TESTIMONIANZE PER FRANCO FORTINI dicembre 1996 COLOGNO MONZESE
Ieri ho messo in ordine nel mio PC la cartella ‘Nei dintorni di Franco Fortini’ datando in ordine cronologico appunti e interventi che ho accumulato dal 1978 ad oggi. Li rileggerò e ripenserò alle ragioni più o meno consapevoli di questa mia lunga fedeltà alla sua figura e alla sua opera, malgrado il mutamento che hanno subìto nella percezione pubblica in questo lungo tempo trascorso dalla sua morte nel 1994. Per ora ripubblico il contenuto di un libretto cartaceo di 73 pagine oggi introvabile. Lo costruii assieme ad amici dell’Associazione Culturale Ipsilon di Cologno Monzese e riuscimmo a pubblicarlo nel 1996. Può essere scaricato e spulciato con calma usando il pulsante ‘Dowload PDF’ ( a destra in alto). [E. A.]
UN FORTINI “STELLA VARIABILE”
1
TESTIMONIANZE IN LIBRETTO DI:
Ennio Abate : ...NESSUNO E’ LADRO FINCHE’ QUALCUNO NON LO DICE. BISOGNA DIRE LE COSE...4
Luciano Amodio : ...CONDIVIDEVO LA SUA DIFFIDENZA SUL LATO ARRIVISTICO DEL CENTRO-SINISTRA, MA NON IL SUO NASCENTE SPIRITO DI UTOPIA...7
Rosa Birolli : ...E OGNI SERA CI NARRAVA FATTI, EPISODI DA LUI VISSUTI...9
Sergio Bologna : ...E’ STATO UN INTELLETTUALE DELLA NUOVA SINISTRA FINO ALLA FINE DELLA SUA VITA...10
Giorgio Bouchard : ...NELLA SCRITTURA DI FRANCO FORTINI RESTERANNO SEMPRE TRACCE DEL LINGUAGGIO EVANGELICO APPRESO IN QUEGLI ANNI...12
Lelio Calvi : “...MA I TAMBURI, NON LI SENTITE I TAMBURI...?” 13
Pietro Cataldi : ...MORTIFICAVA L’ISPIRAZIONE, L’INVERIFICABILE CHE STA ALLE SPALLE DELLA SCRITTURA 14
Ivan Della Mea : ...UN FORMIDABILE PEDAGOGO...16
Luciano Della Mea : ...RINCORREVA INTUIZIONI NUOVISSIME, SOVENTE STREPITOSE...19
Andrea De Lotto : ...IL RAPPORTO CHE AVEMMO CON FORTINI PARTI’ E RUOTO’ INTORNO A CIO’ CHE CERCAVAMO DI FARE...21
Anna Grazia D’Oria : ...CHIESE UNA CIMA DI CICORIA CRUDA, DI QUELLE A SPICCHI, A FORMA DI CUORE, DA PORTARE ALLA MOGLIE...23
Roberto Fabbri : ...LA FORZA DI UNO SGUARDO UNITARIO E TOTALE...25
Franca Gianoli Grandinetti : ...MI CHIESE DI LEGGERGLI IN INGLESE IL TESTO DEL “LYCIDAS”...26
Eugenio Grandinetti : ...MI PIACE LEGARE LA SUA MEMORIA A UN VERSO DI GALEAZZO DI TARSIA...27
Marcello Guerra : ...L’IMMAGINE DEL SUO STUDIOLO, QUELLO PIENO DI LIBRI...28
Umberto Lacatena : ...MI FA: - L’AUTORIZZO A PUBBLICARE LE LETTERE CHE LE HO SCRITTO...29
Luca Lenzini : ...IL SENSO DEL SUO “DIFENDETECI” E’ TUTTO RIVOLTO AL FUTURO... [IN EXTREMIS]...30
Francesco Leonetti : “PERCHE’ MI SGRIDI OH MAESTRO SPAVALDO?”...32
Romano Luperini :...MA IO MI CHIAMAVO LATTES!...”[CINQUE RICORDI]...33
Attilio Mangano : ...UN LIBRO POLVEROSO CHE RACCONTAVA UNA STORIA SCONOSCIUTA...36
Roberto Mapelli : SI VIVIFICO’ DAVANTI AI MIEI OCCHI... LA DIALETTICA RIVOLUZIONARIA DI ATTUALITA’/INATTUALITA’...[POST FESTUM, LA VOCE DI FORTINI]...38
Alberto Mari : ...MI SONO IN UN CERTO SENSO AVVICINATO A LUI, ANCHE SE NON DEL TUTTO...40
Ezio Partesana : ...AVEVO FORSE PRESO ALLOGGIO ALL’HOTEL DES ABGRUNDS?...43
Costanzo Preve : ..NON MI SONO MAI SENTITO IN SOGGEZIONE COME CON FORTINI...46
Franco Romanò : ...QUANDO ENTRO’ IN CLASSE IL PRIMO GIORNO...48
Donato Salzarulo : ...DA QUI LA SENSAZIONE D’UNA CASA SOSPESA TUTTA NEL VUOTO [IL SOGNO DELLA CASA DI FORTINI]...52
Franco Sarcinelli :..MI TORNO’ IN MENTE LA METAFORA DELLA LAMA NASCOSTA NEL MEZZO DEL PANINO...58
Giulio Stocchi : ...E RIVELA ALTRESI’ CHE LA PAROLA GIUSTA / DEVE ESSERE ANCORA DETTA...61
Paola Zamboni : ...L’IMPRESSIONE ERA DI AVERE ACCANTO UN GENTILUOMO D’ALTRI TEMPI... 70
Donatella Zazzi : ...RICONOSCENZA PER QUEL SORRISO APERTO, AFFETTUOSO, CURIOSO...72
UN FORTINI “STELLA VARIABILE”
Fortini è venuto a Cologno una prima volta, nel 1982, per presentare il libro di un intellettuale, che allora “abitava” le patrie prigioni sotto l’accusa di “partecipazione a banda armata”; e altre due volte, nel 1989, per il battesimo della nostra, appena sorta, Associazione e a conclusione di un seminario sull’ecologia della lettura.
Pur avendolo frequentato in poche occasioni e solo verso la fine della sua vita, per mantenerci nei dintorni di Fortini e delle sue questioni, dopo la morte, abbiamo organizzato, senza eccessivi timori reverenziali e in collaborazione con la Biblioteca Civica di Cologno Monzese, delle iniziative annuali in suo nome.
Fra maggio e giugno 1995 tenemmo, sotto il titolo di “Ladri di ciliege”, otto incontri di “esplorazioni e studi” su varie sue opere, leggendole e commentandole da semplici lettori e concludemmo con una riflessione sulla sua figura affidata a Romano Luperini e la recita di sue poesie da parte di Andrea de Luca.
Le “testimonianze in libretto” di questo 13 dicembre 1996, sono il secondo tassello del nostro lavoro. Per collezionarle, ci siamo rivolti – accantonando filtri selettivi o indicazioni tematiche – agli amici e conoscenti di Franco Fortini a noi più prossimi. In prevalenza esse sono incentrate sulla ricezione della sua immagine anche tramite spiccioli di ricordi sedimentati nella memoria.
Si tratta – come vedrete – di un numero limitato delle testimonianze possibili, poiché nella sua lunga e operosa vita, Fortini – intellettuale italiano ed europeo, ma esploratore e viaggiatore di paesi allegorici (si pensi ad Asia maggiore) – ha conosciuto migliaia di persone.
La cerchia raggiunta si è però ridotta ulteriormente rispetto alle nostre aspettative ed è un dato che fa problema.
Mancano quanti – non tanto per impegni assorbenti, ma per reticenza pudore difficoltà di fronte alla nostra semplice richiesta di avere un aneddotto, un episodio, un ritratto, un appunto sulla sua figura – hanno declinato l’invito e non compaiono in questa minima sfera pubblica amicale e semiclandestina, nella quale pur pensiamo sia ancora possibile pronunciare qualche verità su noi stessi, su Fortini e sul mondo circostante.
Come spiegare quest’imbarazzo, che sembra un segno dei tempi?
Forse si è già imposta l’immagine di un Fortini “inattuale”, “maestro dimezzato”, “classico” da relegare a filologi e accademici. Ed è senso ormai comune che allo strapotere della comunicazione massmediale ci si debba inchinare o arrendere, mentre una rete intellettuale “bocca a bocca” – come quella che tessiamo e ritessiamo da anni – appare ingannevole resistenza di epigoni. O la pausa, il silenzio – dopo tanti terremoti politici – si impone anche su Fortini per una saggia e comprensibile esigenza di ripensare la sua figura in solitudine, lontano da falsi clamori e da appiccicosi “gruppuscoli”?
Ci sono pervenuti, comunque, vari testi: mai di pettegolezzo; carichi spesso di ammirazione, ma non piattamente apologetici; che prendono le distanze, svelano disarmati desideri di riconoscimento o s’interrogano con sincerità sui sentimenti di ambivalenza personal-politica verso il lato più paterno e di magister di Fortini; oppure si tengono ai fatti, alle occasioni d’incontro e accennano a temi e problemi, grandi e piccoli, generali e specialistici, che Fortini ha sondato e lasciati, a causa della morte, aperti e in eredità. A chi?
Non crediamo a una setta, né solo a solerti discepoli o ad autorevoli amministratori delegati della sua memoria.
Da parte nostra, secondo uno stile di lavoro culturale da tempo praticato, abbiamo voluto invitare a prendere la parola proprio i più in ombra fra i suoi amici e conoscenti.–
Non per ritagliarci un nostro Fortini. Né per oscurare amici e conoscenti di lunga data o gli studiosi che hanno accompagnato per decenni e con strumenti critici preziosi la sua parabola di scrittore. Ma perché riteniamo che un’immagine di Franco Fortini “in dimensione allargata” (né un “Fortini per tutti” né una bandierina di gruppo – accademico o di periferia) risulterà più feconda, se mossa rifratta rielaborata arricchita dai tanti che sono forse potenziali custodi di aspetti meno risaputi o codificati della sua personalità.
Per metterla a fuoco però bisognerà vincere la riottosità, la timidezza, il pudore (vero e falso), lo sconforto (quante volte ci è stata ripetuta la convenzionale obiezione: ma cosa può valere un mio ricordo di Fortini?) che alimentano soltanto la smemoratezza e l’isolazionismo.
Si può testimoniare per le buone ragioni di aver letto alcune sue opere o conosciuto, visto, udito Fortini in quell’incontro, quella conferenza, quel colloquio, o per non ritrovarsi in pochi a custodire in segreto una reliquia o per impedire che si imponga ai molti una sua imbalsamazione.
