Sugli sbarchi dei migranti

di Maria Grazia Addesa 

Lei è solo una bambina, guarda la superficie del mare attraversata dal loro legno e stringe la mano di sua madre. Quando incrocia il suo sguardo ci legge la paura, che quello che si sono lasciate alle spalle non le abbandonerà mai davvero, che ciò che le aspetta non corrisponda a ciò che immaginano.

Lei ricorda il sorriso di suo padre l’ultima volta che lo ha visto, settimane fa, e la voce tremante con cui le ha detto che le avrebbe raggiunte presto, ma raggiunte dove?

Le aveva fatto promettere di essere coraggiosa, di non avere paura, altrimenti la mamma si sarebbe preoccupata, ma era un peso importante per le sue deboli  spalle e non era sicura di riuscire a sorreggerlo.

Lei si affaccia dal parapetto per cercare di respirare, lì è troppo affollato, sente il gomito di qualcuno sulle vertebre e il braccio di un uomo vicino l’orecchio e le si stringono i polmoni.

Il suono del mare la calma e resta per un po’ ad osservare le onde, fino a quando sente sotto la sua mano: “CRAC”. Una scheggia le finisce nel polmone non ci fa caso, riesce solo a sentire le urla delle persone ammucchiate lì sopra. Si gira e li vede correre a destra e a manca e finalmente tra quelle grida si rende conto di essere tranquilla.

Lei aspetta che le travi le si frantumino sotto i piedi e muoia tra le braccia di sua madre, pensando che tanto dove erano dirette nessuno le avrebbe volute.

Io ho appena finito di studiare, decido di aprire Instagram e sullo schermo appare l’immagine di assi di legno su una spiaggia, il titolo: Ennesima tragedia in mare, più di 50 morti.

Io che conosco quel senso di solitudine di essere persi in un mondo ostile, solo dai libri e dai racconti altrui.

Provo una fitta al cuore. Decido di aprire i commenti e tra la sfilza di cuori e parole gentili, ne leggo uno: Potevano anche restare a casa loro!

Casa? Cosa significa casa? Casa è dove sei circondata d’affetto, dove ti senti al sicuro, quel posto in cui conservi i tuoi ricordi, non sono certo solo quattro mura di mattoni. E penso che forse loro non avevano una casa, una vera casa. Poi penso a lei, una ragazza senza nome, né volto, una delle tante il cui futuro è stato spazzato dall’impeto del mare.

Io e lei, lei e io, due facce della stessa medaglia a cui il caso ha concesso a una di vivere e all’altra no.

Che strano riflettere che nella più tranquilla e ordinaria vita si celi tanta fortuna. Che rabbia capire che non solo lei e tante altre persone sono morte, ma che non verranno mai capite.

Chi ha mai provato dolore non può più voler male a nessuno, ma l’ignoranza è una bestia che oscura i sentimenti della gente e, a volte, soffrire non basta per sperimentare l’empatia.

Il secolo scorso John Steinbeck raccontava in “Furore” di una famiglia in fuga dalla fame e dalla povertà; il libro è stato per decenni censurato, non perché raccontasse la miseria, ma perché mostrava con brillante lucidità l’ipocrisia di una classe sociale governante disposta a tutto pur di arricchirsi, anche a vivere sulle spalle della povera gente.

L’umanità sbaglia ma non impara e il modo in cui vediamo gli altri, meno importanti e sacrificabili, lo dimostra.

Io non sono brava a parlare di politica ma riesco a mettermi nei panni altrui; posso vedere con i loro occhi quello che sembrava essere la terra promessa, ma che si è rivelata arida di sogni e ricca di menzogne e posso sentire chiaramente una parola di rifiuti che significa morte.

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