Nel numero 171-172 della rivista Erba d’Arno, diretta da Aldemaro Toni, è stata pubblicata questa mia recensione al libro di Sonia Serazzi, Non c’è niente a Simbari Crichi, che ci tengo in modo particolare a far conoscere ai lettori di Poliscritture. La scrittrice è nata a Napoli nel 1971 e vive in un piccolo paese della Calabria, dove è tornata per scelta dopo essersi laureata a Perugia. Questo è il suo libro di esordio uscito nel 2004, che sempre l’editore Rubettino ha ripubblicato nel 2020. Ne sono arrivato a conoscenza leggendo il saggio La restanza dell’antropologo Vito Teti (Einaudi 2022), dove viene citata insieme ad altri autori per questo loro, non so se chiamarlo desiderio oppure bisogno, così lo chiamo incontro con la realtà dei piccoli paesi dell’entroterra non toccati dal turismo, che vivono il loro lento abbandono e spopolamento in una indolenza che sembra abbia la forza di sospendere il tempo. Oltre al libro interessato da questa recensione la Serazzi ha pubblicato, sempre per Rubettino, il romanzo breve E le ortiche c’hanno sempre ragione (2006) e Il cielo comincia dal basso (2018). Buona lettura… (a. a.)
Una bella sorpresa, i racconti di Sonia Serazzi
Quando leggo un libro di narrativa contemporanea spesso ho come l’impressione che ci sia dietro qualcosa di falso. Intendiamoci, i romanzi e i racconti (più i primi dei secondi, visto che sul mercato il racconto non sembra suscitare interesse) sono scritti bene, il ritmo scorre, hanno la punteggiatura messa lì dove deve stare, le trame duplicano in finzione quello che accade nel mondo contemporaneo; problemi con i quali è scontato identificarsi perché ormai ci giungono da più parti prima che se ne occupi la letteratura. Senza il suo punto di vista specifico con la narrativa è un po’ come stare sul carico di un camion che sa guidare solo il lettore. Il problema non sta in un linguaggio che più o meno si assomiglia, o almeno non è solo questo, ma purtroppo, per quello che mi riguarda, nel fatto che già dopo aver letto un po’ di pagine sono in grado di intuire quale sia la trama, la struttura della storia, la banalità di un’idea che chi scrive vuole trasmettere. Culturalmente parlando stiamo assistendo al tramonto di quella tipologia di “scrittori sentimentali” – come li definisce Orhan Pamuk – che in quanto a cimentarsi con problemi di stile e tecnica ha dato il meglio di sé nella letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nella narrativa di oggi si ha spesso la sensazione di trovarsi di fronte a bravi studenti che hanno imparato la lezione, a fatica ma bene, al punto di poter duplicare, con l’ausilio di un progetto commerciale, un certo prodotto all’infinito. Mentre è quasi del tutto assente, o almeno trascurata in pieno, la cosiddetta tipologia di “scrittore ingenuo” (sempre per citare la divisione in tipologie fatta da Pamuk), quella cioè del cosiddetto talento che scrive per istinto, spontaneamente, modellando sulla propria capacità creativa il linguaggio che gli è più naturale, capace di aggredire la realtà di uno spazio e di metterlo in scena con il filtro della finzione. In realtà anche Italo Calvino ormai lamentava la mancanza di una narrativa cosiddetta ingenua ancora capace di meravigliare il lettore con la sua originalità, in grado di indicare altre strade sulle quali rigenerare se stessa in senso vitale. Lo spazio in cui si forma e sviluppa questa consistenza poetica può avere anche le dimensioni di un fazzoletto di terra, ma è qui il bello: quel piccolo universo fantasioso e libero del fazzoletto di terra può trasformarsi grazie alla sincerità di una lingua parlata o immaginata dove stile, tecnica, ritmo, sono guidati dal sincero bisogno di raccontare. Sono un tutt’uno.
