Una famiglia dalle doppie iniziali in O

di Angelo Australi

La prima volta che il nonno mi ha informato sul nostro cognome discendente da una famiglia originaria dell’appennino tosco-romagnolo, penso sia stato quando frequentavo la prima media. O comunque sia, è in quel periodo ristretto dei tre anni di scuola dopo le elementari, perché ogni tanto andavo a trovarlo di pomeriggio, quando aveva ancora il fiato e la forza di mantenere l’orto che aveva dietro casa. Ci andavo volentieri perché di fianco alla legnaia aveva costruito una grande gabbia dove teneva prigionieri un paio di scoiattoli che saltellavano in continuazione. Siccome gli portavo sempre qualcosa da mangiare (ghiande, noci, le bacche di cipresso raccolte per terra sul viale del cimitero), appena mi vedevano sembravano impazzire di gioia. Per me era un gioco magico osservarli saltare come delle scimmie su alcuni rami poggiati di traverso nel reticolato. Si aggrappavano alle maglie della rete facendo spuntare il musetto con la bocca spalancata, un po’ come se volessero parlarmi.

La rivelazione sulle nostre origini la confessò in uno di questi momenti di gioco, quando ormai gli scoiattoli erano impegnati a mangiare il cibo che avevo gettato oltre la rete. Lui aveva appena terminato di infrascare le piante dei fagioli serpentini, e quando si avvicinò alla legnaia per togliersi le calosce infangate lavò le mani e la faccia, gettando anche a me per scherzo una manciata di acqua fresca tirata su dal pozzo con il secchio. Di tutto il getto mi raggiunse appena uno spruzzo di goccioline nebbiose, il grosso lo scansai per un pelo spostando bruscamente il corpo di lato. Lui allora si mise a ridere sentenziando che ero un mascalzone proprio come il nostro antenato che lavorava la terra a mezzadria per dei borghesotti arricchiti con il commercio dello zucchero. Non ricordo il nome del paese vicino a Forlì nel quale disse che abitavano, però il podere dove si consumavano i lombi da chissà quanto si chiamava Nusenna e il nonno, nell’indifferenza generale di moglie, figli maschi e femmine, questa località se l’era stampata nella mente come una sorta di qualifica nobiliare perché gli piaceva farla risalire all’epoca degli etruschi. Non era mai stato a visitare questa località dei nostri antenati, anche lui l’aveva sentita nominare in casa, quando era molto giovane, da un parente più anziano, fissato sulle nostre origini come lui. In un certo luogo del fitto bosco che circondava il podere, proprio lì dove grufolavano i maiali a mangiar ghiande, c’era uno spiazzo con le rovine di un’antica tomba etrusca scavata nella roccia, alla quale si accedeva scendendo in obliquo per uno stretto cunicolo lungo almeno dieci metri…, e lui per tutta la vita aveva fissato nella mente che fossimo imparentati a questo popolo, non poi tanto alla lontana.

Ripeto quelle sue parole che ancora mi risuonano in testa, senza ingigantirle con niente di mio: Noi siamo antichi veramente, se si parla degli etruschi, disse con orgoglio. Non come quei padroni che avevano un legame con Nusenna lungo appena il tempo di una pisciatina sull’aia.

Invece nel paese di Oriale la nostra famiglia si era trasferita nell’autunno inverno del 1832, quando un antenato di nome Onorio uccise il suo fattore nel corso di una lite che riguardava la divisione dei raccolti tra le spettanze del padrone e quelle che dovevano sostentare la sua famiglia un intero anno. Per sfuggire la condanna a morte Onorio aveva intrapreso questo viaggio senza una precisa destinazione, unica meta calcolata era di superare l’appennino e dallo Stato Pontificio entrare nel Granducato di Toscana a rifarsi una nuova identità. Il fattore lo aveva preso a malvolere già con i moti risorgimentali scoppiati a Forlì nell’anno precedente, quella non era la prima discussione che il nostro antenato affrontava, ma quel giorno, di fronte alla sua arroganza, non riuscendo a controllare la rabbia gli sparò con il suo fucile da caccia. A bruciapelo, quasi a contatto di pancia. Dopo averlo minacciato a parole con l’accusa di essere un ladro lui era corso nella stalla, aveva imbracciato il fucile e premuto il grilletto creandogli un buco all’altezza dell’ombelico, così grosso che ci entrava dentro la mano senza sforzo.

