Il “fine dicitore”

Paul Klee

di Rita Simonitto

Premessa

Anche quando facevo le elementari gli effetti disastrosi della guerra e del dopoguerra continuavano a farsi sentire: la povertà, la fame, il disagio sociale mi accompagnarono in modo intenso per tutti quegli anni. L’abitazione era costituita da una stanza di 15 mq, in un sottoscala (un vecchio deposito attrezzi del palazzo municipale del paese) senza luce elettrica né acqua corrente. La luce naturale proveniva da un finestrone protetto da inferriate e l’aria entrava attraverso vetri a saliscendi, l’apertura e chiusura degli scuri avveniva solo dall’esterno affrontando le eventuali intemperie. Ma il mio più grande desiderio non era quello di abitare in case come quelle dei miei compagni di scuola bensì che mia madre tornasse dai suoi pellegrinaggi per accompagnare mio padre, malato di tisi, nei vari sanatori. E tornasse con lui, mio padre, anche se poi, una volta uniti, si sbranavano in lotte tragicamente furibonde al limite del dramma… ma quand’erano in armonia… si vivevo una esperienza magica.
La fame, dunque. Quella materiale la cui soddisfazione era affidata alla attenzione caritatevole di qualche contadino (uova, ortaggi) e del casaro il quale, forse intenerito dalla bellezza di mia madre, faceva trovare il latte, litri e litri di siero che proveniva dalla zangolatura per fare il burro (tanto lo avrebbero comunque dato ai maiali ma a me piaceva moltissimo!) e il burro. I due cibi per cui vivevo una specie di esaltazione, erano il ‘finto brodo’ costituito da acqua bollente e burro con un po’ di pastina dentro e, il top dei top, quello che mia madre spiritosamente chiamava “Soupe à la franҁaise”, ovvero del pane raffermo (dal fornaio te le tiravano dietro!) fatto rammollire nell’acqua bollente, poi strizzato e infine condito con salvia immersa nel burro fuso fino al punto da diventare bruciato. Il massimo dei massimi era quando magari si poteva mettervi sopra una spruzzatina di formaggio grattugiato! Anche oggi, ogni tanto mi preparo questa prelibatezza ma non c’è paragone. La fame giocava anche brutti scherzi, creando un buco dentro che a sua volta produceva nausea. Per cui capitava che, quando con la gavetta militare di mio padre andavo a prendere la pasta e fagioli che la POA distribuiva ai poveri, quell’odore di cotenna e quegli occhi di grasso che sembravano guardarmi minacciosi, mi facevano gettare via tutto.
Ma c’era anche un’altra fame, quella culturale. C’erano a malapena i soldi per i libri di scuola (molti di seconda mano) per cui la mia cultura si è formata sul Corriere dei Piccoli che la merciaia del paese, la signora Gilda che Dio l’abbia in gloria, mi regalava. Dalla Gilda venivo parcheggiata quando mia madre era costretta a stare via per qualche giorno. Lei pagava il disturbo con qualche lavoretto sartoriale e io mettendo in ordine le scatolette di bottoni, le spagnolette di filo e quant’altro. E leggendo a suo marito che sonnecchiava sulla poltrona, mentre lei rigovernava, qualsiasi cosa. Tanto lui non stava a sentire, si limitava a bofonchiare in quel suo sprofondare in una nebbia senza confini. Poi alla sera la Gilda mi riportava a casa, si accertava che avessi chiuso bene dall’interno e il giorno dopo la giostra ricominciava. Ma era allora che io ficcandomi sotto le coperte incominciavo a raccontarmi delle storie, in parte mutuate dalle letture fatte sul Corrierino e in parte mie invenzioni così strane che la notte successiva facevo fatica a riprendere da dove avevo lasciato. Poi le raccontavo ai miei compagni ma loro si stufavano e preferivano giocare o a ‘palla prigioniera’ o a ‘mosca cieca’.
Comunque, la mia cultura di base me la sono fatta su quel foglio per ragazzi: tutta la saga norrena, la guerra di secessione americana, il Don Quichote, le opere liriche (Turandot, Don Giovanni, Cavalleria rusticana), alcuni racconti di Pirandello, i Promessi Sposi, ecc. Poco di favole per ragazzi, tipo Pinocchio, Cenerentola… ricordo solo Biancaneve. Fors’anche c’erano ma ero più attratta dalle storie degli adulti e delle loro passioni.
Questa lunga premessa per arrivare dove? Arrivare a oggi, in un’età di 40 x 2, di nuovo in povertà, semicieca e semisorda, in difficoltà a muovermi, eppure durante le mie notti insonni ripercorro la strada del raccontarmi storie. Poi, con molta fatica le scrivo e le metto a disposizione di chi è interessato all’ascolto.
Date le condizioni di ‘creazione’, nulla di eccezionale quindi ma soltanto un divertissement.