Sarebbe un bel guaio se anche il suo nome diventasse un simbolo allusivo di “verità” sottratte alla storia, addomesticate, sacralizzate e sempre meno verificate. O se, inavvertitamente, si scivolasse in un Ipse dixit, in una scolastica fortiniana, che tagliasse corto con i dubbi, le domande in apparenza impertinenti, gli indispensabili e faticosi oltrepassamenti dei confini che noi – non altri – dobbiamo richiedere a noi stessi.
Spigolosità e urti anche tragici della “vecchia storia” non vanno aggirati o annacquati. Ma neanche cristallizzati in resistenzialismo puramente reattivo.
I dubbi e le paure vanno affrontati e sciolti in un lavoro serio, che torni a intrecciare spazi di ricerca solitaria, poetica e tensioni collettive e politiche.
Bisogna perciò aprire un confronto senza steccati fra lettori, studiosi e conoscenti: sull’opera, l’immagine e i problemi che egli ha sollevato in vita. E svolgerlo non nel nostalgico immobilismo di un discepolato, ma nel turbine sporco del presente e dei nuovi, quasi indecifrabili, rompicapi che ci assillano.
Per intendere al meglio quel suo estremo invito: “Proteggete le nostre verità” contro interpretazioni rituali o troppo “difensive”, si tratterà di rinominarle queste verità, non dandole per scontate né per il Fortini di allora né per noi d’oggi; e ricontrollare – nelle pratiche personali e sociali e non nell’intima adesione, ideologica o affettiva – fino a che punto siano state o possano essere ancora in comune.
In questa prospettiva aperta e problematica le opere di Fortini potranno ancora fornirci lame taglienti, anche quando fossero sporche della fanghiglia della “vecchia storia”. Ma se riportate “a cielo aperto”, al cielo aperto del presente e dei problemi che abbiamo.
E – senza storcere il naso al puzzo della cultura di massa – il lavoro va compiuto anche sulla sua immagine, approfondendo questo primo tentativo di coglierla “in dimensione allargata”.
Ci piacerebbe lavorare assieme a tanti ad un’immagine di Fortini come sereniana stella variabile, i cui barbagli vengano accolti e rilanciati attorno da altre, grandi e piccole, stelle pur esse variabili e in moto .
Così si potrebbe tornare ad illuminare il buio insistente della storia, tracciare altre strade oltre quelle note e malamente trafficate e forse sfuggire al freddo dei tanti “dieci inverni” della sinistra che ci portiamo nelle ossa.
Associazione culturale IPSILON
“NESSUNO E’ LADRO FINCHE’ QUALCUNO NON LO DICE. BISOGNA DIRE LE COSE...”
di Ennio Abate
Verso la fine di gennaio 1986 andai ad ascoltare Fortini al Centro sociale di via Scaldasole a Milano, nella zona di Porta Ticinese. Vi era invitato per parlare della situazione culturale italiana e presentare il suo “L’OSPITE INGRATO Primo e secondo”, appena pubblicato dalla casa editrice Marietti e passato sotto silenzio su quasi tutta la stampa nazionale. Il resoconto che segue si basa su miei appunti d’allora.
Quella sera Fortini sottolineò l’immobilità del sistema letterario italiano e la tendenza al riciclaggio di vecchi materiali. Non si fa che ripubblicare autori che furono in voga negli anni ‘30: Holderlin, Hoffmannsthal, ecc. – disse all’incirca Fortini – e si assiste ad una ripetizione dei modi di distribuzione e consumo. Come esempio di riciclaggio indicò l’operazione dell’Adelphi contro la tradizione culturale della Einaudi. C’erano tante altre opere dimenticate da ripubblicare e degne di essere lette e di recente aveva risposto ad una inchiesta della rivista Nuovi Argomenti indicando il Dizionario del Battaglia o quello francese del Littré come opere degne di ripubblicazione…
Una fugace parentesi a questo stato di cose gli era parso il periodo 1967-’69, quando c’erano stati alcuni esperimenti di circolazione innovativa delle opere (ad es. Roversi coi suoi versi ciclostilati e polemicamente diffusi fuori commercio). Poi era sopravvenuta l’epoca del predominio delle grandi case editrici e, in seguito a mutamenti economici internazionali, la loro crisi.
A chi scriveva in quella situazione Fortini ripeté il motto di Kraus: “Chi ha qualcosa da dire si alzi in piedi e taccia” e il consiglio antico di Orazio: tener chiusi nei cassetti i propri scritti per nove anni (e ripulirli nel frattempo…). C’è l’esigenza di una sosta, di una moratoria nella pubblicazione – disse; e non gli pareva fondato lamentarsi che gli editori trascurassero la pubblicazione di opere poetiche.
Eppure non pubblicava proprio lui in quell’anno ben due libri (Insistenze con Garzanti e L’ospite ingrato con Marietti)? Si giustificò sorridendo: lui aveva un numero così esiguo di lettori.
A questo punto la sua relazione diventò più colloquiale. Citò numerosi episodi della sua esperienza di manipolatore della parola, per sottolineare che “non c’è l’unità dell’intelletto” e che “siamo individui solo per l’anagrafe”. E per segnalare la complessità della ricerca di una sempre difficile unità fra saggistica, letteratura e poesia, ricordò che per un breve periodo aveva deciso di firmarsi con lo pseudonimo di Angelo Colombano e che, ai tempi del Politecnico di Vittorini, aveva improvvisato delle false traduzioni nello stile di Eliot o firmate come “poeta cinese vittima del Kuomintang”.
Mi si svelò, in quella serata, un Fortini perfettamente a suo agio nei giochi letterari più raffinati. E subito dopo nella sapiente recitazione di alcuni dei suoi epigrammi.
Era la prima volta che sentivo la sua declamazione abilissima e coglievo dal vivo la capacità da grande attore di modulare la voce adattandovi i gesti mentre il volto stesso si mutava in duttile maschera.
Accennò allo “studio accademico” da lui fatto sulla declamazione e ai “sei livelli di persone che si presentavano”( non capii bene se nell’arte declamatoria in generale o nella propria in particolare).
Intervallò poi la recitazione con apprezzamenti sul genere epigrammatico (giudicò bellissimi alcuni epigrammi di Gatto, Noventa e Pasolini) e richiami alla regola dei latini, per i quali l’epigramma doveva essere “esiguo di corpo, veloce… avere il pungiglione… ma non essere privo di miele”.
Nella discussione successiva quando, seduto fra il pubblico, gli chiesi di chiarire la sua recente proposta di drastica riduzione delle patrie lettere e di indicare gli intellettuali di regime che oggi svolgono il ruolo che Alicata (da lui citato nella relazione) ebbe nel secondo dopoguerra, Fortini mostrò quale legame profondo (non di piatta e astratta sovrapposizione) esistesse fra il suo modo di essere letterato e quello di essere politico. E qui, concludendo, trascrivo le sue opinioni, dichiarate con toni appassionati, su due questioni da lui toccate nella replica:
– Critica delle attuali condizioni di riuso della letteratura. Fortini quella sera ribadì le sue note posizioni sulla “attualità della Divina commedia” e sulla “aristocraticità della poesia” inseparabile dalla doverosa “democraticità del poeta”: “Non esiste un Petrarca per tutti.. Il progressismo è stato una malattia grave della sinistra europea”.
Riconobbe che la società contemporanea è proibitiva per la poesia di Dante. Ma per lui era importante che quei valori fossero trasmessi ai giovani d’oggi anche in altri modi. Magari attraverso la fisica quantistica invece che tramite la letteratura o, come aveva già indicato Simone Weil, attraverso la geometria o il lavoro manuale.
Criticò ancora una volta Il materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis: “C’è tutto e il contrario di tutto. Siamo nell’ordine del tutto pieno, come certe valigie giapponesi, da cui vien fuori ogni cosa…”. Nella scuola d’oggi gli insegnanti potevano permettersi, secondo lui, al massimo di fare della buona linguistica storica. E sottolineò più volte come fosse diventata materialmente impossibile la lettura per i giovani: “E’ la realtà attorno che ci vieta la lettura e i giovani hanno ottime ragioni per rifiutarla”.
Aveva in mente i suoi studenti universitari a Siena: non leggevano; mentre, se si volevano fare decentemente dieci canzoni di Leopardi, ci sarebbero volute letture approfondite dello Zibaldone e di altri scritti. Si trattava di lottare contro “l’imminente catastrofe”, ma nella scuola c’era ben poco da fare. La lotta passava innanzitutto dalle Banche e dalla Rai-Tv e solo dopo attraverso la scuola. Egli accentuò fino all’estremo l’esigenza di un distanziamento dalla letteratura per ritoccare terra e parlare di quanto succedeva, descriverlo:
“Non perdete tempo a leggere libri… Di quanto ho scritto m’importa qualche poesia, dove forse c’è qualcosa che un giorno potrà servire. A volte ho un tale schifo a proseguire questo lavoro…. Un solo consiglio mi sento di dare oggi agli insegnanti: ripigliare l’indicazione malintesa di Rudi Dutschke: la lunga marcia attraverso le istituzioni. Molti non hanno voluto capire che Dutschke intendeva l’esistente istituito e non le istituzioni …Si tratta di raccontare quello che ci succede, di dare delle descrizioni analitiche di come è fatta la stanza entro cui studiamo o insegniamo, di come si svolgono i rapporti interpersonali… Nessuno è ladro finché qualcuno non lo dice. Bisogna dire le cose. E’ il passo elementare prima di poterle modificare..”
– L’intellettualità di regime. Fortini descrisse i “nuovi Alicata” come simili ai propagandisti d’epoca fascista (un Giovanni Ansaldo ad es.) : ”..sono persone colte, di buone letture, intelligenti, totalmente vendute”. Costituiscono “lo strato alto” dell’Informazione e del sempre più ampliato terziario intellettualizzato. Essi erano per lui gli “addetti alla distruzione delle tracce…”. Fece il nome di Eco, “geniale e preparatissimo”, che adesso passava attraverso le varie università americane per cancellare le tracce di quello che aveva fatto di buono al Dams attorno al 1964-’66, quando aveva preparato un gruppo di giovani ad interrogarsi sui meccanismi di produzione, distribuzione e consumo della cultura.
E insistette sull’accresciuto potere manipolatorio dei mass media:“Oggi alla Rai-TV bastano quattro giorni, e non più dieci, per suscitare sentimenti antiarabi.. Gli uomini della parola non mordono più… Sono finiti i tempi dell’esperimenti di Ottone…”; e sull’assenza disastrosa di convincenti analisi sulla realtà economica: “Chi sono oggi gli economisti italiani in grado di darci una visione fondata dell’attuale funzionamento dell’economia? Si dedicano a studi microeconomici per non aver fastidi… E quanti anni sono che uno non chiede più ad un altro com’è la sua busta paga?”. E citò il regista Straub, che al momento del dibattito sui suoi film, chiedeva a chi interveniva: “Scusi, mi vuol dire prima cosa fa lei di mestiere, quanto guadagna?”.
