di Daniele Barni
Un invito a leggere questo racconto di Daniele Barni che parla di un certo tipo di matti che colorano, o almeno coloravano, il monocorde vivere di provincia. Nel leggerlo mi è tornato alla mente la prima volta che sono stato a Vetulonia, oggi piccolo borgo della Maremma, ma dal passato più che glorioso, essendo una delle storiche città della dodecapoli etrusca. Dopo aver visitato il museo etrusco, l’acropoli ed alcune tombe a tumulo sparpagliate nella campagna, per rinfrescarmi sono entrato in un caffè dove c’erano quattro o cinque personaggi davvero strani, tra di loro anche una donna. Sbevucchiando a grappini ridendo e rilanciando un paradosso dietro l’altro, lasciavano pagato un cicchetto per qualcuno del borgo che in giornata sarebbe senz’altro capitato al bar. La barista, scuotendo la testa in una smorfia divertita, ad un certo punto mi ha detto: – Scusi eh, … questo chiasso, … ma se non ci fossero loro a Vetulonia non si potrebbe che morire di noia.
Il racconto LO SCERIFFO sarebbe stato da inserire nell’almanacco La casa degli strani che ho curato nel 2019 per Aska Edizioni, insieme a Giuseppe Baldassarre e Fabio Flego. Peccato … Comunque sia, a corredo del testo, inserisco il disegno di mio figlio Nilo, usato per la copertina di quel libro. Buona Lettura. (A. A.)
Nella mia città, ***, di matti ce ne sono sempre stati tanti. Forse, perché gli abitanti, appartati in mezzo agli Appennini, hanno copulato per secoli fra di loro: e, come si sa, l’endogamia sprigiona fenomeni. Forse per l’alimentazione, troppo incline all’insaccato, con tutto quel sale che finisce negli stomaci anziché nelle zucche. Forse per il clima bipolare, tra stagioni artiche e stagioni equatoriali. Fatto sta che la città rigurgitava, fino a qualche tempo fa, di quei tipi umani classificati oggi tra l’eccentrico e lo psicotico.
C’era il Grande Aldo: un omone corpacciuto, sempre in ghingheri, con camicia rigorosamente bianca, cravatta rossa e giacca, pantaloni e cappotto neri. In ciò nulla di strano, se si eccettui il fatto che d’inverno egli si scamiciava e d’estate si cappottava; e che viaggiava sempre e solo con una bicicletta Bianchi da donna, senza mai scenderne, nemmeno per entrare nei negozi o per spostarsi in casa.
C’era Elvis: un tizio allampanato con un’esplosione di capelli ricci e fulvi sulla testa, pantaloni scampanati in poliestere, giacca frangiata, e stivaletti in finta pelle con tacco quaranta, tutto in scale di avana; che si credeva Elvis Presley e che fischiettava a ogni ora la sua canzone Can’t help falling in love. Questo sedicente Elvis cercava di continuo falsi Elvis per la città, per smascherarli: chiedeva ai passanti, interrogava, minacciava; e quando incontrava il proprio riflesso su qualche vetrina, inveiva contro l’impostore che pretendeva di spacciarsi per Elvis Presley con quella capigliatura da matto.
C’era Alain Delon: un pleiboi che un tempo era stato il ritratto della bellezza e del fascino, ma che poi è impazzito per una mascalzonata d’amore. I capelli, lunghi e corvini, all’improvviso sono impalliditi; il volto, scavato da pianti e rimpianti, è presto diventato un pezzo di roccia da cui zampillava uno sguardo ancora azzurrissimo. Lo si vedeva ciondolare in giro sempre in jeans e chiodo, ripetendo di continuo, non si sa se a se stesso o a chissà chi: “Hai capito? Hai capito?”. Era anche un po’ nervosetto, Alain Delon: si accendeva per mezzo sguardo o mezza parola ed esplodeva in improperi e smanacciate; tanto che era raffreddato da quelli del CIM con ettolitri di sedativi. Allora, si limitava ad accendere biche di foglie dove capitasse, sotto casa, per il corso, nei piazzali dei supermercati, così, con un colpo del suo Zippo: e quando i pompieri accorrevano, lui li ammirava battagliare con le vampate, mentre, a braccia e gambe incrociate, cercava con il naso l’olezzo dell’incendio.