 

 

Il “fine dicitore”

Si tratta di una breve pièce teatrale che si svolge in una stanza-studiolo, arredata in stile primo Novecento.
Sulla parete di fondo c’è una porta con vetrata a losanghe che dà un po’ di luce alla piccola stanza. Le pareti sono tappezzate di tessuto/velluto di colore acquamarina. Entrando, sulla parete di destra, troneggia uno specchio a figura intera con cornice dorata. In basso, una panca con ripiano di alabastro su cui posare oggetti (cappelli, guanti o altro) sorretta al centro da un sobrio treppiede argentato.
Poco distante, a lato, un tavolo rotondo al cui centro fa la sua bella figura una alzata di Capodimonte. Una campanella di chiamata, un mazzo di fiori da giardino tenuti insieme alla bell’e meglio. Affiancata una sedia.
Sulla parete opposta, al centro, un arazzo con scene bucoliche, e sotto un mobile secretaire sul cui ripiano poggiano alcuni libri. Al centro una cartella portadocumenti in pesante cuoio istoriato e accanto il necessario per scrivere. Anche qui una sedia e, poco più in là, un divanetto monoposto in velluto ocra con corredo di lampada a stelo.
Dalla porta centrale ecco entrare il ‘fine dicitore’: veste un doppiopetto grigio-topo a cui invano una cravatta blu a strisce tenta di dare un po’ di vitalità. È di età difficile da definire: né giovane e nemmeno vecchio, i capelli, sia pur brizzolati, tengono ancora la loro postazione, l’andamento è abbastanza sciolto. In mano ha un quaderno, forse gli appunti. Si dirige verso lo specchio senza portare alcun ritocco rispetto a ciò che vede: forse è sufficiente il solo rinvio dell’immagine.
Si gira, sguardo circolare alla platea e inchino di prammatica. Approfittando degli applausi, guadagna la sedia: sembra essere indeciso se parlare da seduto o, invece, rimanere in piedi. Così si darebbe anche una maggiore versatilità nell’eloquio, accompagnandolo con gesti o con passi verso il centro del palco.
La sala è muta, gravida d’attesa.
Fa precedere una premessa d’obbligo: toccherà alcuni temi che sono sentiti da tutti, ma in particolare modo da lui, ne farebbero, in un certo senso, la sua ossatura. I temi riguardano i sogni, nei loro aspetti seduttivi ma anche traditori; le amicizie, nutrimento decisivo per la vita di ognuno ma in particolare modo per la sua: importanti ma anche intrise di amarezze per i distacchi, le perdite. E poi gli amori, le giovani fanciulle in fiore, un fuggevole adombrare il verso del Gozzano (“amai le rose che non colsi”) e la figura femminile… e qui il ‘fine dicitore’ fa una pausa significativa, facendo preludere al fatto che finalmente si entrerà nel vivo delle passioni così velocemente citate. La platea rumoreggia nel disporsi meglio sulle poltrone. A permettere un incipit sostenuto da un gesto simbolico, il nostro prende il mazzo di fiori, lo porta al naso quasi per inalare ebbrezza e piacere ma è costretto subito a girare la testa a causa di un cattivo odore che da lì emana. Mentre cerca di prendere tempo dissertando sui fiori del suo giardino, con la mano destra fa cenni disperati a qualcuno dietro le quinte perché il mazzo venga sostituito. Nell’attimo di suspence si vede un solerte cameriere che toglie di mezzo il mazzo maleodorante per sostituirlo con un altro sul quale versa uno spruzzo di profumo… sia mai! Con il mazzo nuovo in mano, ora si entra nel clou dello spettacolo. Il profumo ha ringalluzzito il ‘fine dicitore’ che si avvia verso il centro del palco e declamando quanto è importante la forza dell’amore allarga le braccia. Solo che, vuoi per l’enfasi, vuoi perché qualche gambo di fiore è rimasto viscido, il mazzo vola lontano verso i limiti del palco. La sorpresa è così forte che il pubblico non capisce quale risposta dare: si tratta di un colpo di scena ricercato (e allora sarebbe da applaudire) o invece è un flop? I tempi in teatro, la loro sequenza, non sono mai facili da sostenere… certi silenzi possono gettare nel panico chiunque. Non si sa spuntato da dove ecco apparire accanto al mazzo un cagnolino scodinzolante che prendendolo in bocca (e perdendo qualche fiore nel tragitto) lo porta al suo legittimo proprietario. Con una risata liberatoria il pubblico si rilassa: allora era una gag! Ma non si rilassa il ‘fine dicitore’ il quale, dopo aver preso alla bell’e meglio i fiori e fatto due carezzine sulla testa del provvido assistente, lo invita ad andarsene. Non può certo rubargli la scena! Ma il cagnolino non è dello stesso avviso, anzi. Scodinzolando, si accuccia sulle zampe posteriori, strusciando il muso sui pantaloni del nostro come a chiedere un supplemento. Poi, visto che nulla di quanto si aspetta arriva, incomincia a saltellare