...CONDIVIDEVO LA SUA DIFFIDENZA SUL LATO ARRIVISTICO DEL CENTRO-SINISTRA, MA NON IL SUO NASCENTE SPIRITO DI UTOPIA...
di Luciano Amodio
La mia conoscenza di Fortini dovrebbe datare dal Politecnico di Vittorini, di cui fui correttore di bozze dapprima con professionisti veri e propri, poi da solo, dal principio alla fine; e certamente dovrei averlo visto in tipografia, ma non mi fu propriamente presentato né io sapevo nulla di lui. Non ho quindi ricordi di quegli anni, forse qualche immagine vaga; la presentazione ebbe luogo mi sembra soltanto agli inizi degli anni ‘50, comunque come effettiva frequentazione con la sua collaborazione a un foglietto di varia periodicità, a nome Discussioni, per la cui storia e continuazione come Ragionamenti rimando a uno studio di Mariachiara Fugazza pubblicato nel 1980 come introduzione alla ristampa di Ragionamenti (ed. Gulliver).
All’origine c’è un gruppo di amici politicamente orientati a sinistra formatosi attorno alla rivista bergamasca La Cittadella diretta da Salvo Parigi. Nata nel dopoguerra, e caratterizzata da interessi politici, e in una sua ala anche religiosi, finì con un’adesione in occasione delle elezioni del ‘48 al Fronte popolare, raddoppiata in Parigi da una sua entrata diretta in politica: rimase a sé il gruppo cultural-politico, a cui Delfino Insolera offrì una chance di continuità e di coesione col foglio dattiloscritto e poi ciclostilato di Discussioni. La prima discussione fu dedicata al problema della violenza.
Fortini entrava in tale gruppo mi sembra attraverso la mediazione della coppia Guiducci, lavorando tutti per Olivetti, i Guiducci (come poi i futuri redattori di Ragionamenti, Franco Momigliano e Alessandro Pizzorno) a Ivrea, Fortini a Milano.
I miei rapporti con Fortini si consolidarono col passaggio a rivista vera e propria nel 1955 e cogli scambi di idee che la precedettero: nel passaggio si perdettero parecchi amici per le ragioni occasionali e sostanziali più diverse. Rimase il gruppo più interessato a un intervento politico-culturale extrapartiti. Si andava ricercando una via di democrazia di classe (con un orecchio rivolto al consiliarismo gramsciano) che ebbe la sua massima espressione nel Manifesto scritto da Fortini e Roberto Guiducci in occasione della insurrezione ungherese del ‘56, a cui aderirono vari intellettuali di sinistra. La crisi ideologica che investì in quell’occasione il partito comunista staccò da tale area una parte rilevante di intellettuali, già disturbati dal colpo di stato ceco del ‘48 e dalle impiccagioni di numerosi dirigenti comunisti in vari processi dell’Europa Orientale contro i presunti titoisti. Del resto il dopoguerra era finito, i giochi sembravano fatti, e l’idea comunista, nonostante la Cina, aveva perso l’attrazione che la guerra le aveva dato, la situazione economica stava migliorando. Le speranze collettive stavano svanendo, e l’aspetto totalitario diventava più intollerabile anche se diminuito. Il gruppo di Ivrea con interessi sociologici-sindacali trovò un accordo con molti dissidenti comunisti, e sperò di esercitare un’influenza egemonica sulla direzione socialista nenniana. Io e Caprioglio eravamo più interessati a rimanere sul piano della cultura non credendo a una possibilità di rompere la logica interna degli apparati di partito, il cui lavoro del resto non ci interessava e su cui non pensavamo possibile che un’opera di proposta. Fortini rimase in quell’occasione un po’ isolato, anche se condividevo la sua diffidenza sul lato arrivistico del centro-sinistra, ma non il suo nascente spirito di utopia.
La crisi della rivista e della sua redazione, che ebbe luogo in atmosfera non idillica, rese quasi nulli i miei rapporti con Fortini, anche se la tenzone non fosse stata tra di noi; ma probabilmente Fortini aveva sperato in un mio appoggio più diretto alle sue posizioni. Egli si rifece vivo offrendomi la traduzione del Dieu cachè di Lucien Goldmann, riservandosi la parte in versi e un’eventuale revisione che nei fatti si limitò ai primi capitoli. Dopo un’altra parentesi Fortini mi ritelefonò per chiedermi di collaborare ai Quaderni Piacentini ancora nella propria infanzia. Aderii volentieri: ma mi sembra che nel 1966 Fortini mi accusò inaspettatamente sulla detta rivista perché in un saggio su Lukács (pubblicato sulla rivista Il corpo, che facevo in quegli anni in compagnia di Sergio Caprioglio, Giorgio Dolfini, Elvio Fachinelli e Giancarlo Majorino) en passant lo avevo rimproverato di soffermarsi troppo, sia pur con rinuncia finale, sulla tesi, credo majakovskiana, del mandato storico della poesia.
Fortini si lamentò di una mia incomprensione, e si diffuse in divagazioni maoiste, forse perché il mio testo era chiaramente rivolto contro l’estremismo del giovane Lukács: io risposi a tono negando ogni accostamento possibile tra situazione storico-sociale italiana e quella cinese, ma la pubblicazione della mia replica su Quaderni Piacentini fu ostacolata dall’interessato, e fu permessa solo dall’intervento dell’amico Renato Solmi.
La redazione si dichiarò d’accordo con Fortini (anche se pochi anni fa la Cherchi mostrò di condividere a posteriori il mio giudizio sul maoismo), e la mia collaborazione alla rivista ebbe termine. Dopo di allora ci furono contatti telefonici in occasione della ristampa di Ragionamenti, Fortini non condividendo gli interventi di Momigliano e Guiducci. E, suppongo, il mio. Rarissimi gli ulteriori incontri faccia a faccia: ricordo in occasione dei funerali di Sergio Solmi. Tranne un biglietto subito dopo la fine di Ragionamenti di puri auguri di buon lavoro e studio, non ricordo lettere. Del resto i nostri interessi culturali erano sempre stati distanti. I suoi, letterari, critici, politico-utopistici; i miei, strettamente filosofico-storici.
...E OGNI SERA CI NARRAVA FATTI, EPISODI DA LUI VISSUTI...
di Rosa Birolli
Ricordo Fortini come un amico e uomo di profonda umanità.
Quando nel 1959 morì mio marito, il pittore Renato Birolli, io decisi di portare i miei figli in villeggiatura a Bocca di Magra dove già anni prima eravamo stati. Sapevo che il ricordo sarebbe stato amaro, ma sapevo pure che avrebbero trovato vecchi compagni di giochi che li avrebbero aiutati.
La cosa più sorprendente invece fu l’aiuto che Fortini diede a tutti noi: per un mese, il tempo in cui rimanemmo a Bocca, tutte le sere egli volle passarle in nostra compagnia, e ogni sera ci narrava fatti, episodi da lui vissuti, ricchi di esperienze e di valori culturali.
Personalmente la sua figura così fiera e capace mi intimidiva moltissimo; mio figlio Marco, allora un ragazzino di dodici anni, ascoltava ammutolito la bella voce di Fortini, mentre Zeno, l’altro figlio, osava, incoraggiato, un rapporto con lui.
Per tutto il mese che restammo in villeggiatura, lui e sua moglie passarono le sere con noi cercando di toglierci da quella triste solitudine in cui eravamo caduti.
Questo ricordo mi riporta a quel tempo e testimonia la profonda umanità che Fortini ebbe con noi, egli ci aiutò e ci fece risentire partecipi al mondo culturale che credevamo di aver perso con la morte di Birolli.
...E’ STATO UN INTELLETTUALE DELLA NUOVA SINISTRA FINO ALLA FINE DELLA SUA VITA...
di Sergio Bologna
Innanzitutto, lo ricordo come amico, con il quale ho condiviso molte esperienze all’inizio degli anni Sessanta.
Primo incontro: a livello professionale, quando lui lavorava all’Olivetti alla direzione Pubblicità e Stampa come copywriter, io andai a lavorare nello stesso ufficio, quindi ci conoscemmo allora. Lui iniziò un rapporto di consulente esterno, lì avemmo modo, lui con lunga esperienza precedente, io alle prime armi, di affrontare un discorso relativo ai rapporti tra intellettuali ed industria. Avevamo molti amici in comune, come Giovanni Giudici per esempio, che oggi è considerato uno dei maggiori poeti italiani.
Secondo incontro: alla rivista “Quaderni Piacentini”. Lui era stato tra gli ispiratori dell’iniziativa di Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio nel ‘61-’63, il periodo della preparazione. Nel ‘63 anch’io conosco i piacentini e divento un collaboratore, non dico costante ma abbastanza frequente, della rivista, vedo spesso Franco Fortini alle riunioni di redazione.
Terza ragione di incontro: viene pubblicata in Italia la raccolta di saggi “L’anima e le forme” di Lukács, io faccio la traduzione e lui la prefazione.
Quarto incontro: nei “Quaderni Rossi”. Franco era amico di Panzieri. Io sono entrato in questo gruppo ancora inesperto di cose politiche e di marxismo. Nel numero dove si pubblicò l’intervento di Bertolt Brecht al Congresso degli scrittori del 1935, lui presentò questo intervento con un suo saggio introduttivo ed io tradussi il testo, se non ricordo male.
Esistevano ormai quattro punti di contatto: l’Olivetti, i “Quaderni Piacentini”, i “Quaderni Rossi” e Lukács. Ci siamo incrociati in tanti luoghi che alla fine la nostra amicizia è diventata forte. Negli anni Settanta ci siamo visti ben poco, di sfuggita, ma ci seguivamo a distanza. Quando, alla metà degli anni Ottanta sono ritornato in Italia (dopo un esilio durato tre anni), Franco è stato una delle prime persone che ho voluto rivedere e con il quale ripresi un dialogo, un rapporto di collaborazione che poi si sarebbe dovuto concretizzare nella progettazione della rivista “Altre ragioni” che uscì nel 1992. Fu lui a trovare il titolo, ma poco dopo se ne allontanerà ed anch’io, dopo il secondo numero, me ne sono allontanato. Un’amicizia che risale ad oltre trenta anni fa, un dialogo stretto che era ripreso da una decina d’anni, prima della sua morte. Quindi è chiaro che nel momento in cui dopo la sua morte fu ricordato ed esaltato da molte persone che con lui avevano poco a che fare, e che magari nel corso della sua vita lo avevano osteggiato, io abbia sentito il bisogno di assumere l’iniziativa, insieme ad altri suoi amici e compagni che gli sono stati vicini, di fare un’altra commemorazione, per sottolineare il fatto che Franco Fortini è stato un intellettuale della nuova sinistra fino alla fine della sua vita.
