Verso il tempo della resistenza al tempo

di Donato Salzarulo

«Ogni notte incontriamo la madre»
Christopher Bollas

1.- L’altra notte ho sognato mia madre. Nell’ultimo mese l’ho sognata spesso. Una volta silenziosa e perplessa, un’altra volta più loquace e sorridente, certe volte ammonitrice, altre biasimante. L’altra notte mi è sembrata particolarmente ispirata e quasi felice.
Dopo lo scompenso cardiaco del 1972, quando ebbi il timore che da un momento all’altro potesse morire, decisi che sarei andato a trovarla ogni giorno, anche solo per mezz’ora. Sarei andato a trovarla, le avrei misurato la pressione (ho ereditato un pacco di fogli con su scritti i risultati giornalieri), e avrei scambiato quattro chiacchiere con lei. Quattro chiacchiere a ruota libera, riguardante la sua salute, la sua storia, le relazioni parentali, i rapporti con le sorelle, con i figli, con le nostre famiglie, pensieri, emozioni, sentimenti. Storie insomma di varia umanità. Conosceva da sempre il mio amore per la poesia e ogni tanto mi raccontava di aver ascoltato alla radio – ne teneva sempre una accesa a farle compagnia in cucina, sul frigorifero – che il tale poeta era morto, un altro aveva preso il premio, un altro ancora aveva pubblicato il suo ultimo libro, e così via.
Mia madre aveva frequentato la terza elementare e ogni tanto recitava a memoria qualche poesia imparata a scuola. Ricordava, però, di più le poesie che, nei lunghi inverni bisaccesi, di fronte al camino, noi figli continuavamo a ripetere ad alta voce per impararle, a nostra volta, a memoria. Lei, lo ricordo benissimo, era letteralmente innamorata di “Breus”  («Viveva con sua madre in Cornovaglia / un dì trasecolò nella boscaglia / Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro / vide passare un uomo tutto ferro»), de “La cavalla storna” («Nella torre il silenzio era già alto. / Sussurravano i pioppi del Rio Salto»), di “Pianto antico” («L’albero a cui tendevi / la pargoletta mano, / il verde melograno / da’ bei vermigli fior») e decine di altre poesie. Appena tornavamo da scuola, voleva sapere che compiti avevamo e, quando c’erano racconti da leggere o poesie da imparare a memoria, voleva essere coinvolta. Non soltanto lei. Capitava che in casa ci fossero delle zie o degli zii e, in questi casi, anche loro ascoltavano volentieri la leggenda del rododendro o quella del pettirosso, “Rosso Malpelo” o “La roba”. Non c’era la televisione (o non la possedevamo) e gli adulti che non erano andati a scuola utilizzavano i figli come fonte di apprendimento.
Mia madre non voleva fare la poetessa, ma ogni tanto dava alla sua voce un’intonazione, per così dire poetica. Esattamente ciò che fece in sogno l’altra notte. Si presentò a me con un foglio in mano, mi disse che aveva scritto una poesia e voleva conoscere il mio parereIntonò la sua bella voce nel modo che le conoscevo e cominciò a recitare:

«Per i mondi passati,
per i suoni presenti,
per tutto quello che rappresenti
suonano finalmente le note
del gentil pensiero
come suonano gli echi
del dondolio perenne della mia bimba
che non conosce l’ala del finire
e che sempre si lascerebbe cullare
dal cerchio sospeso
ancora e ancora.
Io come lei attendo il volo,
io come lei vivo nel viaggio interno
quello senza meta, senza turistici pensieri.
Lasciando sempre aperto il cancello
del nostro cielo
del finito assente
noi che sappiamo ricucire le ali
ai versi spezzati
noi andremo insieme verso il tempo
della resistenza al tempo.»