girandogli attorno, dandogli testate sui polpacci. Il nostro cerca di farlo andare via battendo i piedi sul palco. “Ecco un nuovo gioco” pensa il cagnolino, il quale a sua volta incomincia a saltare sulle quattro zampe. Solo che, nel suo pestare i piedi, inavvertitamente, il ‘fine dicitore’ pesta la coda al cane che si allontana guaiolando. La sala si scompiscia dalle risate. Seccato, il ‘fine dicitore’ va allo specchio per riassestarsi dopo aver deposto i fiori (quel che resta di essi) sul tavolo e nel mentre riprende il centro palco, convinto che l’increscioso incidente abbia avuto un termine, ecco apparire dietro le quinte – dove si era rifugiato il cagnolino – un grande cane nero, seguito a ruota dal piccolo suo simile. Sembrano vecchi amici, quasi parlottano tra di loro nel mentre si dirigono verso il centro dove un allibito protagonista li vede avanzare minacciosi. Ormai ogni ritegno è perso. Brandendo il suo fascicolo di fogli come un’arma da sventolare davanti ai musi delle bestiole, il nostro spaventa solo il piccolo cane, il quale fa un balzo sul secretaire tentando di aggrapparsi ai libri che cadono rovinosamente e, spaventato sempre più, cerca riparo arrampicandosi sulla lampada a stelo che cade con fragore. Il cane nero accovacciato lì sotto ad osservare filosoficamente la scena fa giusto in tempo a scansarsi per non venirne travolto. Nel mentre, il nostro corre alla campanella, la suona a più non posso fintantochè dalla porta a vetri non entra una cameriera ben stazzata, il grembiulino d’ordinanza, le gambe arcuate danno al suo avanzare un che di pistolero vendicatore.
Mani ai fianchi, dopo aver osservata la scena, dà uno sguardo di compatimento al ‘fine dicitore’, si avvicina alle die bestiole, fa intendere loro che una ciotola di succulento cibo li sta aspettando e loro la seguono scodinzolando. Nel frattempo un cameriere ha sistemato per quanto sistemabile la zona scrittoio e la rappresentazione può riprendere. Il nostro si è ricomposto, il pubblico si è fatto l’idea che, come ai tempi del Varietà, c’era l’intervallo comico e poi si riprende.
E infatti il ‘fine dicitore’ riparte toccando un tema di grande spessore, la natura intesa nella sua globalità, umana (c’è da discettare sui comportamenti e sentimenti), animale, vegetale: ci vogliono nervi saldi per gestire tutto questo ma il nostro non demorde. Sembra saperne una più del diavolo! Il pubblico si è quietato e ascolta con la dovuta reverenza. Ma dopo tutti questi cambiamenti di scena è molto difficile distinguere, fra loro, se i movimenti su e giù della testa hanno a che vedere con cenni di assenso o con momenti di abbiocco dai quali ci si risveglia bruscamente.
Il ‘fine dicitore’ può ritenersi soddisfatto: nonostante tutte le vicissitudini ha ripreso di nuovo il centro della scena.
Nessuno fa caso a quello che succede sul tavolo dove fiori ormai strapazzati mostrano gli evidenti segni degli abusi.
Ecco che da lì si libra una farfalla bianca, una cavolaia, però di dimensioni un bel po’ più grandi.
Prima oscilla su quei fiori: un osservatore vicino potrebbe vedere la sua proboscide retrattile ritirarsi da lì senza nutrimento alcuno.
Così la farfalla si sposta nella direzione del ‘fine dicitore’, gli fa delle danze intorno, così come sanno fare le farfalle.
Inizialmente lui non ci fa caso. Anzi, nel profondo, si sente quasi lusingato che questa piccola fanciulla (pardon, farfalla!) lo circondi di tali attenzioni: quanto da dire, quanto da dare ancora nelle relazioni… non è un uomo finito!
Ma poi la farfalla incomincia ad essere invadente: persino in sala si trattiene il respiro quando l’insetto si posa sulla fronte di lui sbattendogli le ali sugli occhi. Poi sembra che lei si allontani andando a svolazzare sullo scrittoio, poi fa una puntata sull’arazzo della scena bucolica e poi ritorna in scena. L’attenzione del pubblico ormai è calamitata lì, su quei volteggi misteriosi ma che forse sono carichi di messaggi!
Qualcuno si è persino alzato in piedi perché teme di averla persa di vista. Certo che bella è bella. E leggiadra anche! Ma perché crea ansia? E’ portatrice forse di qualche oscuro presagio che contraddice la sua bellezza e il suo candore?
Un osservatore che guardasse la platea da lontano vedrebbe oscillare quelle teste come onde in movimento: gente che si alza e gente che si siede e i bisbiglii si fanno più fitti: ma gli spettatori continuano a sentirsi inchiodati lì.
Ecco la cavolaia riprendere la centralità della scena: fa delle danze attorno al corpo del ‘fine dicitore’, avvicinandosi e allontanandosi in modo imprevedibile. Ormai tutto il pubblico è in piedi con il fiato sospeso.