...NELLA SCRITTURA DI FRANCO FORTINI RESTERANNO SEMPRE TRACCE DEL LINGUAGGIO EVANGELICO APPRESO IN QUEGLI ANNI...
di Giorgio Bouchard
Nel suo bel libro “I cani del Sinai” Fortini racconta un episodio poco noto della sua vita: giovane studente in una Firenze oppressa da un regime che sta inclinando sempre più verso il totalitarismo, Fortini incontra un pastore evangelico affettuoso e affascinante, e se ne lascia condurre alla scoperta del Cristo, fino al battesimo. Fortini non nomina questo pastore, ma noi sappiamo bene chi è: si tratta di Tullio Vinay, destinato in pochi anni a diventare il capo carismatico della gioventù valdese, il costruttore di Agape, il centro giovanile d’avanguardia, sorto a Praly, nelle Valli Valdesi, subito dopo la guerra: l’uomo che creerà poi, nel cuore della Sicilia mafiosa, il “Servizio Cristiano” di Riesi poi compirà un celebre viaggio nel Vietnam, e concluderà la sua vicenda pubblica come senatore indipendente nelle file del PCI.
Per Fortini, questo episodio evangelico è stato solo un momento di transito verso quel marxismo emancipatorio a cui dedicherà tanta passione, e in cui incontrerà, anche, qualche delusione.
E tuttavia, nella scrittura di Franco Fortini resteranno sempre tracce del linguaggio evangelico appreso in quegli anni: ricordando una conversazione con Ernesto De Martino ormai alla fine (consapevole) della sua vita, citerà uno dei testi più ostici di San Paolo: “il salario del peccato è la morte”. Pubblicando una collezione di testi significativi del Novecento, la intitolerà “Profezie e realtà del nostro secolo”.
Personalmente, pur militando nella sinistra, non ho mai condiviso l’idea di Fortini (e di qualcun altro) che il messaggio cristiano potesse perdere la sua radicale alterità per risolversi e dissolversi nel linguaggio – e nella prassi – d’una rivoluzione un poco mitizzata.
Conservo tuttavia di quelle pagine e dei miei rari incontri con l’uomo Fortini un sapore di fierezza e di verità che mi sento in dovere di ricordare ora che egli ci ha lasciati.
“...MA I TAMBURI, NON LI SENTITE I TAMBURI...?”
di Lelio Calvi
Il mio è il ricordo di uno che ebbe Fortini come insegnante a sedici anni, in seconda superiore, nell’anno scolastico 1968-’69, in piena bufera politica.
Già l’idea del suo possibile, poi certo, arrivo ci elettrizzò, dico “ci”, perché anche i non politicizzati lo attendevano incuriositi e un poco spaventati di fronte alla prospettiva di essere valutati dal famoso Fortini, comunista e poeta, un binomio fino ad allora mai incontrato nelle antologie scolastiche.
Non fu uno shock, fu all’inizio un po’ di delusione perché il politico Fortini faceva invece l’insegnante normale, con i suoi voti (stretti), le sue citazioni per noi incomprensibili, le sue critiche alla nostra ignoranza del tedesco, lui che traduceva Goethe.
Ci leggeva le poesie, anche le sue, è ovvio, si stupiva che non ne sentissimo la musica, le allitterazioni, “i tamburi” (“ma i tamburi, non li sentite i tamburi?”) e noi un po’ a ridere con la stupidera dei sedici anni, un po’ a piangere per il timore di brutti voti. Ma fu un anno bellissimo, perché c’era il sessantotto, perché occupammo la scuola, perché eravamo ragazzi e felici di avere un Fortini a leggerci (in tedesco!) Goethe.
...MORTIFICAVA L’ISPIRAZIONE, L’INVERIFICABILE CHE STA ALLE SPALLE DELLA SCRITTURA
di Pietro Cataldi
Fortini era un appassionato dicitore di versi. I propri e gli altrui (ladro di ciliege anche nel recitare); condivisi e distanti. C’era infatti in lui il piacere anche strettamente fisico nel declamare un ritmo. Ed era anche un piacere mnemonico; spesso la recitazione si compiva sull’ispirazione della memoria, con sicurezza per lo più infallibile, e comunque con la capacità di includere nel gioco anche il vuoto di memoria, il cortocircuito tra una strofe e l’altra. In questi casi Fortini sapeva ovviare, se la lacuna non risultava colmabile, con la semplice scansione del ritmo, su sillabe d’appoggio o su un asciutto mormorio gutturale e profondo, come si canta la sola melodia di una canzone della quale manchino le parole: e l’esibizione nuda dei dattili o giambi dava in qualche caso la sensazione di essere a contatto con l’ossatura più intima del lacerto di testo mancante.
Se recitava versi propri, erano in genere inediti: soprattutto epigrammi, anche estemporanei, con rime inaspettate e cattive. Tra i versi altrui, a volte pareva che Fortini pescasse volentieri in repertori distanti. Qui la recitazione assumeva un’impostazione di secondo grado, come se il tutto fosse contenuto e legittimato da virgolette stranianti, e magari da un’allusione di condanna. Era questa, forse, la chiave più genuina del rapporto fortiniano con la letteratura. Il compiacimento per la forma e la distanza da tutto il resto, e anzi dalla forma stessa e dal proprio compiacimento, partorivano lo stesso sorriso: ammirato e indignato. Una sera, dicendo con intensa sottolineatura di enjambement e di iperbati Il vischio, invita gli astanti a registrare la fastidiosa abilità pascoliana, mormorando “Che figlio di cane!” con la bocca stirata all’ingiù in una smorfia di riprovazione e di stupore. Non era un’astratta “bellezza” ad ammirarlo e a offenderlo: era la bravura artigianale con la quale una data difficoltà risultava superata.
Nell’esecuzione a voce alta Fortini confidava anche quale verifica del valore di un testo; così come invitava, innanzitutto i suoi studenti senesi, a trascrivere personalmente a mano, parola per parola, i testi poetici da studiare. L’umile funzione di copista valeva quale sicuro primo orientamento critico, e magari quale denuncia inappellabile di “zeppe” e “imbrogli”. Lui stesso, a volte, trascriveva ordinatamente alla lavagna, con il gesso, un testo. Lo fece una volta con “E come potevamo noi cantare” di Quasimodo. E mentre tendeva a mostrare l’importanza di quel linguaggio poetico per tanta poesia coeva e successiva, non poteva fare a meno di riprovarne la manchevolezza, l’equilibrismo fallimentare, la congenialità, insisteva, della “zeppa”.
Chi ha gettato anche solo un occhio sui manoscritti poetici fortiniani sa che spesso un medesimo testo ritorna in innumerevoli versioni, con varianti a volte minime, lungo stratificazioni correttorie successive, implicanti ciascuna una nuova stesura integrale. Evidentemente Fortini esercitava anche su di sé, a partire dalla dimensione generativa dei testi, quelle verifiche che raccomandava agli allievi. In questo modo mortificava l’ispirazione, l’inverificabile che sta alle spalle della scrittura, umiliando l’irripetibilità del dettato, escludendone ogni sacrale ne varietur, ogni pretesa di originarietà, e inserendolo in una trafila artigianale e concreta, scagliandolo dentro il conflitto del “poter essere”, delle opzioni e delle alternative. Le condizioni date alla scrittura (un tema che egli non ha mai smesso di richiamare) si chiarivano anche in questo svolgersi di un progetto – l’opposto di una rivelazione -, in questo nascere già dentro la dimensione processuale e aperta della storia.
Se in tutto questo poteva esserci del narcisismo, esso valeva tuttavia quale trampolino verso la “poesia onesta”.
...UN FORMIDABILE PEDAGOGO...
di Ivan Della Mea
Alla serata di commemorazione al Pierlombardo, subito dopo la morte di Franco, sua moglie Ruth mi fa: – Ti ricordavo con i pantaloni corti…
E’ molto probabile, perché c’è stato un periodo di intensa frequentazione di Franco Fortini a casa nostra e non ti so dire se a Bergamo, via Pignolo 61, forse ai primi tempi in cui mio fratello Luciano aveva cominciato a pubblicare qualcosa..
Quindi il primo ricordo di Franco è sicuramente legato alla mia infanzia; ed è un ricordo di uno che parla in una maniera diversa. Lui, quando parlava, tirava sempre molto su la testa quasi come se guardasse oltre. Questo mi aveva colpito molto.
Poi ho un ricordo di lui e di Vittorini, che si sono incrociati alcune volte a casa di mio fratello: entrambi erano estremamente golosi di alcune cose che faceva mia mamma, le crocchette di patate, preparate con erbe toscane; e parlavano, parlavano. Fortini era uno che parlava molto.
Poi, ho quest’altro ricordo – che ho già narrato su l’Unità – di una manifestazione fatta davanti al consolato spagnolo, allora in corso Genova. Io e Mauro Rostagno, che allora era della FGCI, avevamo fatto uno sciopero della fame per Grimau. Ci fu questa manifestazione con cariche della polizia e la polizia fermò uno dei due… qui il ricordo mi si confonde -: o Fortini o Vittorini. Si creò un momento di vuoto, mentre i poliziotti stavano accompagnando questo scrittore nel cellulare, e allora è venuto fuori l’altro a dire:- Se fermate lui, dovete fermare anche me! E lì partì in maniera spontanea questo slogan un po’ stravagante: “Giù le mani dalla cultura!”, che ricorderò per tutta la vita.
L’altro ricordo riguarda il periodo terribile degli anni ‘80, in cui era difficilissimo mettere insieme iniziative di solidarietà: l’unico intellettuale che ho visto sempre seriamente attento e presente è stato Franco. Ricordo una manifestazione in quegli anni legata ancora alla figura di Pinelli al cinema-teatro Ducale: io cantai e poi Franco lesse, in un silenzio assoluto, un brano del suo diario sui funerali di Giuseppe Pinelli.
Poi è venuto fuori – e questa è proprio l’ultima cosa – che io avevo scritto questa Cantata ambrosiana e avevo chiesto a Sebastiano Timpanaro se mi faceva una prefazione. Sebastiano, molto affettuoso, mi disse che lui non se la sentiva, che era un ottocentista, di provare a parlarne con Franco. Gli telefonai verso la fine del ‘92. Gli feci avere il materiale, come lui mi aveva chiesto, e poi mi telefonò dicendomi: – E’ una cosa strana, però è intrigante, m’incuriosisce molto.