C’era il Luccio: così chiamato perché fermava persone a caso e chiedeva loro: “Si fa una lucciata?” Alla risposta, che non poteva che essere “sì”, dispiegava tutta la sua apertura bracciale, larga più di due metri; abbracciava il malcapitato, ben attento a tenergli il naso sotto l’ascella; e non lo liberava prima di averlo sentito protestare con convinzione. Quindi, gli prediceva il tempo della settimana o, forse, gli eventi del prossimo millennio, con cieli che berciavano, singhiozzavano, scatarravano o buttavano giù imprecazioni; soli che cantavano o digrignavano i denti; terre che sudavano, rabbrividivano o si grattavano la rogna; insomma, con metafore appena appena ardite. Infine, lo costringeva, guardandolo con i suoi occhiaccioni azzurri, a ripetere più volte insieme a lui: “lucc-cudine lucc-cudine lucc-cudine…”, mantra enigmatico mitragliato contro chissà quali entità. E poi se ne andava: così, com’era comparso.
C’era la Menchina: una donnina infilata in una gonna lunghissima, che da sotto le ascelle giungeva a spazzare fino a terra e che, per quanto lisa, appariva ormai di colore indefinito; come i suoi capelli. Era sempre in giro, la Menchina, mai a casa: ma più che camminare, balzava o rimpallava qua e là, come la biglia del flipper. E accusava, inveiva, anatemmizzava, contro tutto e tutti, secondo comandamenti solo a lei noti. L’unica volta che la si è vista a casa fu in occasione del suo arresto, per schiamazzi: in mezzo ai due carabinieri che la conducevano fuori ammanettata, sospesa mezzo metro in aria, sgambettava e, come al solito, imprecava. Appena fuori dal portone, guardò la folla che si ammucchiava in silenzio. C’era anche la televisione locale. Lei fissò la telecamera, come una diva, e disse, accennando ai due carabinieri: “E dite che sono matta io? Guardate un po’ questi due”.
C’era Einstein: un omarullo lungo e stretto come uno sbaffo di fotoni nello spaziotempo, genio della matematica, col cervello flesciato dallo studio. Viaggiava su e giù per il corso dentro alla sua giacca di lana a quadri di vario marrone; i capelli nerissimi separati a lato da una riga perfetta; sempre curvo nel sorreggere la sua sigaretta, che doveva pesare almeno mezzo quintale. A ogni passante chiedeva: “Che ce l’hai una siga?” E se qualcuno gli faceva notare che ne avesse già una in bocca, rispondeva, con la sua vocina fina fina, mista di fumo: “Non sai che la siga è l’unica cosa che più la tiri e più s’accorcia? Mi serve una prolunga.” Ogni mattina anticipava l’apertura della biblioteca comunale di cinque minuti, al millesimo di millesimo; e mentre aspettava la bibliotecaria, ammirava, di millimetro in millimetro, e come se non l’avesse mai vista, la facciata rinascimentale del palazzo sul corso in cui di lì a poco sarebbe entrato: ne scalava con gli occhi i bugnati; sempre con gli occhi passeggiava in beatitudine sui marcapiani, entrava e riscappava per i finestroni, riscendeva per i pluviali, giù fino a terra; e poi ancora su, risaliva. Appena compariva la bibliotecaria, un donnone che superava di slancio il quintale, tutto “one”, testone, manone, gambone…, ne seguiva in sollucchero la scia di profumo, senza accorgersi di stantuffare a tutta forza, a colpi di guance, il fumo della sigaretta fuori dalla bocca. Una volta dentro, nell’intimo delle volte incrociate, dopo aver atteso il rimprovero per la cicca ancora accesa, sfogliava il suo quotidiano preferito, attento a non far gemere la carta. Poi, se capitava, riceveva, come se fosse nello studio di casa, qualche studente dell’università bisognoso di ripetizioni di matematica o di fisica; gratis.