Chiamato a gesti dal nostro, arriva un cameriere portando una delle prime bombolette al DDT. Ma il ‘fine dicitore’ ormai ha perso ogni lucidità e inoltre non ha dimestichezza con la pragmaticità per cui si spruzza sul viso il contenuto della bomboletta pensando di colpire la farfalla che invece volteggia davanti a lui. E cade a terra.

Oh! Esclamazione corale di stupore!

Il pubblico vorrebbe salire su quel palco ma nello stesso tempo è terrorizzato.

Su quel palco dove ora giace stordito il ‘fine dicitore’ mentre la farfalla gli passeggia indisturbata addosso.

Conegliano, 10.05.2023

6 pensieri su “Il “fine dicitore”

  1. Interpreto (ossia “associo” le mie fantasie di reazione): il fine dicitore è chi (chiunque) scrive, parla, recita, vive la sua vita. Il pubblico è il coro antico della tragedia: essenziale e partecipe testimone della reale tragicità del fato. Gli aiutanti che intervengono in scena sono le necessarie relazioni sociali: non si parlano. La farfalla banale cavolaia è la banalizzazione dell’angelo della morte. Poi, i fiori, sono le evocate rose che non colsi… Altro che divertissement!

  2. mi à venuto spontaneo di confrontare la prima narrazione autobiografica e improntata al realismo del dopoguerra con la seconda, apparentemente di pura finzione, una pièce teatrale dall’umorismo macabro…Subito la diversa ambientazione colpisce: da una parte la povera camera di 15 metri quadrati dove vive un’intera famiglia molto disagiata per povertà e malattia e dall’altra la stanza- studiolo dall’arredo ricercato e prezioso…
    Da una parte una bambina costretta a confrontarsi con ristrettezze gravissime che vanno a colpire i bisogni primari. Una bambina, fortunatamente ricca di talento e di immaginazione, doti di cui è pienamente consapevole, che si sente immeritatamente trascurata dai genitori, in particolare dalla madre…
    Dall’altra un uomo elegante nel suo raffinato ambiente borghese che si osserva compiaciuto nel grande specchio e vuole essere in primo piano al centro del palcoscenico come “fine dicitore” di se stesso…
    Da qui scaturisce, tragicomico, un movimento globale che scombussola l’ordine prestabilito: la natura “globale”, umana animale e vegetale, sembra allearsi, come in una congiura ben ordita, nel guastare la scena al primo attore…fiori che imputridiscono in mano, cagnolino e cagnolone, usciti dal nulla, che, candidi e maldestri, fanno crollare la bella scenografia…Infine la grande farfalla cavolaia che farfaleggia distraendo il pubblico e svolazza proprio sulla faccia del malcapitato primo uomo, talmente confuso che spruzza Il ddt sul suo viso, anziché sull’insetto “E cade per terra”…
    Sembra una vendetta ben riuscita…Infine una certa simpatia anche verso il fine, ma anche ingenuo, dicitore