Poi, ci fu un periodo in cui ci sentimmo abbastanza spesso per telefono, perché aveva scoperto il computer. E’ stata la rivelazione di un mondo. Aveva col computer lo stesso atteggiamento che poteva avere mio figlio… E poi, niente… è andato ad Ameglia, ma stava già poco bene e lì andarono mio fratello Luciano e Pannocchia a prendere questa prefazione per La cantata ambrosiana. Gli feci avere naturalmente il libro, quando venne fuori, e gli chiesi se se la sentiva di venire con me a Radio popolare per presentarla. Mi disse di no, che aveva una stanchezza micidiale addosso…Ma dopo l’uscita del libro – l’ultima telefonata che m’ha fatto – mi ha detto:- Senti, qui nel casino delle cose mie mi è ritornata fuori la tua Ambrosiana (lui la chiamava così..) e ti devo fare una domanda. E io dico:- Sì. Fai…E lui: – Io ho la sensazione che per te non è finita, perché le dieci lasse non concludono la storia. Per me infatti non era finita, ma con tutta franchezza non sapevo come cazzo andare avanti… Io so che ci avevo lavorato sopra parecchio e la pubblicazione l’avevo accettata come una liberazione. Poi dopo aver letto il suo ultimo libro, Composita solvantur, ho fatto le altre dieci lasse… Mi è riuscito di andare avanti, insomma…
Quello che mi ha sempre affascinato di Franco – lo ripeto – era proprio il suo modo di parlare. Mi dava la sensazione di uno che nel parlare avesse comunque presente una specie di asse centrale, ma che sapesse poi fare un uso incredibile del cosiddetto pensiero laterale. Ti spiazzava, sfondava da una parte e dall’altra e se tu eri abituato a una certa struttura logica, non ti ci raccapezzavi… a me questo ha sempre affascinato. In altri ha potuto creare anche irritazione o l’idea di avere a che fare con un uomo estremamente difficile, umorale, scostante (così appariva anche Gianni Bosio…). Ma, secondo me, aveva la capacità di non farti sentire né la distanza generazionale né quella culturale, di interessarti senza farti sentire ignorante. Questo è stato uno degli elementi di fascino di Franco. Non so se era una scelta di tipo pedagogico o una grande propensione per insegnare. Era un formidabile pedagogo: costringeva gli altri a pensare. E dovevi essere disposto a essere insegnato o imparato, come direbbero i meridionali, se no quella sua volontà di insegnare la vivevi come arroganza. E poi lui e quelli come lui (Vittorini, Bosio, ecc.) sapevano tenersi intorno la zona grigia: crescere con i collaboratori. E c’era in loro anche una felicità di stare insieme. Io ero contento quando sapevo che a cena venivano, ero giovanissimo, probabilmente non capivo una sega di quello che dicevano, ma ero letteralmente affascinato non solo dal gioco delle intelligenze, ma da questo loro conoscersi, stare materialmente insieme, che per me – dopo l’esperienza che sto facendo con gli anziani qui all’Arci Corvetto – è più importante di qualsiasi bandiera.
Un’altra cosa per cui l’ammiro è per aver sempre dichiarato il diritto alla sua intellettualità. Non ha mai fatto il populista, pagando anche un prezzo politico. E’ come se dicesse: io sono questa cosa qui, faccio quello che so fare… Se vengo in piazza è per mie convinzioni, non perché, se non ci venissi, non sarei un intellettuale di sinistra. Era un discorso di grandissima dignità. Perché contiene non solo il rispetto nei confronti di se stessi, ma anche nei confronti degli altri. E non è un caso che, nel momento in cui tutti si sono defilati, l’unico che trovavi era lui, proprio perché lo faceva totalmente per sua scelta personale, perché si sentiva di farlo.
Ho avuto con Franco anche dei momenti di scambio dietro le quinte, per esempio in teatro – prima che io andassi a cantare e lui a parlare o a leggere un pezzo – e se credo di aver trovato qualche volta in lui degli elementi di estrema fragilità, devo dire che era la fragilità – la sensazione è tutta mia – di una solitudine pazzesca. Aveva intorno un casino di gente, che tutta più o meno l’omaggiava, eccetera; ma alla fine non riusciva a dire se stesso agli altri. Forse l’unica stagione in cui, di mio, lo ricordo meno solitario è stata proprio quella tra gli anni Cinquanta, dopo i fatti di Ungheria, e gli anni sessanta fino al tempo dei Quaderni rossi.
Questo è il quadro personale di Fortini che mi sono costruito, mettendo insieme tutte le impressioni su di lui che mi sono fatto in tempi diversi. Ma il Fortini che mi resta nella testa e nella memoria è il Fortini dell’ultimo scritto, quello di Cari amici, non sempre chiari compagni.
Aggiungo un’ultima cosa: per me Fortini era sempre in settima…, un accordo sospeso, che ti dà la possibilità di partire ancora più forte o come si vuole. Io lo trovavo, magari dopo un anno, a una manifestazione e mi approcciava così… come in settima…
...RINCORREVA INTUIZIONI NUOVISSIME, SOVENTE STREPITOSE...
di Luciano Della Mea
Avevo scritto un racconto lungo nel ‘48-’49, a Bergamo. Lo lesse Giuseppe Marotta e, miracolo, dopo avermi dato pagina per pagina un giudizio criticamente positivo, mi disse: “Fallo leggere a Franco Fortini”. Io, dopo aver incontrato e parlato con Giuseppe Marotta, rattrappito da una timidezza e da una soggezione pressoché paralizzanti, non avendo mai sentito neppur parlare di Fortini, ero alquanto intimorito e nello stesso tempo ansioso. Venivo da due anni e mezzo di guerra e resistenza. Avevo ventidue anni. Ero ignorante come due talpe. Ero povero in canna. Avevo lavorato come scaricatore di tavole in un magazzino di legnami a Milano e lavoravo in un albergo come portiere a Bergamo anche per cause di salute.
Marotta, per indirizzarmi da Fortini, aveva telefonato al pisano Alfredo Panicucci, allora redattore della terza pagina dell’”Avanti! ”, e tramite lui mi procurò anche lì per lì una collaborazione spicciola per due spiccioli: anche perché la mia tendenza era socialista (mi iscrissi al PSI dopo la sconfitta del Fronte Popolare, per il quale aveva votato anche Marotta).
Andò che mi presentai a casa di Fortini con la fifa di un esaminando o quando si va per il servizio leva militare o al primo posto di lavoro. Mi confortò (sic!) il fatto che la sua casa in una viuzza nei pressi, se ben ricordo, di piazza XXV Aprile (luoghi affollati e caratterizzati dalla sede della federazione del PCI), fosse povera e spoglia: libri a parte, tantissimi, e cartelline e fogli sparsi dovunque. C’era anche un balconcino interno, grigio grigio, insomma quell’ambiente mi mise un po’ a mio agio. Mi aiutò anche, allora e in seguito, il tratto umano fatto di poche parole, di svelte sollecitudini, di una straordinaria capacità di ascolto (e con Fortini, conversatore ed interlocutore ad oltranza, ce ne voleva molta e assai impegnata), di curiosità verso gli altri, io in quel caso, di Ruth Leiser, svizzera, moglie e compagna di Franco (con lui finché Franco è vissuto, Ruth ha collaborato in ogni senso, comprese non poche traduzioni, e lo ha assistito durante la lunga malattia che lo fece morire: insomma, una presenza fondamentale nella vita di Fortini).La
stessa attenzione e curiosità, rese più rapide e parche dalla vita, la riscontrai quando andai a trovare lei e Franco, dopo tanti anni che non ci vedevamo, nella loro bella casa fuori Ameglia, sopra la vittoriniana Bocca d’Arno, per avere da Franco la sua dotta prefazione al libro “Cantata ambrosiana” di mio fratello Ivan.
Al nostro primo incontro Fortini volle sapere della mia vita, del mio passato e presente, e fu attento e anche impressionato che io, così giovane, ne avessi già passate tante e mi fossi caricato in guerra e in “pace” di tante responsabilità. Poi lesse il mio racconto, gli piacque criticamente, gli trovò il titolo “Chi va e chi resta”, un verso di Montale, lo mandò a Geno Pampaloni, allora a Ivrea nel movimento di Comunità, ebbe conferma che il racconto prometteva bene, e da allora divenne per diversi anni in ogni senso il mio insegnante. Frequentavo moltissimo la sua casa, sempre aperta, sempre ospitale, a volte anche generosa terra terra, secondo la sobrietà di tratto e di modi di Ruth Leiser (che mi ha scritto nel settembre scorso: “Eravamo tutti poveri, con difficoltà di lavoro e logistiche, ma c’era lotta e speranza (quest’ultima anche ingannata) e rimpiango quei tempi”): fui anche più di una volta assistito nel mio male di allora, l’agorafobia, che durò due o tre anni.
Fortini, a voler fare un paragone che a posteriori mi sembra valido, era per me una fluente risonanza magnetica nucleare culturalmente omnicomprensiva, con spettrometri o tomografi che l’amicizia magistrale e la stima di vita arricchivano e stimolavano. Lo sbocco immediato e futuro del suo insegnamento, anche a magistero poi distanziato e noi su strade diverse e anche contrastanti sia pur per brevi periodi, fu un anticapitalismo permanente e aggiornato, ai vari livelli del suo potere e delle sue culture pervasive. I punti di convergenza più significativi e databili furono prima i “Quaderni rossi” e poi il ‘68, e infine, sfociata pressoché tutta la sinistra nel trasformismo politico e nell’omologazione culturale dentro il sistema capitalistico, il nostro no ben chiaro e operante.
Fortini nella sua casa (e poi in quella di via Legnano dove mi parlò per la prima volta di un Piergiorgio Bellocchio emergente e della vigilia dei “Quaderni piacentini”), al telefono e per strada, spesso preso dai suoi tanti vari, affascinanti monologhi: una eloquenza storica, magistralmente socratica e di cui il tratto essenziale era che con essa non svolgeva un solo tema dall’a alla zeta con cultura letteraria, storica, filosofica, antropologica enciclopedica; ma via via andava avanti e indietro, rincorreva intuizioni nuove, sovente strepitose, che lo portavano per tante vie, vicoli, sentieri, piazze, pianure, montagne, mari, crepacci, voragini… unica la meta: un’umanità franca e affrancata.
...IL RAPPORTO CHE AVEMMO CON FORTINI PARTI’ E RUOTO’ INTORNO A CIO’ CHE CERCAVAMO DI FARE…
di Andrea De Lotto
………… ci provo.