Ce n’erano tanti di matti; ma su tutti regnava il Brilli Cesare. Nel nome, lui: imperatore arzillo degli spostati. Soprannominato anche lo Sceriffo per la finta di estrarre le Colt con cui ti faceva capire di averti impallinato con una battuta. Sembrava una pertica, lo Sceriffo, appena torta in avanti. Due biglie azzurrissime gli roteavano nelle orbite. Al posto delle labbra aveva un bargiglio immobile: parlava per rimbombi nel naso. Il suo capo era murato sotto un paio di cazzuolate di brillantina aromatizzata alla menta, stesa forse già alla nascita. Portava sempre giacche a quadri in scale di marrone o rosso; camicie azzurrognole con il colletto a risvolto, attraverso la cui sbottonatura scintillava fra le setole una catena d’oro grossa un dito; pantaloni scampanati a orlo alto, che mettessero bene in mostra gli stivaletti in pelle alla Little Tony, gli uni e gli altri rossi o marroni come le giacche. Né poteva uscire di casa senza il suo fedora, così moscio che pareva ogni volta sgrondare acqua, e senza il suo borsetto in finta pelle. Il medio e l’indice della sua mano destra erano caramellati di nicotina: mentre, parlando, gesticolava, sembrava che qualcuno sventagliasse l’aria con foglie di tabacco tostato. Nella sua mano sinistra, infatti, non mancavano mai due o tre pacchetti di Nazionali senza filtro, pronte all’accensione. Lo Sceriffo camminava pure strano: non si sa se perché zoppicasse o perché imitasse il passo baldanzoso di Little Tony. E camminava sempre: non lo trovavi mai fermo, a meno che non gli scappasse una storia da raccontarti, un’avventura di quelle che solo a lui capitavano.
Un inverno, per dirne una, scendeva con il suo motorino, un Garelli 50 antidiluviano bianco e blu, giù dalla Ritta di ***, una strada quasi verticale che dal paesino sulle colline si srotola fino a valle e giunge in pochi chilometri alla mia città. Portava la solita giacca, i soliti pantaloni, la solita camicia sbottonata. Senza cappotto. Il vento e la neve lo schiaffeggiavano e, per dispetto, volevano spegnergli o strappargli la sigaretta, che lui stringeva tra i molari e rinfuocava con aspirate rabbiose. Tornava da chissà dove o da chissà chi. A metà discesa, una paletta rossa sbucò da dietro lo spigolo di una casa:
“Bollo!”, intimò un carabiniere da sotto il pastrano d’ordinanza.
“Beato te”, rispose lo Sceriffo, “io muoio dal freddo”.
Un’altra volta, sempre con il suo Garelli 50, tornava da una serata al night, anzi, al naitte. Sfilava trionfante davanti ai pini della statale. Per la contentezza avrebbe fumato, invece delle sigarette, candelotti di dinamite. Il fresco della primavera gli entrava per la camicia e lo accarezzava sotto le ascelle, sulla trippetta, fra le chiappe. La solita paletta rossa sbucò da dietro un pino:
“Bollo!”, intimò lo stesso carabiniere dell’altra volta.
“Non ce l’ho”.
“Libretto di circolazione”.
“Non ce l’ho”.
“Assicurazione”.
“Non ce l’ho”.
“Carta d’identità”.
“Non ce l’ho”.
“Numero di matricola sul telaio: quello, almeno, ce l’avrà…”
“L’ho abraso”, rispose lo Sceriffo con il ghigno dei vincitori.
“E ora? Come si mette?”
“Appoggiato a quel pino, perché non c’ho nemmeno il cavalletto”.