  3. Grazie anche a te Annamaria. Utilizzando il contributo di Cristiana, nonché il tuo, mi viene da aggiungere che il ‘rispecchiamento/confronto’ tra una prima e una seconda parte c’è. Fra un mondo in cui – sto semplificando al massimo! -, sia pure con movimenti dolorosi, le relazioni sociali c’erano e si palesavano per quel che erano e un mondo in cui ci sono solo oggetti (i quali, pur avendo una storia, stanno lì, mute presenze di arredo). Il dopoguerra è forse il momento più problematico perché viene rimesso in campo tutto un apparato emotivo costretto prima a tacitarsi a causa della necessità all’azione che lo stato bellico impone. Così si presenta lo scenario delle ipocrisie. No. Annamaria: non mi sono sentita abbandonata da mia madre, dalla mia famiglia e nemmeno dalla comunità in cui vivevo. Il sentimento dell’abbandono non riguarda la presenza ‘fisica’ bensì esserci o non esserci nella mente di qualcuno. Io sentivo che ero presente nella loro mente così come loro erano presenti nella mia. L’abbandono ha a che vedere con l’indifferenza, con il non dare valore alle relazioni se non viste in un’ottica di profitto, ottenerne qualche cosa. Ed è questo non sentirmi abbandonata che dava via libera all’osservazione , senza mirare ad un interesse. E scoprivo che un conto erano i paesani i quali, avendo io mio padre malato di tisi, avevano paura del contagio e mi tenevano fuori dai negozi nell’attesa che si svuotassero. Ma quella paura era comprensibile perché nessuno aveva spiegato loro niente: tant’è che andavo regolarmente a scuola e alle funzioni sacre! Ciò che mi faceva invece paura era l’ipocrisia dei vincitori e dei loro lacchè. Le Dame Caritatevoli che dietro le carezzine alla ‘povera bambina’ la facevano lavorare sodo allo smistamento dei pacchi UNRRA ma poi per lei e la sua famiglia rimanevano i prodotti avariati (la pasta con le farfalline… certo, tutto quello che non strozza, ingrassa, diceva mia madre … ma…). Questo aspetto viene adombrato nelle piece teatrale quando il ‘fine dicitore’, fa le carezzine sulla testa del cane ma poi “sciò, via”. Un mondo in cui alle relazioni si sono sostituite delle ‘meccaniche’, degli automatismi. Il mondo delle merci. Nemmeno i cani possono abbaiare (non si abbaia nella chiesa del sistema!), tutt’al più si guaiola se ti pestano la coda.
    Per queste cose patisco più oggi il mio disagio economico e fisico perché si colloca in un mondo di indifferenza. Passi (si fa per dire) per ciò che riguarda le istituzioni volte soltanto a garantirsi la loro sopravvivenza, ma ciò che più ferisce è il ‘non esserci’ nella mente delle persone di cui ti fidavi e alle quali avevi giurato fedeltà o persone amiche rivelatesi non in grado di assumersi responsabilità: fin che si ride e si scherza… va tutto bene! Ma poi…
    Quanto al finale, no, nessuna vendetta… sono sempre stata aliena dal pensare che la ‘natura’ si vendichi’ dei soprusi a cui l’abbiamo sottoposta: la natura fa ciò che deve fare a prescindere dalle nostre smanie di onnipotenza da un lato e di sensi di colpa dall’altro.
    Quanto alla ‘simpatia’ per il ‘fine dicitore’, andrei piano con questo sentimento. Ci sono delle differenze tra la simpatia che proviamo per alcune persone che definiamo “simpatiche canaglie” ma che hanno in sé una dose di innocuità, e la simpatia che ci viene estorta dalle persone perverse… e lì sì che ci sono guai seri perché entriamo anche noi in una logica perversa: “in fondo che male c’è, è una simpatica persona!”

  4. grazie davvero Rita per i molti spunti di riflessione che hai lasciato a me e a noi tutti del blog…e per le preziose confidenze sulla tua infanzia svantaggiata, ma vissuta con coraggio e pietà per la condizione degli ultimi…
    Si’, la natura non si “vendica”, un’interpretazione scioccamente antropomorfica, ma forse “per natura” tende (millenni?) a quell’equilibrio, che noi umani chiamiamo giustizia…con la lentezza degli alberi, il volo degli uccelli, le acque “in rivolta” (sempre ci cado) …
    Mi dispiace per i tuoi attuali affanni, tra l’altro mi rispecchio nei tuoi disturbi e nel vuoto che senti…Devo dirti che è spesso ancora la natura a “consolarmi” e a farmi sentire “amata”. Ciao Annamaria

  5. … pure le umane persone rientrano nella natura, certo, e molti sono i motivi per essere riconoscenti e continuare ad amare la vita… non saremmo giunte i fin qua…postilla
    Ancora ciao

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