Ti ho già comunicato in qualche modo le mie difficoltà nello scrivere su Franco Fortini. L’ho fatto solo una volta ed è stata una scrittura collettiva, come collettiva è stata la conoscenza con Fortini.
L’inadeguatezza, di fronte al compito che mi chiedi, è la prima sensazione.
Non so a chi sarà rivolta questa scrittura. Ma cominciamo, altrimenti si rischia di diventar noiosi.
Parlai con Franco Fortini per la prima volta per telefono nel novembre del 1990, lo invitavo ad un’iniziativa in Statale, ad un dibattito simile a quello a cui aveva partecipato alla Casa della Cultura poco tempo prima in seguito alla proiezione di un film-documento sulla tortura. Mi parlò per mezzora, il succo era questo: “Se occupate l’università allora vengo…”.
Non ricordo bene che cosa potessi sapere di lui prima di conoscerlo: l’avevo visto e ascoltato in una serata organizzata dagli anarchici in ricordo della morte di Pinelli, in quell’occasione aveva letto una sua pagina di diario dove descriveva la gelida e sparuta partecipazione al funerale dell’anarchico ucciso.
Avevo letto degli articoli scritti da lui, l’avevo ascoltato quella sera alla Casa della Cultura, scoprendo a sorpresa che viveva qui a Milano.
La Commissione Creativa, questo è il nome del gruppo di cui facevo parte e che risaliva al movimento universitario della Pantera, lavorò a lungo per preparare quell’iniziativa del 13 Dicembre in Università tanto che eravamo oramai certi della riuscita. Credo che solo grazie all’energia che questo gruppo sprigionava trovai la forza o l’incoscienza, che tuttora non mi spiego, per presentarmi a due ore dall’inizio della proiezione del film a casa di Fortini spiegandogli l’importanza della sua partecipazione.
Mi disse che doveva consultarsi con qualcuno sopra lui, e non trovandolo telefonicamente mi disse di aspettare e uscì un momento. Rientrò mezzora dopo, accettando l’invito. A quel punto il ghiaccio si era sciolto, parlammo a lungo e dovetti correre per l’inizio della proiezione. Lui arrivò puntuale e i suoi due interventi di fronte ad un’aula gremita colpirono nel segno.
Un mese dopo scoppiava la guerra del Golfo. Ricominciammo a sentirci.
Venne più di una volta in Università presenziando da lontano e silenziosamente alle assemblee studentesche, venne quando invitammo Sergio Bologna (che Fortini stesso mi aveva segnalato) ma sempre volle che non comparisse il suo nome nelle presentazioni. Infine, durante una giornata di controinformazione, intervenne per ultimo in un’aula colma. Parlò dopo Andrea Rivas e padre Turoldo, ma solo perché lo invitai pubblicamente a intervenire. Quando lo feci mi guardò malissimo, un attimo dopo scese dai banchi e mi chiese quanto tempo aveva.
Da quell’intervento e dalla sua pubblica proposta, nacque quel gruppo della cui esperienza raccontiamo nel numero monografico della rivista dell’Istituto de Martino dedicato a Franco Fortini. Il resto è davvero storia personale.
Voglio solo aggiungere un punto: quando nella primavera del ‘93 accettò di partecipare ad un seminario settimanale sulla resistenza organizzato dal gruppo L’eccezione e la regola (che in seguito produsse il volume Conoscere la resistenza), chiese di poter ascoltare regolarmente le registrazioni degli interventi precedenti il suo. E così fece.
Quanti professori di quelli che abbiamo conosciuto o conosciamo hanno un tale rispetto di un’iniziativa tenuta da un gruppo di giovani, da ascoltare tutto ciò che è stato detto prima?
Ma ecco ciò che mi sta più a cuore: credo davvero che Franco Fortini volesse che qualsiasi iniziativa a lui dedicata non si trasformasse in un semplice ricordo del passato, peggio ancora se nostalgico.
Credo che gli farebbe un immenso piacere sapere che incontrandosi nel suo nome ci scambiamo informazioni e ci confrontiamo su ciò che stiamo elaborando, producendo, organizzando, su come, nonostante tutto, continuiamo a muoverci rifiutandoci di accettare l’esistente.
Il rapporto che avemmo con Fortini partì e ruotò intorno a ciò che cercavamo di fare e su questo ci confrontavamo regolarmente. Era il necessario sfondo senza il quale tutto il suo raccontare non avrebbe avuto alcun senso. Il nostro incontrarci non poteva essere fine a se stesso.
È importante che anche ora, se vogliamo seguire il su insegnamento, a costo di essere duri con noi stessi e con gli altri, non si prediliga la comunione alla liberazione.
...CHIESE UNA CIMA DI CICORIA CRUDA, DI QUELLE A SPICCHI, A FORMA DI CUORE, DA PORTARE ALLA MOGLIE...
di Anna Grazia D’Oria
Fortini venne nel Salento nel 1985, a fine novembre.
Tenne di mattina un incontro con gli studenti di Lecce, in una grande sala gremita. Poi, di sera, a Casarano, piccolo centro più a sud, in un cinema parlò e dialogò con un pubblico vario: intellettuali e contadini intervennero al dibattito stimolati dai suoi discorsi; Romano Luperini si trovò a coordinare un’assemblea che si confrontava su temi non specificamente di letteratura. Anche a Fortini questo piacque. Era contento, in auto, percorrendo le nostre lunghe strade diritte, di guardare gli ulivi così diversi da quelli liguri e si informava di tutto: società, cultura, economia.
A cena si entusiasmò per i cibi della cucina tradizionale salentina, chiese una cima di cicoria cruda, di quelle a spicchi, a forma di cuore, da portare alla moglie.
Allora io conoscevo Ruth soltanto perché compariva citata sui libri come traduttrice di molti autori e poi attraverso le poesie di Fortini, una soprattutto, bellissima, a lei dedicata. Fortini disse che con Ruth sarebbero tornati insieme, da turisti, in Puglia. Egli era stato già conquistato da Trani, dalla cattedrale sul mare che aveva visto in un tramonto rosso fuoco: ne aveva parlato innamorato a Piero Manni e a me ad Ameglia, sulla Bocca di Magra, nella sua casa estiva arrampicata nel verde dove riceveva per lunghi colloqui gli amici vecchi e giovani.
Ci incontravamo spesso anche a Siena durante i Convegni e la sua compagnia a cena dopo era piacevolissima. Lo sappiamo tutti che era un gran parlatore. Una volta, tornando verso la Certosa di Pontignano, c’era anche Roberto Bugliani, ci stupì un istrice enorme che ci attraversò la strada.
Sì, era un conversatore instancabile e automaticamente, chi gli stava vicino, diventava un ascoltatore rapito da quello che diceva e diventava discepolo.
Seguiva “l’immaginazione” e la nostra produzione editoriale con interesse: dava consigli, accondiscendeva alle mie richieste di testi per la rivista, e spesso era lui stesso a telefonare:- Vi mando…
Ed è stato nostro autore. Due suoi libri sono nel catalogo della Piero Manni: Diario tedesco, che seguì scrupolosamente e umilmente come sapeva fare quando voleva, e poi l’ultimo, che non ha visto, Trentasei moderni. Breve secondo Novecento, che nasce da sue conversazioni alla Radio Svizzera italiana.
L’idea era di stampare quest’ultimo nelle edizioni curate da Attilio Lolini, nei “Quaderni di Barbablù”. Ma Fortini ebbe resistenze a pubblicare un libro di così immediato impatto contemporaneo, poi la collana stessa tacque. Fortini ci ripensò. Lo preparò per la Piero Manni. Ordinato e costruito, compresi il titolo così come è e il testo, fu argomento di conversazione nelle telefonate che si concedeva nella pause della malattia e del dolore. Quindici giorni prima di morire disse:- Non ho più dubbi sulla pubblicazione. Il testo è pronto e completo e lo spedisco subito.
Fortini morì. Il manoscritto non arrivò. Quando mi venne il coraggio raccontai il fatto a Ruth. Lei guardò fra le carte e nei cassetti e nel computer coinvolgendo anche altre persone nella ricerca. Le speranze erano ormai perdute. Un giorno, dopo qualche mese, lei telefonò: il testo era venuto fuori, nel computer. Così adesso è libro, ed è un altro tassello del pensiero di Fortini, con i suoi giudizi su autori e temi della cultura militante, con la sua visione della funzione della letteratura.
Ma Fortini non c’è più. Quando i grandi se ne vanno lasciano un vuoto che non può essere colmato. La società rimane priva del loro aiuto. Restano gli scritti per le nuove generazioni. A me, a tanti, rimane anche il ricordo di aver conosciuto l’uomo, il maestro. Non è poco, anche se non basta.
...LA FORZA DI UNO SGUARDO UNITARIO E TOTALE, CHE PARTISSE DAL CORTILE DI CASA PER UNIRLO A TUTTO IL VILLAGGIO...
di Roberto Fabbri
“Dovete unire Cologno al mondo” ci disse Fortini una sera del 1986.
Con la disposizione d’animo di un emozionato ammiratore avevo accolto l’invito di Ennio e di altri ad andare a trovarlo a casa sua. Un gruppo di periferia che cercava risposte e una guida.
Oggi, quando ripenso a lui, tornano quelle parole, una sfida che non sono ancora riuscito a comprendere, men che meno a raccogliere. A noi che portavamo il nostro progetto “periferico”, contro i “centri” politici e culturali, Fortini ricordava la forza di uno sguardo unitario e totale, che partisse dal cortile di casa per unirlo a tutto il villaggio. Poche e semplici parole ancora tutte da capire e da attuare.
Di quella sera ho altri ricordi. Quel giorno il Corriere della Sera, sul quale Fortini scriveva in terza pagina, aveva pubblicato uno sciocco dileggio della Rivoluzione Francese firmato da Francesco Alberoni. Fortini era furente. Ci disse che aveva chiesto al direttore del giornale, forse aveva preteso più che chiesto, di rispondere al dileggio con un articolo in prima pagina il giorno seguente. Rimasi colpito dal fatto che lui volesse ribattere ad Alberoni, che non lo sfiorasse l’idea di lasciar correre simili corbellerie scritte da un … Che non fosse disposto a lasciar correre, a concedere al nemico argomenti e spazi.
Ricordo anche un suo ricordo, quando si trovò, sulla sua seicento con la radio accesa e le notizie del ‘56 ungherese. Lì per lì non ci feci molto caso. Ma quando anch’io mi ritrovai, anni dopo, in macchina senza una meta precisa, ad ascoltare le notizie del massacro di Tien An Men, mi ricordai ancora di lui.