Mia madre mi recitò diverse volte la poesia come se volesse favorirne il mio apprendimento mnemonico. Così, appena aperti gli occhi, mi precipitai sul primo bloc-notes a portata di mano per non dimenticare la manciata di versi ricevuti in dono. Versi che già nel sogno mi erano apparsi particolarmente interessanti ed ispirati. Considerazione che non mancai di comunicarle: «Bravissima, mamma!… Tu sei una poetessa, altro che!… Se avessi potuto frequentare la scuola oltre la terza elementare, che grande lustro avresti dato a te stessa e alla nostra famiglia…Sei un genio…»
Mia madre si schermì. Mi recitò per l’ultima volta i versi e prese il volo di cielo in cielo come Beatrice nel Paradiso dantesco. S’inabissò nell’assenza.
Al risveglio, oltre a trascrivere nel miglior modo possibile i versi, rispettando le pause che lei mi sembrava avesse osservato, mi sentii particolarmente soddisfatto. Sarà pure un testo onirico, mi dissi, ma è un bel testo, degno di un mio commento e di un’eventuale interpretazione.

2.- So che la mamma a passeggio nottetempo per i miei neuroni è il risultato di una mia costellazione psichica formatasi in quasi tre quarti di secolo. Mia madre era nata nel 1923 ed è morta nel 1999. Io sono nato nel 1949. Cinquant’anni li ho trascorsi con lei viva e altri ventiquattro con lei morta, ma vitale dentro di me: «noi andremo insieme verso il tempo / della resistenza al tempo». Questo è il suo desiderio, il suo augurio, la sua quasi certezza. Per Virginia Woolf il tempo è pura morte, respiro della vita che scema. Andare “verso il tempo della resistenza al tempo” significa andare verso un tempo che non sia morte, esaurimento di vita, sfinimento, dispersione, scemare di forze ed energia. Cosa resiste al tempo? Forse questa poesia con cui mia madre intende accompagnarsi a me. Forse i suoni, le note musicali del “gentil pensiero”.  Ecco è su questo primo sintagma che s’appunta la mia attenzione. Probabilmente nel cielo del “finito assente”, dove lei si trova, ha incontrato Dante e il sommo poeta le ha recitato quel sonetto della “Vita Nuova” che fa: «Gentil pensero che parla di vui / sen vene a dimorar meco sovente, / e ragiona d’amor sì dolcemente / che face consentir lo core in lui.» Quale sia il “gentile pensiero “di Dante è facile da comprendere: è quello della donna “gentile e pietosa” che dimora spesso col poeta e ragiona così dolcemente d’amore che il cuore è d’accordo con esso. La sua anima è totalmente assorbita in quest’unico pensiero. Ma in cosa è assorbita l’anima di mia madre?… Al di là della tonalità indubbiamente dolcestilnovistica, le note musicali del “gentile pensiero”, che per mia madre finalmente emettono suoni, lo fanno per i “mondi passati”, per caratterizzare i “suoni del presente” e “per tutto quello che rappresenti”. Qui compare, sottinteso, un Tu. È un Tu che s’identifica col “gentile pensiero” dolcestilnovistico? Non ricordo se nelle nostre quattro chiacchiere giornaliere abbiamo mai parlato di Dolce Stile. Sicuramente il nostro rapporto d’amore era fondato sulla gentilezza, sulla nobiltà d’animo, sul desiderio di affinare e migliorare le nostre vite interiori, ma escludo che ci fossimo messi a parlare di Cavalcanti e Guinizelli. Dante sì. Del padre della lingua italiana e di Beatrice non mancarono occasioni. Ho letto riduzioni della Divina Commedia fin dalla quinta elementare e dalla scuola media. E mamma buttava sempre l’occhio su ciò che leggevo. I libri proibiti dovevo nasconderli sotto false copertine e leggerli lontano da lei. Comunque, siccome io, a partire dal 1965, col Dolce Stil Novo ho trafficato parecchio, avrà probabilmente orecchiato qualcosa. Secondo me, anche questa sua insistenza sui “suoni” e sul “suonare” del pensiero e della lingua è indicativo dell’idea abbastanza musicale che si era fatta della poesia. Amava, per così dire, il dantesco “legame musaico” tra le parole e i pensieri. Così, dopo aver tirato in ballo il “gentil pensiero”, una similitudine di suoni musicali portano in primo piano “gli echi / del dondolio perenne della mia bimba / che non conosce l’ala del finire / e che sempre si lascerebbe cullare / dal cerchio sospeso / ancora e ancora”. Chi è questa “mia bimba”?