IL MANZONI DI FORTINI (I)
di Donato Salzarulo
É di notevole interesse la nota manoscritta di Fortini aggiunta, la sera del 22 maggio 1973, al testo della conferenza, tenuta all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico, in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Alessandro Manzoni.
Si può leggere in «Saggi ed epigrammi» (a cura di Luca Lenzini, Mondadori, 2003) da pag. 1796 a pag. 1799.
Comincia col riferimento al vissuto di ogni studente italiano: l’obbligo di leggere i «Promessi sposi». Per la stragrande maggioranza, «un vangelo di noia nazionale». Confermo. Ho letto con una certa soddisfazione e riga per riga questo libro a trentacinque anni suonati, stimolato da un’amica milanese, manzoniana fervente, e da un saggio di Vittorio Spinazzola che lo definiva «il libro per tutti». Almeno nelle intenzioni dell’autore. In realtà, libro che quasi tutti sono stati costretti a leggere. Al di fuori del canone scolastico, probabilmente, l’avrebbero fatto in pochi o pochissimi.
Annota Fortini: «Nella mente dell’italiano medio rimangono alcuni fantocci e l’onda di alcune pagine liriche». Confermo ancora. Oltre a Renzo e Lucia, che mi apparivano giovani manichini d’altri tempi, avevo in testa il fantoccio vigliacco di Don Abbondio e quello prepotente di Don Rodrigo, il fra Cristoforo che ripara in convento e la monaca di Monza… «La sventurata rispose». Poi c’erano gli attacchi lirici imparati a memoria per obbligo: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…» e «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo…».
«Le pagine storiche – che sono fra le più belle del libro – pochi le leggono.» Infatti. Continua Fortini: «A diciotto anni si fanno leggere alcuni passi delle tragedie, qualche poesia, qualche pagina di teoria letteraria». Verissimo. Io ricordo il primo coro dell’Adelchi e quello dell’atto IV su Ermengarda: «Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, / Dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / Dai solchi bagnati di servo sudor, / Un volgo disperso repente si desta» e «Sparsa le trecce morbide / sull’affannoso petto / lenta le palme, e rorida / di morte il bianco aspetto» Questo coro mi seduceva di più col suo alternarsi di verso sdrucciolo e piano, sdrucciolo e piano.
Quanto alle poesie, eccezion fatta per «Il cinque maggio» e per «Marzo 1821» imparate a memoria con i due cori fin dalla terza media, non ricordo molto. Forse fui avvicinato a qualche inno sacro: «La Risurrezione» o «La Pentecoste». Ma non ci giurerei. Valga lo stesso per le pagine di teoria letteraria.
Il giovane che sono stato si ritrova quasi del tutto nelle parole della nota di Fortini: «I giovani non capiscono quei ritmi saltellanti [quelli, ad esempio, del coro sulla morte di Ermengarda], quella musica che sembra teatrale, quella saggezza repressiva; amano Leopardi materialista e fratello della morte, non Manzoni che parla loro con la voce del prete e dei buoni sentimenti. I giovani non possono sapere che la letteratura è una menzogna che dice la verità. Vogliono la verità subito. Manzoni non li interessa.» (pag. 1796). Verissimo. Parecchi anni fa Ugo Dotti intitolò un suo saggio: «Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi» (Editori Riuniti, 1986). Evidentemente non è soltanto un topos giovanile. Tuttavia, dei pensieri di Fortini, al momento, non mi attrae questo. É l’aforisma che, a prima lettura, ho sottolineato a matita: «la letteratura è una menzogna che dice la verità.» In che senso? Inizialmente penso alla critica di Marx alla religione, «sospiro della creatura oppressa», «anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito». La religione rappresenta un’illusione, una menzogna che dice, però, la verità sulla condizione sociale “capovolta” degli esseri umani: «è l’uomo che fa la religione, e non la religione che fa l’uomo». La letteratura un po’ le somiglia. Ho in mente anche le pagine su “arte e proletariato” in «Non solo oggi» (a cura di Paolo Jachia, Editori Riuniti, 1991). Poi, ci ripenso e mi ricredo. Forse l’aforisma richiama la frase manzoniana sul «vero veduto con gli occhi della mente». M’incuriosisco. Voglio capire quale sia il luogo da cui Fortini trae l’espressione. Lo trovo. É nella prima parte del testo di Manzoni sul “romanzo storico”:
«L’arte è arte in quanto produce non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in questo senso, è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello; giacché il verosimile (materia dell’arte) manifestato e appreso come verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno.» (http://www.classicitaliani.it/manzoni/prosa/manzoni_romanzo_storico_01.htm, pag.10) Riaffiora, a questo punto, il ricordo dei due concetti relativi alla poetica manzoniana più spesso ripetuti nelle aule scolastiche: il vero del reale e il verosimile dell’arte. Quando non tratta volutamente di favole e/o corbellerie varie, la letteratura è una menzogna perché, comunque, si occupa di verosimili. Ma questi non sono oggetti mentali secondari, disdicevoli o indegni. Producono “effetti definitivi”, dei veri irrevocabili. Il saperli frutto d’invenzione, di finzione, illusione o inganno non li annienta. Manzoni, continuando, fa un esempio: «Nulla può fare che una bella figura umana, ideata da uno scultore, cessi d’essere un bel verosimile: e quando la statua materiale, in cui era attuata, venga a perire, perirà bensì con essa la cognizione accidentale di quel verosimile, non certamente la sua incorruttibile entità.» Detto in altre parole: l’entità di un bel verosimile, una volta concepito, rimane tale per sempre, al di là degli oggetti artistici in cui occasionalmente e casualmente si attua. «Una volta per sempre» titola manzoniamente Fortini la sua raccolta di poesie. Mi vengono anche in mente certi passaggi di prosa di Baudelaire dedicati a scrittori e pittori. Ma preferisco tornare alla nota. I giovani, quindi, non amano
Manzoni. Vogliono la verità subito.
Prosegue il poeta: «Questi giovani hanno torto. La “verità subito” è l’illusione eternamente romantica di chi rifiuta la pazienza dell’incarnazione, la categoria della mediazione. Certo, si può non leggere Manzoni. Si può non leggere nulla. Ma se si pensa che l’uso letterario del linguaggio possa condurre chi legge e chi scrive ad una conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio, allora l’esperienza della scrittura manzoniana potrà apparire come salutare contro le mitologie dell’immediatezza e la perpetua, la da un secolo ricorrente illusione della avanguardia come rivolta dell’impotenza.» (pag. 1796)
C’è di che meditare: la pazienza dell’incarnazione. Conosciamo la parola. L’abbiamo udita da bambini. Dio assunse il corpo del figlio Gesù per redimere l’umanità dal peccato originale. Magari, abbiamo anche sentito ripetere le parole iniziali e più filosofiche del Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1, 14). Non è necessario essere cristiani per capire quale sia il problema che si vorrebbe risolvere con questa parola-azione: l’essere perfetto, l’infinito, l’eterno, l’incorruttibile, il concetto non sottoposto al divenire, l’astratto (bellezza, giustizia, verità, uguaglianza, ecc.) non se ne stanno immobili e per i fatti loro nel platonico regno delle idee o dell’iperuranio. Si fanno carne, persona, figura, rappresentazione concreta, finita, particolare. Il qui e ora è incarnazione continua dell’eterno. L’infinito e il finito che le nostre menti colgono come astrazioni, distinguendole e separandole, in realtà sono mediate. La verità è sotto gli occhi, ma se quegli occhi non avvertono l’infinito trascendere delle cose, delle persone e degli eventi sono ciechi. Chi rifiuta di mediare l’essere e il divenire si condanna all’impotenza.