...MI CHIESE DI LEGGERGLI IN INGLESE IL TESTO DEL “LYCIDAS”...
di Franca Gianoli Grandinetti
Di Franco Fortini ricordo che una volta, mentre a casa sua stavo chiacchierando in cucina con sua moglie, egli venne e mi chiese di leggergli in inglese il testo del “Lycidas” di Milton, per verificare se la traduzione, che egli ne aveva fatto, corrispondesse al suono che il testo aveva nella lingua originale. Non mi meravigliai di questa richiesta, non perché dubitassi della sua capacità di traduttore, ma perché conoscevo il suo rigore intellettuale e la sua scrupolosità; infatti, quando in seguito egli mi lesse la sua traduzione, trovai che era incredibilmente aderente all’originale anche nella sua componente fonico-simbolica, nonostante la differenza di sonorità tra le due lingue.
...MI PIACE LEGARE LA SUA MEMORIA A UN VERSO DI GALEAZZO DI TARSIA...
di Eugenio Grandinetti
Di Franco Fortini non si può non ricordare ogni incontro, ogni parola, nonché il suo porsi nella nostra società come coscienza critica, come letterato e come poeta; ma mi piace legare la sua memoria a un verso di Galeazzo di Tarsia.
Eravamo a casa di un comune amico e il discorso cadde sui poeti ingiustamente trascurati tra i quali va senz’altro annoverato Galeazzo. Ma prima di parlare – come ci si sarebbe aspettato da un letterato – dell’utilizzo di suoi versi da parte di poeti più famosi (come ad esempio il Foscolo di “Se ti fur care le mie chiome e il viso” o il Leopardi di “ermo colle”) Fortini volle recitarmi un verso, bellissimo per se stesso e non per possibili riferimenti letterari. Questo verso è il decimo del sonetto XII, dove il poeta, pensando alla donna amata, si chiede quando potrà vederla “ignuda folgorar sull’erba fresca”.
A posteriori, pensando al vuoto che Franco ha lasciato in quelli che lo conoscevano, ora mi pare che il suo passaggio sia stato breve e luminoso, veramente come un “folgorar sull’erba fresca”.
L’IMMAGINE DEL SUO STUDIOLO, QUELLO PIENO DI LIBRI...
di Marcello Guerra
Non è che ne capissi molto, era un parlare e un sovrapporsi di opinioni…
Incontrammo Fortini per discutere di una rivistina povera “auto-redatta e edita” da noi stessi che ci definivamo “intellettuali periferici” e fummo criticati da lui non per la “perifericità” del nostro operare ma per “l’intellettualità” con cui volevamo identificarci.
Non è che ne capissi molto, avevo apprezzato il tono della discussione, del discutere di Fortini, del suo lamentarsi della propria salute – che in verità mi pareva ed era allora ancora buona- e delle tisane cui era, a suo dire “costretto”.
A volte ho un ricordo vago. A volte l’immagine del suo studiolo, quello pieno di libri che avrebbe sempre voluto donare a qualche scuola; questa immagine mi si confonde con la sua poesia dedicata a Lukács….”Alle sue spalle guardiamo libri deperiti/ i tappeti il legno gotico/ del San Martino a cavallo/ che si taglia il mantello/ per darne metà al mendicante./ Gli uomini sono esseri mirabili”.
…MI FA: – L’AUTORIZZO A PUBBLICARE LE LETTERE CHE LE HO SCRITTO…
di Umberto Lacatena
Vi ricordate quel concorso per un racconto inedito promosso dall’Espresso? Vi partecipai con un capitolo del mio romanzo “Amanti domestici” che è uscito nelle ultime settimane in una collana di narrativa della Newton Compton. Ma quando andai a trovare Fortini, che era uno dei giurati, non glielo dissi, malgrado mi avesse scritto che nei miei racconti c’era “cervello, estro, invenzioni, barbagli”.
Fortini mi accolse in un salottino, poi, con aria ilare, mi fece vedere una stanza piena di dattiloscritti: – Se dovessi leggerli davvero, ho calcolato che dovrei dedicarvi almeno quattro ore al giorno per quattro mesi. E dall’Espresso continuano ad inviarmi altri racconti -.
Rivedrò Fortini a Siena. Parlava con la moglie del mio ex editore che sosteneva che il fallimento degli scrittori è un fatto molto onorevole, di cui andare orgogliosi. Io invece piango, le dico, e mi tiro anche i capelli; dico tutte queste cose qui e anche altre, le dico col sorriso straziato e a lui, a Fortini, con grande scandalo della spaurita moglie dell’editore, dico: – Ma lei non vuole proprio aiutarmi ad aver successo! -.
Glielo dico così, di brutto, tanto che, prima di scappar via, mi fa:- L’autorizzo a pubblicare le lettere che le ho scritto -.
...IL SENSO DEL SUO “DIFENDETECI” E’ TUTTO RIVOLTO AL FUTURO...[IN EXTREMIS]
di Luca Lenzini
Composita solvantur, l’ultima raccolta di versi di Fortini, fu pubblicata nel febbraio ‘94, quando la malattia che di lì a soli nove mesi lo avrebbe portato a morte si era già manifestata. Per questo, quel libro è stato visto come un consapevole ‘testamento poetico’ da critici, recensori e lettori; in ciò incoraggiati da alcune interviste rilasciate in quel giro di mesi dallo stesso scrittore, che con nettezza vi dava per scontata la prossimità della fine, e lucidamente tirava consuntivi del proprio percorso di intellettuale e poeta. In particolare, l’ultimo verso della poesia conclusiva della sezione eponima della raccolta, “Proteggete le nostre verità.”, ha assunto così il valore di “sigillo” (è la parola del ‘risvolto’ di Composita) dell’opera fortiniana.
Non è stata certo né una forzatura della critica, né una interpretazione fatta con il ‘senno del poi’: quel verso, e tutto il testo che esso conclude, hanno davvero un’intonazione testamentaria, non diversamente dal Saluto che chiude Extrema ratio, il libro di saggi uscito quattro anni prima. Tuttavia, di fronte all’ormai rituale citazione di “Proteggete…”, io non riesco a non avvertire nella sua ricezione un che di equivoco (o di semplificatorio), sia rispetto al senso generale dell’opera in versi, sia pensando all’atteggiamento di Fortini nei mesi che ne precedettero la scomparsa. Sarà che lui stesso era solito mettere in guardia dal costume di attribuire alle parole dei morenti un ‘di più’di verità, o sarà perché in nulla i nostri ultimi incontri, nonostante la malattia, avevano differito dai tanti precedenti – lucido e battagliero come sempre, non aveva davvero mollato la presa sul suo e nostro tempo. Il fatto è, che se devo oggi portare una testimonianza personale per contribuire alla memoria di Fortini, non so far di meglio – mi rendo conto che è ben poco – che manifestare il mio disagio verso un modo d’interpretarne la poesia che ne cristallizza il messaggio conclusivo appoggiandosi enfaticamente su quel solo verso: “Proteggete le nostre verità”.
Fortini era perfettamente cosciente di ciò che sempre il ‘risvolto’ della raccolta del ‘94 chiama il “tessuto vastamente negativo, nichilista, di gran parte delle poesie”. E quell’ultimo testo ha in effetti il preciso compito di entrare in conflitto con tale tessuto: è un gesto che oppone al solvantur ottativo del titolo un altrettanto perentorio “fermatevi”, rivolto a chi vuole soltanto “sparire” e “disfarsi”; ed è, anche, un arrendersi al “Grande fosforo imperiale” di Se volessi… come fosse un astorico e metafisico nemico, e non la manifestazione di un dato ‘ordine’ voluto dagli uomini. Storico è infatti l’episodio evocato nel finale della poesia: il ricordo cioè del commissario politico sovietico che (cito dalle Note di Fortini) “fino alla propria morte volontaria contrastò vittoriosamente fanterie e carri armati tedeschi […] nel giorno e nel luogo dell’estrema vicinanza della Wehrmacht alla capitale sovietica”. Aggiunge la nota: “Pare avesse detto: ‘La Russia è grande ma non abbiamo più dove ritirarci perché dietro di noi c’è Mosca’”.
Un finale del genere, marcatamente tragico-eroico e legato ad un così vibrante momento storico, ha potuto essere messo tra parentesi, con indulgenza, da chi nell’ultima raccolta ha scorto l’epifania del “volto amoroso” di Fortini (ospite ingrato tornato figliol prodigo in extremis); mentre altri vi hanno trovato la conferma dell’incorreggibile oltranzismo manicheo di un poeta (secondo l’espressione di un ragguardevole cattedratico) “rimasto in guerra”. E d’altro canto, quello stesso scenario storico e la citazione inseritavi (“‘Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci./ Abbiamo Mosca alle spalle’.”) si è prestata ad una interpretazione difensiva e retrospettiva del ‘comunismo’ di Fortini, secondo una visione opposta e complementare, ma non meno distorta, del suo modo di essere poeta – e comunista.
Bisognerebbe, io credo, rileggere con attenzione, per capire appieno il finale, tutta la poesia in questione, che Fortini significativamente definisce “una epitome autobiografica” più che “una sequenza di versi”; e non sarebbe agevole, poiché i rinvii autobiografici vi sono costantemente doppiati da quelli alla propria opera, e i riferimenti storici accompagnati da riprese della Commedia e della Bibbia. Non è nemmeno il caso, ora, di provarci. Vorrei almeno rammentare, però, agli uni ed agli altri interpreti sopra accennati, che la gravità testamentaria non è una caratteristica di Composita, anzi quel tono è di molte poesie fortiniane; e che quel giorno e luogo di “estrema vicinanza” con il rischio e la sconfitta, anch’esso ripete una situazione da cui, da sempre, l’io poetico di Fortini muove alla parola. Il nesso è quello, tòpico, di disperazione e speranza. Inoltre, in fatto di comunismo è bene, anche, non dimenticare la frase fortiniana secondo cui “Il combattimento per il comunismo è il comunismo”. Ecco, forse risiede qui l’origine del mio disagio nei confronti della ‘vulgata’ sull’ultimo Fortini: come, parlando con lui, lo sguardo era rivolto comunque al presente, per scorgervi i segni di un futuro diverso (anche nella sua negazione), così la battaglia campale di Volokolàmskaja Chaussée è sì storica ma anche figura di una lotta in avanti – oltrepassamento e ricerca, slancio utopico, non lotta immaginaria per qualche astratta regione mentale o, tanto meno, per un passato da custodire ed al quale restare attaccati. Il senso del suo “difendeteci” è tutto rivolto al futuro, ed è solo lì che la memoria di Fortini ha ha sua patria.