Nel parlare il nonno inscenava una descrizione da film dell’orrore, gesticolando con le mani su delle espressioni del volto che facevano venire i brividi. Disgustato da quelle invenzioni raccapriccianti stringevo i denti e chiudevo gli occhi al pensiero che la morte fosse davvero qualcosa di orrendo. Però la curiosità vinceva su tutto quanto, perché era bello per un bambino avere un pezzo di storia avventurosa della propria famiglia da legare a se stesso. Partivamo con un assassino che prima di fuggire abitava in una località chiamata Nusenna, ma era pur sempre una storia che riandava a tempi lontanissimi, e poi nel 1964 si poteva tranquillamente pensarci con un certo distacco mentale, nessuno ci avrebbe condannato per un omicidio dopo un secolo e mezzo.

E quando l’intestino del fattore era uscito fuori dalla pancia carico di sangue e di merda finendo per mescolarsi alla terra dell’aia, Onorio si era dato alla fuga senza ripensamenti o sensi di colpa, lasciando radunare il pollame a banchettare sugli avanzi del cibo non ancora del tutto digerito che stava nello stomaco del morto.

Cercando di colpire la mia immaginazione, in quel punto macabro del racconto il nonno si metteva a ridere in modo sguaiato, come un folle.

Il nostro antenato si era messo alle spalle tutto quanto con un po’ di rimpianto, ma a restare c’era da aspettarsi solo una condanna alla pena di morte che avrebbe lasciato andare in disgrazia tutta la sua giovane famiglia.

*   *    *

Invece non è mai riuscito a spiegarmi con la stessa precisione di dettagli con la quale raccontava il misfatto, del come abbia fatto il nostro avo omicida contadino a inserirsi nella casta dei vetrai. Questo resta un mistero, come tutte le vicissitudini della sua fuga dallo Stato Pontificio. Si dà per certo che in quella partenza precipitosa si trascinò dietro la sua famiglia composta dalla moglie e cinque figli, il più giovane dei quali aveva solo sei mesi. Tre maschi e due femmine. Quello di sei mesi, cioè il lattante, era un maschio. L’unico però che ha lasciato traccia nel paese dove ancora viviamo era il primogenito, cioè il nonno del mio bisnonno. Degli altri mi raccontava che uno avesse raggiunto il porto di Livorno, in cerca di un imbarco per Marsiglia, che uno fosse morto sepolto dal terreno franato durante uno sterro delle fondamenta di un palazzo. Mentre delle due femmine, dopo essersi sposate, è stata persa ogni traccia.

All’anagrafe del nuovo comune, senza sprecarsi in fantasie, questo nostro antenato disse di chiamarsi Onorio Orialesi.

Guarda un po’ la coincidenza: … Orialesi fa rima con Oriale, gli aveva detto ridendo l’impiegato del comune di Oriale.

È così, …giustamente

La risposta del nostro assassino in fuga era stata più o meno in questi termini evasivi.

Visto che si chiamava Onorio, per una sorta di scaramantica aspirazione a rifarsi una nuova vita all’anagrafe, senza cerimonie decise d’immaginarsi un nuovo nome anche per i suoi figli. Sicché in questo lungo periodo di tempo tutti i nuovi nati sono stati battezzati con dei nomi che iniziavano con la lettera O. Oreste Orialesi, e poi Ovidio il fratello che s’immagina fosse emigrato a Marsiglia, e poi Omero, morto a fare lo scasso di terra, quello che quando erano fuggiti dal podere di Nusenna aveva solo pochi mesi.  Mentre le due femmine furono ribattezzate una Ornella e l’altra Ostinata. E così i figli di Oreste, cioè il bisnonno di mio nonno, che si chiamavano Ottimo e Onesto, che fu il nonno di mio nonno. E i suoi tre figli sono stati chiamati con i nomi di Otello, Orlando e Onofrio, vale a dire mio nonno. A mio padre poi era stato messo il nome del nostro primo antenato trasferitosi a Oriale, mentre suo fratello fu battezzato con quello di Oliviero.