Il libro di Sonia Serazzi Non c’è niente a Simbari Crichi, pubblicato da Rubettino nel 2004 e ristampato nel 2020, secondo me è una bella sorpresa che va in questa direzione. Parte da un punto marginale per farci comprendere quanto sia ancora importante la musicalità di una lingua viva che nel procedere per immagini ha il coraggio di utilizzare anche storpiature dialettali. Si tratta di una raccolta composta da sette racconti, ambientati in una Calabria indolente e ormai ancorata alle sue incrostazioni, dalle quali emerge il significato della vita nel più crudo e solidificato scorrere quotidiano. Simbari Crichi è un paese che vive solo grazie all’immaginazione della scrittrice, non lo trovi segnalato in nessuna cartina geografica della Calabria, e forse è proprio per questo motivo che i racconti vestono il particolare di un qualcosa di universale. È una terra che non esiste, dove però l’assurdo del vissuto stravolge la realtà di una società meridionale confinata tra gli argini di se stessa, una società che non accetta l’esistenza di alcuni valori culturali in grado di far riflettere in modo critico sul quotidiano e che alla fine costringe i personaggi a sviluppare l’ingenua voglia di vivere stando incollati a piccole incombenze e magari a perdersi innocentemente in evanescenti sogni di successo prospettando una via di fuga.
In questi suoi racconti Sonia Serazzi ci fa conoscere un mondo vivo e ricco di poesia nel contrasto con il vuoto esistenziale che avvolge le abitudini della comunità, costringendo i personaggi a lottare con un ambiente che ha avuto un potere enorme nel modellare le loro esistenze. La quattordicenne Marcellina Scatalascio detta Cazzatagrande, soprannome che gli viene appioppato perché ha il vizio di scrivere cose vere “al mille per mille” e per la gente diventa invece una “fabbricante di storie inventate”. Il triste professore Bradamante Sirace. Fortunato Sirianni e i suoi amici che se non scaldano le sedie del bar giocano con la cagna riparati da uno spicchio d’ombra. La famiglia di Lulù, e poi quella di Cenzo Riscambiolo che sposata Rafela la ingravida undici volte, vedendosi costretto dall’ottavo figlio in poi a cederli a scambio di qualcosa di utile per la casa o il proprio piacere; Pavula, la folle, che è nata con un occhio nero e l’altro marrone. Laura Straniti e Ines, soprannominata Zuccheriera perché nonostante la sua bruttezza è stata con una caterva di maschi. Queste le persone che danno vita ai racconti, tutte lontano anni luce dagli aspetti pratici della vita che, per la loro assenza di qualità, appare improbabile possano aspirare ad essere degli eroi. Si tratta di persone semplici, a suo modo pure, che si scontrano con una realtà dalla quale sperano un giorno di fuggire, impegnati ad inscenare una strategia dell’illusione che li riscatta umanamente grazie alla spiazzante potenza linguistica della scrittura.
marzo 2023
Simbari Crichi, un luogo del mondo e fuori dal mondo,un Sud Italia dove il tempo sembra essersi fermato per la volontà di alcuni ostinati personaggi, che trascurati al massimo dalle cosidette istituzioni, si arroccano nelle loro consolidate forme di vita, ai margini, stravaganti, come vedere persone camminare a tasta in giu’…Eppure c’è l’ostinata denuncia di rivendicare se stessi, contro ogni forma di costrizione demagogica, anche pseudomorale…Non ho letto il romanzo, ma sembra trattarsi di un testo dirompente…
Ho sempre amato la narrativa, ma ultimamente anche per problemi di vista, leggo molto meno…Riguardo agli interrogativi e ai dubbi suscitati da Angelo Australi sulla narrativa contemporanea, sono sostanzialmente d’accordo. Mi succede di sorprendermi ad una lettura quando, ma la cosa è molto soggettiva, il racconto riesce a sollevare veli di dimenticanza, di indifferenza e mi riporta ad emozioni sepolte, ma anche ad idee mai esplicitate, dove una storia ne comprende molte altre e mi immette nella circolarità della vita…Sulla spontaneità dello scrivere, coniugando il reale con la “finzione” del vissuto dello scrivente e della scrittura, sempre personale, mi sembra un concetto ancora da svolgere, difficile da definire, o forse impossibile