Se incarnazione è parola-azione proveniente dal mondo cristiano e artistico, mediazione a cui Fortini l’accosta è, come correttamente la definisce, una categoria; gli arriva dalla filosofia hegeliana. Procedura discorsiva e razionale, essa si oppone all’evidenza intuitiva del qui ed ora, alla sensibilità del sentimento e all’opacità della fede. Nel sistema dialettico ha una sua pregnanza ontologica. La Natura, ad esempio, è termine medio tra l’Idea e lo Spirito. La mediazione è un processo sempre all’opera nell’antitesi che collega e rende immanente l’uno all’altro gli opposti iniziali: l’infinito e il finito, l’ordine e il disordine, il razionale e il reale, ecc.
A scuola abbiamo imparato la massima di Hegel: “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”. Capirla, comprenderla, viverla è un’altra storia. Diciamo che ognuno di noi è lacerato tra l’essere e il dover essere, tra il bene-male che quotidianamente vive e il bene che vorrebbe o desidererebbe. Se poi il bene diventa una “tentazione” peggiore del male, direi che siamo messi malissimo.
Comunque, questo è Fortini che legge Manzoni. Da un lato è convinto che la letteratura, in quanto menzogna che dice la verità, possa consentirci «una conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio»; dall’altro insiste sulla necessità di scegliere, tra le esperienze di scrittura, quelle che ci mettono in guardia dalle mitologie dell’immediatezza, dalle illusioni e fantasticherie romantiche dell’intuizione, della percezione sentimentale. Leopardi piace ai giovani? É scontato. Proprio per questo hanno torto. Devono non farselo piacere.
Leopardi non è un ribelle, ma un filosofo materialista. Come tale, il Bello che persegue accanitamente è anche Tragico perché illude, non è il piccolo bene ideale umano ma la Contraddizione tra la Materia indifferente e le sciocche aspirazioni. Ai giovani piace Leopardi e non il saltellante e noiosissimo Manzoni moralista? Bene fanno, perché piace loro a una età in cui è opportuno comincino a misurare la distanza tra l’illusione e l’indifferente reale. (A meno che non decidano, come Manzoni, appunto, di credere che la Provvidenza non solo la c’è, ma regge l’universo.)
ringrazio Donato Salzarulo per aver portato all’attenzione i due scrittori dell”800 Manzoni e Lepoardi, cosa che mi ha richiamato alla mente il mio primo approccio a questi autori, quando ero anch’io giovane, forse non del tutto dissimile da quello dei giovani d’oggi…Ricordo quando la prof. di lettere ci annuncio’ che l’anno successivo avremmo letto “I Promessi Sposi” e che si trattava di un libro bellissimo, ma ci nascose il fatto che era di difficile lettura…Curiosa, iniziai la lettura del romanzo durante l’estate, ma purtroppo non riuscivo a leggere oltre le famose “grida” spagnole…Ripresa la lettura a scuola e, grazie a spiegazioni e commenti della mia brava insegnante, amai molto quel romanzo. I personaggi, piuttosto stilizzati e astratti, sostenevano le pagine storiche (o viceversa) in una trama esemplare, quasi da romanzo d’appendice, e c’era una visione chiara e coraggiosa, una presa di posizione verso gli ultimi, le vittime…Ancora piu’ chiaro mi fu il notevolissimo impegno di Manzoni verso la verità quando, diversi anni dopo, lessi “La colonna infame”: un’aperta condanna di quei giudici criminali, casta intoccabile, che condannarono ad atroci torture e alla morte innocenti persone accusate di essere gli untori della peste…
Il sentimento manzoniano della provvidenza divina non attenua lo sdegno verso le ingiustizie e la denuncia resta comunque forte e inequivocabile…Per me anche lui alla fine è stato “un ribelle” come Leopardi, entrambi avendo scardinato pregiudizi, interessi di casta, e messo in evidenza barbarie o verità scomode sull’esistenza umana e sulla natura e il destino, fedeli com’erano al loro pensiero e sentire…