritrovarli vestito di stracci/privo di sangue e della carne…” (Franco Nova)
Spogliato da orpelli, un amore cosi’ lontano e cosi’ vicino…incondizionato
… in piedi sullo scoglio di Procella nonostante le bufere…