… Mia sorella? Lo escluderei. Mi piace pensare che sia lei. Bimba malaticcia, fragile, affetta da febbri di malaria in qualche masseria del Tavoliere delle Puglie un po’ protetta dalle sorelle più grandi e, soprattutto, dal padre che, come ripeteva lei, aveva “testa e testone”. Uomo praticamente di notevole cuore e intelligenza che, riamato, amava le cinque figlie. Gli echi del dondolio perenne erano certamente quelli di un’altalena. In questo non finire, in questa ripetizione (“ancora e ancora”) di un gesto e di un gioco si coglie un tipico meccanismo infantile legato ad una sorta di piacere della ripetizione. Chi ha insegnato in una scuola dell’infanzia o in una primaria questo meccanismo lo conosce bene. Lo conoscono anche le madri e i padri attenti: “Ancora e ancora”.
L’Io poetante, a questo punto, si paragona alla bimba e vive come lei nell’attesa del volo (altalenante), vive come lei nel “viaggio interno”, ossia nel viaggio intimo, interiore, quello che non ha un luogo d’arrivo (forse neanche mortale), che non ha i pensieri tipici del turista. Indubbiamente, mia madre non è stata una turista della vita. Era curiosa, le piaceva conoscere qualche luogo nuovo, ma fondamentalmente amava i suoi viaggi mentali. Era una donna che tempestava di domande non solo me o mio fratello o mia sorella, ma anche il primo nostro amico che le capitava a tiro. Con gli anni io sono diventato molto più silenzioso di lei, molto più simile a mio padre.
L’ultimo nucleo poetico si apre con un gerundio: “lasciando”.  Il nostro cielo è quello del “finito assente”; a differenza della bimba che “non conosce l’ala del finire”, noi quest’ala la conosciamo. «Ogni storia deve finire / ogni pigna di glicine sfiorire.» le scrissi alla sua morte. Noi viviamo in questo cielo. C’è chi è “assente” come mia madre e chi, prima o poi, si renderà assente. L’importante, però, è lasciare aperto il cancello. Infatti, mia madre è uscita da questo cielo e l’altra notte è venuta a regalarmi la sua poesia, una poesia caratterizzata dalla sapienza dei poeti: quella di saper “ricucire le ali / ai versi spezzati”. Lavoro stupendo. I versi spezzati sono caratterizzati da enjambement; per coglierne il significato complessivo occorre ricucire, rimetterli insieme. Io e mia madre siamo dei versi spezzati. Solo ricucendo le nostre ali è possibile farci volare e farci diventare colombi viaggiatori nel tempo. Solo così possiamo cogliere il momento d’essere, il kairos della resistenza al tempo.

28 giugno 2023

1 pensiero su “Verso il tempo della resistenza al tempo

  1. Da vecchi… torna la mamma. La mia, quando morì, aveva 84 anni, invocava la mamma, la sua. Come ci ha fatto *venire* al mondo, così ci prepara a una dimensione perenne, quella dell’infinito attuale, che è tutto in tutto: pensieri, memoria, visione dell’immenso futuro. “Mamma parlami di Gesù”, diceva il titolo di un libretto insistentemente rammemorato a noi bambini/giovani, mille anni fa. Il senso è quello, la continuità della vita è una apertura a qualcosa che intuiamo senza poter nominare, è questo “il tempo” -ciò che intuiamo- “della resistenza al tempo” – il ritorno alla/della madre.
    (Se posso polemizzare con delicatezza: non vorrei che il richiamo al kairos rappresentasse una specie di aggrapparsi dell’esistenza alla vita, in cui tutto confluisce, anche il sogno della madre… e finisce. Non che io sappia che, invece, c’è un oltrevita… ma esiste l’invisibile e per noi è affidabile. Più di così non saprei dire.)

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