Ogni mattina, prima di andare al lavoro, lo Sceriffo si faceva trovare davanti alla saracinesca della Casa del Pane, in fondo a una torre medievale in pietroni di arenaria sulla piazza della città. Quando la Maria, la proprietaria, l’Assuntina, la commessa, e Mario, il panettiere, spalancavano il negozio, lui si lasciava scorrere sul viso il fiotto caldo e profumato del pane appena cotto. Comprava una pagnotta, ne ascoltava la crosta crepitare sotto le dita, ne scavava con tutta la mano la mollica, che intanto mangiava, e con il pugno pressava nel vuoto il companatico, mortadella al pistacchio, prosciutto o spalla grassi, soppressata grassissima, centopelle. Non era vegetariano, lo Sceriffo. Nemmeno astemio: agevolava ogni boccone giù per la gola con una fiascata di vino. Del resto, aveva bisogno di calorie, dato che era stato scelto da un lavoro duro. Sì, il lavoro aveva scelto lui, non lui il lavoro. Al tempo, infatti, i matti in città erano così tanti che il comune, per non lasciarli allo stato brado, li aveva arruolati in lavori grossi: ogni mattina li faceva passare a prendere con il suo pulmino scarcassato da tal Renato, il più sano dei matti o il più matto dei sani, sacrestano ufficiale della cattedrale e pulminatore altrettanto ufficiale di scuole, ospizi e manicomi. Un omaccione alto, con il viso nascosto in un cespuglio di riccioli bianchi come lo spavento e con la seghettatura dei denti messa sempre in mostra da risate mefistofeliche. Nessuno si ricordava di averlo mai visto in circostanze diverse dalla guida o dal servir messa. Renato caricava i matti e li portava al fronte nord, fra i monti di querce e faggi. Lì, quei poveri soldati dell’ordine costituito conducevano la loro guerra contro le forze del caos, per poche lire: sterminavano le gramigne sui sentieri e le mulattiere; accorrevano in rinforzo ai querceti e alle faggete; trinceravano le strade e i torrenti fra gli argini e i muriccioli… Una mattina, però, di fronte alla Casa del Pane, lo Sceriffo era più nervoso del solito e la Maria sollevò la saracinesca qualche attimo più tardi dell’orario. Lui entrò, come nel suo saloon: con la sinistra brandiva i pacchetti di Nazionali senza filtro, come fossero esplosivi; con la destra carezzava il borsetto, come fosse la Colt. Avanzò fino al bancone, dietro a cui Mario, l’Assuntina e la Maria cominciavano a guardarlo con preoccupazione. Puntò gli occhi in faccia ai tre, mentre divaricava le gambe:
“Ce l’avete il pane di ieri?”
“S-sì”, risposero i tre in coro.
“Bravi cozzi, la prossima volta fatene meno”, li fulminò lo Sceriffo. E uscì. Senza comprare nulla.
“Cozzo” è improperio che, nel mio dialetto, equivale pressappoco a “bischero” e che lo sceriffo si rigirava sempre in bocca, come una caramella, pronto a sputarlo in faccia a chicchessia.
Su al fronte nord, fra i monti di querce e faggi, si potevano incontrare anche animali esotici, quasi fantastici a quelle latitudini. Una volta, mentre il plotone di matti combatteva contro una frana sulla strada comunale che arranca fino ai passi verso il mare, apparve un serpente a sonagli: gigantesco, annodato su se stesso, prendeva il sole sopra lo squadro biancastro di una delle pietre di marna che sarebbero servite da muro di contenimento della scarpata. Le pietre erano accatastate a un lato della strada: mentre gli spalatori, con badile e piccone, smarginavano la frana, i muratori le trasportavano all’altro lato della carreggiata e le ordinavano, fermandole con la malta, le une sulle altre. Poco era mancato che due matti tirassero su pietra e serpente e, come l’idolo sul suo piedistallo, lo portassero in processione. Lo Sceriffo, da poco lontano, si gustava la scenetta:
“Guarda lì su quella pietra, Giacinto, che strana fila di salsicce, tutta arrotolata, col budello disegnato a rombi!”, disse l’uno, bassotto, che sembrava una testa parlante poggiata sul trippone.
“E la maraca, Ortensio?”, rispose l’altro, lungo lungo e smilzo, che invece sembrava una testa parlante di tra le nuvole.
“Quale maraca?”
“Non la vedi, per tutti i sugheri di San Giovese? C’è una maraca sopra la fila di salsicce, che suona da sola”.
“È vero. Saranno salsicce sudamericane, col budello a poncio e coi rocchi a maraca”.
“Per tutte le colonne di San Sone, di chi saranno?”.
“Ma che t’importa, mangiamocele”.
“Aspetta, non le toccare! Prendiamole su colla pietra e tutto”.
“E di che hai paura? Manco fosse un serpente a sonagli”.
Il rettile guatava dalla pietra con gli occhi sornioni, mentre con la coda suonava il suo Chachacha. I due si avvicinarono, ma uno, brancolando fra badili, picconi e pietrisco, stava per finire con un piede sopra la bestia:
“È, un serpente a sonagli”, intervenne lo Sceriffo, prima che quelli si facessero mordere.
“Per tutte le tigri di San Dokan”, esclamò Giacinto.
“E morde un serpente a sonagli?”, aggiunse Ortensio.