Olimpio, Omero, Olindo, Otello, Ottavio. Orlandina, Ofelia, Orietta, Olga, Ondina, OttaviaOlena. Orio, OrazioOriana, Ombretta… Una volta che sotto il suo dettato ho tentato di fare l’albero genealogico della famiglia, sinceramente mi sono perso. Con tutte queste doppie O sembrava di strappare dei fili d’erba da un prato grande come un campo di calcio ancora da rasare.

*   *    *

Fare il vetraio per molto tempo è stata la seconda consuetudine della nostra famiglia. Così dopo Onorio, assunto come uomo di fatica nel piazzale di carico del forno dove il vetro fondeva a millesettecento gradi centigradi, il figlio maschio, l’unico rimasto a vivere ad Oriale, aveva fatto carriera entrando nella casta dei privilegiati che soffiavano il vetro. E dopo il bisnonno c’è stato il nonno di mio padre e lo zio Oliviero, e dopo i loro figli maschi, fino alla generazione di mio padre. In alcuni momenti di sovraffollamento familiare in vetreria ci hanno lavorato contemporaneamente anche in tre o quattro appartenenti alla nostra famiglia che aveva queste iniziali con la doppia O. C’era stato come un’invasione degli Orialesi.

Quando sono venuto al mondo la vetreria era fallita e ho dovuto arrangiarmi nel lavoro in un altro modo. Forse è per questo motivo che con il nome che mi è stato messo, visto mi chiamo Mario, Mario Orialesi, è stato fatto uno strappo con la nostra tradizione che non ha turbato più di tanto i parenti. Loro un po’ hanno insistito, cercando di convincere mia madre a non discutere su questa regola, ma lei si è rifiutata con una certa ostinata fermezza, non accettando l’imposizione di dovermi chiamare con uno di quei nomi così assurdi che iniziavano con la lettera O.

 

NOTA: Questo testo era stato pensato come l’ìncipit di un romanzo che poi non sono mai riuscito a scrivere. L’idea era quella di raccontare le vicissitudini di questo personaggio che si chiama Mario e intorno agli anni Sessanta/Settanta interrompe una tradizione familiare durata oltre un secolo. Dopo aver creato i presupposti, poi non sono più andato avanti. Nel rileggerlo però ho trovato che la frattura con il passato è avvenuta comunque grazie a sua madre, che in certo modo poteva considerarsi anche come un racconto da chiudersi intorno alla tradizione interrotta delle iniziali con la doppia O.

 

aprile 2023

 

 

3 pensieri su “ Una famiglia dalle doppie iniziali in O

  1. un racconto cupo e nello stesso tempo potente, dove il nostro, di tutti noi con origini contadine, radicamento alla terra è assoluto: la tomba degli antenati etruschi, scavata a dieci metri sotto terra…lo sversamento di sangue e intestino, restituiti alla terra, del padrone ingiusto verso chi lavora la terra… i discendenti dello scampato assassino dai nomi cosi’ simili per via delle iniziali uguali, la lettera O, da essere assimilati agli infiniti fili d’erba del prato grande come un campo di calcio…quel ripetersi di vite restituite alla terra, dai destini a segno chiuso, come la O…
    Una donna infine cerca di spezzare il sortilegio, donando al figlio il nome di Mario…
    Grazie Angelo

    1. Grazie Annamaria,
      come accenno in nota, è l’incipit di un romanzo mai scritto, sul quale ho battuto le testa per un lungo periodo. Però alla fine mi sono reso conto che già così era pieno di segni, da poter racchiudere la storia popolare di un casato.

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