“A sonagli, non lo so; ma a pestallo, di sicuro”, sentenziò lo Sceriffo. E si rimise alla muratura, dopo aver illuminato con un’ispirazione profonda la sua sigaretta.
Un’altra volta, al ritorno dalla montagna, i matti si fecero scaricare da Renato in piazza, anziché a casa: mentre passavano, avevano annusato zaffate di fritture, grigliate e infornate, e si erano eccitati. Appena atterrati, si trovarono in mezzo ai banchini di una sagra di cibi e vini regionali, di quelle che ogni tanto i comuni organizzano, sotto l’insegna di “attività culturale”, per ingrassare viepiù consiglieri e assessori. Tutti si incastrarono davanti al banchino di Mencone, rosticciere locale, che meglio di Gesù sapeva moltiplicare panini e salsicce. Lo Sceriffo, invece, vagava in cerca dell’esotico: anche perché da Mencone, un po’ per il suo timbro di basso e i suoi toni da tenore, un po’ per il suo spatolare sulle piastre, un po’ per il suo gruppo elettrogeno sempre in ricarica, non si poteva capire mezza parola; e allo Sceriffo piaceva parlare. Così, davanti al banchino del Veneto si sentì chiamare:
“Ehi, cuel om, no mangié gnente?”, chiese per sfida un omone dai capelli rugginosi e il sorriso traforato, dopo essersi strofinato le mani sul grembiale. Pareva il diavolo intento a cucinare il mondocan, tra il fumo e l’afrore, dall’alto del suo bancone che, a fine sagra, sarebbe tornato a essere un camioncino, con la scritta “cichetin” sotto una salsiccia infilzata sul tridente.
“Che hai lì?”, domandò lo Sceriffo, che già subodorava il diverbio.
“No vedé? Cichetin, de carne, pesse, verdura…”
“Dammi quel cichetin là, con la polenta e le acciughe”.
“Qua. Voaltri no avì miga roba come sta qua”.
“Non male”, disse lo Sceriffo tra un morso e l’altro, “E tu sei di?”
“Verona. No se sente?”
“E oltre ai cichetin che avete a Verona?”
“Gavemo… bhe… Giulietta”.
“Io ne ho avute due: che motore, che carrozzeria. Poi?”
“Poi…el Pont”.
“Anche di quelli ne ho due: sopra e sotto”, e mostrò la dentatura, “Poi?”
“Eh… poi… poi… l’Arena”.
“Oh, di quella sì che ce n’ho tanta: se vieni con me giù al fiume, sai la rena che c’ho”.
E se ne andò. Ma prima disse a un altro matto che era venuto ad assistere:
“Sentito? Io capisco anche il veneto”.
Chissà se aveva pure pagato.
Lo Sceriffo era anche un grande amatore. Una notte, era andato a fare un giretto con la sua Giulietta, color cielo metallizzato. Era Ferragosto, il caldo spaccava il respiro, soprattutto a un fumatore come lui. Il gioco d’aria tra i finestrini lo rallegrava e calmava. Guidò a caso fino a perdersi. Alla periferia di una città sconosciuta infilò un viale, scandito da grossi tigli:
“Sono proprio bello, io: guarda quante ragazze in minigonna che ci sono; tutte mi chiamano con l’indice delle manine; mi gridano anche ‘amore’. Sono tutte per me”.
Aspettò, per fermarsi, la fine del viale: sotto a un tiglio enorme sorrideva una ragazzona alta, dai capelli nerissimi che si mescolavano con la notte e che scrosciavano fino a lambirle i fianchi. Era un po’ troppo spigolosa e muscolosa, ma allo Sceriffo piacque lo stesso: il profumo di lei, del tiglio e dell’oscurità si miscelavano in un esplosivo che ormai gli aveva fatto saltare ogni remora:
“Come mi guarda: è già innamorata. E che sfacciata: sale in macchina senza nemmeno chiedere il permesso. È proprio vero che al cuore, e al mio fascino, non si comanda”.
La ragazzona non smetteva di sorridere allo Sceriffo, e lo Sceriffo non smetteva di sorridere a se stesso. Le mani di lei giocherellavano con la sua miniborsa di plastica rossa; gli occhi di lui giocherellavano con la minigonna di lei, in biancopelle, da cui fuoriuscivano due bei quadricipiti che terminavano in un paio di stivaloni, di nuovo in biancopelle. Svoltarono in una stradicciola sbrecciata, appena fuori città, sempre senza dirsi una parola: allora, gli occhi dello Sceriffo cominciarono a giocherellare con le bocce della ragazzona, che a ogni buca si urtavano e rimbalzavano per tutti i versi. Si fermarono dove la stradicciola finiva, a un rudere di casolare, accanto a un bosso che stava a guardia della buca che una volta era stata il portone d’ingresso:
“Che strano albero di Natale: palloncini mosci al posto delle palline colorate. Chissà che gente strana abitava qui”.
La ragazzona spalancò lo sportello: fresco d’estate e sentore di lattice frizzarono nelle narici dello Sceriffo. Lei, in ginocchio sul sedile, gettò la testa fuori dalla macchina. A parte il concerto dei grilli, l’unico rumore che si sentì fu quello di una cerniera.
Ma, a un tratto, lo Sceriffo capitò con la mano fra i penetrali della sua dea:
“Che è ‘sto coso. Santi numi: l’ho trapassata da parte a parte… Che potenza che c’ho!”
Non appena fu tornato in città, entrò nel primo bar aperto che vide. Offrì da bere a tutti. E tutti brindarono alla sua “potenza”. Ma, al momento di pagare, si accorse che non aveva più il portafoglio.
Poco tempo fa sono andato a visitare la tomba dello Sceriffo. Sulla lapide ho trovato solo il nome, senza date e senza foto, con la scritta:
“Citti, non fate i cozzi: lo sapevate che sarebbe andata a finire così”.
“Citto” e “citta” sono le parole più belle del mio dialetto. Hanno tanti sensi, come la vita: “ragazzo” e “ragazza”; “fidanzato” e “fidanzata”; “bambino” e “bambina”; e, soprattutto, “amico” e “amica”.
18/7/2023
Con questo raccontino ho riso e pianto, mi sono divertito e ho riflettuto.
ringrazio Daniele Barni per il colorito racconto di personaggi, eccentrici, “strani” della profonda provincia dell’Appennino, ma posso testimoniare che erano frequenti anche nella padania urbana e semi-contadina, avendo vissuto l’infanzia e l’adolescenza in una osteria di Lodi, allora cittadina di provincia…Matti creativi, a volte sapienti e intelligentissimi, con ferite profonde da mostrare e da curare ad altri, come loro, in cerca di una risata consolatoria, di un segno di solidarietà reciproca…ma non solo per gli intimi. Capitava che si riconoscessero in coppie, comico e spalla, e di far morire di risate, con le loro improvvisate battute e movenze, i fedeli avventori, che ricercavano proprio il momento di queste preziose presenze…il becamort…il paciarisot…Pina la vuncin…Poi c’era l’altro lato della medaglia, in quanto si trattava di persone ai margini, senza assistenza, anche sfruttate, come lo Sceriffo e company, in lavori socialmente molto utili, ma malpagati…nei cimiteri, sulle strade a raccogliere di tutto anche merde di animali…
Grazie Annamaria e grazie Marco per aver letto il racconto. Di certo, ovunque sia, lo Sceriffo ci starà mostrando le Colt e ci starà facendo l’occhiolino.
Molto corporale. E puzzolente di fumo e tabacco. Perché i matti devono anche essere dei vuncioni? Forse i matti puliti stanno chiusi.
Grazie a Daniele Barni per questo piacevole racconto scritto con tocco spiritoso e al contempo dolente su un angolo di mondo paesano ricco di personaggi che, più che macchiette, sono storie di vite che non hanno avuto altro modo di rappresentarsi se non nella loro ‘mattità’. La plasticità dello stile narrativo ci fa percepire sensorialmente odori, immagini e sonorità quasi fossimo lì e di entrare in un mondo dove anche un serpente a sonagli, che guarda sornione, sembra essere di casa più di quanto accada oggi nel rapporto con la realtà a causa di un senso di straniamento per tutto ciò che fuoriesce dagli schemi prestabiliti dal pensiero unico sostenuto dal modello ‘espungente’ del “politicamente corretto”.
Grazie Cristiana e grazie Rita. Sono contento se sono riuscito a farvi vedere i volti e a farvi sentire le voci di un angolino di Toscana che, oramai, non c’è più.