“PERCHE’ MI SGRIDI OH MAESTRO SPAVALDO?”
di Francesco Leonetti
..Mi piace però ridare qui taluni epigrammi che ci siamo scambiati. A partire da un suo primo – che non ho ritrovato ancora nei miei cartoni di lettere dissimili dai suoi -; nel quale epigramma mi rimproverava le “cattive compagnie”. E, ora, non so bene se si riferiva a Toni Negri (in difesa del quale scrivemmo insieme Rossanda, Fortini e quindi io nel giornale il manifesto) o all’avanguardia letteraria (e, prima, artistica) verso la quale io – dopo il mio periodo iniziale di espressionismo politicizzato e non però spostato al versante realistico – mi orientai subito dopo il ‘60, contro il Guttuso caro a Pasolini-Moravia, e a Longhi, anzitutto. E sempre io gli rispondevo; e lui di nuovo; e ancora io.
A Franco Fortini: risposta di Francesco Leonetti
Perché mi sgridi oh maestro spavaldo?
Non frequento l’entrismo né il Mengaldo
Non pretendo negli altri ciò che ho saldo.
Ma tu a te stesso piaci iroso e caldo!
A Francesco Leonetti ringraziando per sua aguzza replica
Caldo a me piaccio. E tu, Francesco, il fresco
rischi, a danno di vertebre e di dischi?
Ah, improperi ed espropri non ci invischino.
Freund, nicht diese Töne! Chiudo ed esco.
Franco Fortini (Ferragosto 1986)
In Schiller, Inno alla gioia* [* nota di F. Fortini]
A F.F. in un’amicizia ripresa
Amico mio, ciò che mi piacque tanto
fu una tua frase al telefono, urtando:
“Ne fo dei cocci” dicevi arrabbiato
del rapporto fra noi, come di un vaso
...”MA IO MI CHIAMAVO LATTES!...[CINQUE RICORDI]
di Romano Luperini
Ho conosciuto Fortini il giorno dei funerali di Togliatti, nel 1964. Ero laureato da poco e il mio professore, Silvio Guarnieri, aveva invitato me e Gianfranco Ciabatti (anche lui da poco scomparso prematuramente) a Pietrasanta, in occasione del premio Carducci di poesia. Mi ricordo una tavolata sul mare, con Guarnieri, Cancogni, Zanzotto, forse Giudici e altri che la memoria non individua, e appunto, dalla parte opposta del tavolo, Franco Fortini. La televisione trasmetteva scene del funerale e i commensali, lasciato il tavolo vi si affollavano. Ciabatti e io no: le guardavamo scorrere con indifferente estraneità. La lite nacque da un’osservazione di Fortini, che vide nella differenza di comportamento fra noi giovani e gli altri un segno dei tempi mutati. “Togliatti rappresenta la lotta antifascista” – aggiunse – “ai giovani interessa solo quella anticapitalista”. L’osservazione suscitò il risentimento degli antifascisti. Ricordo Fortini dall’altro capo del tavolo accusato da Cancogni di scarsa combattività antifascista, rispondere rosso in viso dalla collera: “Ma io mi chiamavo Lattes!”. Guarnieri tentò invano di mediare. Imparai subito che l’ira di Fortini era incontenibile, una sorta di raptus che lo dominava ma che costringeva tutti a deporre ogni ricerca di compromesso, a schierarsi.
Noi giovani tacevamo. Quella lite fra vecchi partigiani che si accusavano l’un l’altro su vicende di vent’anni prima non ci interessava e non ci piaceva. Ma non avevamo dubbi: l’anticapitalismo di Fortini ci appassionava assai di più dell’antifascismo di Cancogni.
Veramente quei funerali – aveva ragione Fortini – segnavano un’epoca. Era giunto il momento per cui sul Vietnam ci si poteva dividere.
Io ricordo quel comizio del 1967. Vedo ancora la testa bianca di Fortini sul palco. Ero nella folla degli studenti accorsa a Firenze a manifestare per il Vietnam e contro il colpo di stato in Grecia. Ricordo i fischi e gli urli contro gli altri oratori, tutti uomini di partito e di politica, e il silenzio profondo, la tensione, la dura e muta passione con cui, due ore dopo il primo oratore la piazza dei giovani ascoltò il discorso di Fortini, l’unico letterato dotato di un eloquio volutamente letterario, – e l’esplosione poi, come per una liberazione alla frase “Sul Vietnam ci si divide” che veniva dopo tanti appelli all’unità. Poi, fu il sibilo delle camionette in Piazza del Duomo, i carabinieri che roteavano le bianche cinture, lo sciame dei giovani in fuga nei vicoli. C’era più futuro nell’alta retorica costruita su libri del passato del comizio di Fortini che nei discorsi dei politici, che pure per mestiere dovrebbero fare i programmatori di futuro.
Era l’estate del 1969 o del 1970. Fortini era venuto a casa mia, a Pisa, su una vecchia auto (una Talbot mi pare, oun “maggiolino”). Dalla villetta sulla Magra, dove passava l’estate, a Pisa non c’erano neppure due ore di viaggio. Era giunto senza preavviso, mentre con alcuni compagni di “Nuovo impegno” (Cristofolini, Madrignani) mi preparavo a raggiungere Luciano Della Mea a Torre. Anche Sofri e Pietrostefani e altri di Potere Operaio sarebbero venuti con noi. Si formò un piccolo corteo di macchine. In salita, a ogni svolta ripida la macchina di Fortini si fermava, non si capiva se per cautela del guidatore o per difficoltà del motore. Noi ridevamo di dietro. Infine fummo alla meta. Della Mea stava conversando con Pio Baldelli e altri, e tutti insieme andammo a cena in un ristorante di campagna. Sofri attaccava di continuo Fortini ironizzando sugli intellettuali e invitandolo a darsi completamente alla lotta politica. Le sue battute erano secche, sarcastiche, sferzanti; quelle di Pietrostefani, in appoggio, più rare e più rudi. Fortini ribatteva criticando il culto dell’immediatezza e la mancanza di mediazioni del movimento. C’era tensione e imbarazzo intorno a quel tavolo. Le posate si muovevano inquiete sulla tovaglia. Nacque così, allora, la poesia A un giovane capo.
Cominciammo a insegnare insieme all’Università di Siena, nell’autunno 1972. Mi aveva telefonato. Era incerto, imbarazzato e credeva che io mi intendessi di vita accademica assai più di lui. In realtà avevo fatto solo, saltuariamente, l’assistente volontario. Ci demmo appuntamento a Pisa, e da lì, con la mia macchina, proseguimmo per Siena. Per entrambi era la prima volta. Arrivavamo la sera per fare la prima lezione la mattina successiva. Appena giunti, entrammo in una grande stanza dove su un tavolo erano accatastati centinaia di libri da catalogare per la biblioteca in via di formazione. Lì ci venne incontro il poeta senese Cesare Viviani, che voleva conoscere Fortini e che, sbrigate le formalità burocratiche, ci condusse poi a vedere il vicolo del Cane e del gatto e, dalla scalinata della Chiesa dei Servi, la piazza del Mercato e le finestre dei palazzi di Piazza del Campo incendiati dalla luce del tramonto.
La mattina dopo, mentre tenevo la mia lezione (su Verga, ricordo), Fortini entrò, scusandosi. Voleva ascoltare – disse – per imparare come si fa una lezione universitaria.
Capii poi che non era modestia, era rispetto per le istituzioni. Esse vanno comunque prese sul serio e frontalmente (mai, di sbieco): per accettarle o per rovesciarle. Di qui la sua ammirazione per i filologi e per gli accademici a cui si indirizzava invece, allora, la mia impazienza giovanile.
Tornavo dall’estero e dall’aeroporto di Milano mi sono fatto portare a casa sua in taxi. Sapevo della gravità della sua malattia, delle due operazioni che già aveva subito. Sulla porta mi abbracciò. Con gli anni era diventato assai meno rigido e duro – e addirittura si mostrava con me, nonostante qualche inevitabile urto, veramente affettuoso.
Mi apparve più magro e più bianco. Ma parlava come sempre, lucido e inarrestabile. Stavo per partire per il Canada e non sapevo se l’avrei mai più rivisto. Eppure ragionammo di cose da fare, di libri usciti, di articoli che avrebbe scritto per “Allegoria”. Richiesto, accennò alla propria malattia, ma con distacco e con consapevolezza, evitando i particolari e qualsiasi indulgenza per aspetti che avrebbero potuto sembrare patetici. Pensai per un attimo al suo ribrezzo per la scompostezza e per la visceralità, e a quanto aveva dovuto ferirlo anche dentro nel buio dell’inconscio, quel tipo di male. Ma subito mi distrassi: la sua voce mi chiamava ad altro.
…UN LIBRO POLVEROSO CHE RACCONTAVA UNA STORIA SCONOSCIUTA…
di Attilio Mangano
Non so dire quante volte, in occasione di riunioni o convegni cui partecipavo, ci fosse anche Fortini, sicuramente non pochissime. Ma devo confessare che ho sempre evitato una presentazione diretta e un rapporto. E’ una stranezza che non si confessa facilmente, poche righe non bastano per spiegare un comportamento come il mio, così palesemente contraddittorio da fare la gioia di uno psicoanalista, tuttavia ci provo lo stesso.
Se infatti Fortini era per me un mito, un personaggio chiave, dall’altro mi capitava spesso di sentir parlare del suo “pessimo carattere”, della sua spigolosità e litigiosità. Erano i compagni a dirne male, i compagni della nuova sinistra che ne parlavano con supponenza, come di un “intellettuale” insieme noioso e pretenzioso. (Chi racconterà mai la storia del pregiudizio anti-intellettuali fra gli intellettuali di sinistra?). Ma anche altri meno militanti, artisti e studiosi, memori di questo o quel litigio o di giudizi altezzosi, mescolando affetto e bile, ammirazione e rancore.
Così ho preferito coltivare il mio mito in privato, come un amore ideale, per evitare delusioni. Non è che abbia coltivato in segreto un mio Fortini da contrapporre ad altri o al Fortini vero, ho però preferito un incontro mancato a un rapporto reale. Credo di capire adesso come, dietro questa storia di incontri mancati – al di là delle stranezze personali di chi scrive – sia forse possibile cogliere una trama che è rivelatrice di incontri mancati più generali, di una difficoltà di rapporto tra comunicazione politica e ricerca che l’opera di Fortini ha messo in evidenza: non col suo preteso cattivo carattere ma col rigore delle sue inquietudini culturali e politiche.
Adesso insomma almeno a me è più chiaro come il lato perturbante – per civettare con un termine freudiano – della vicenda fosse la solitudine di Fortini, come altre solitudini (di eretici e non conformisti) rivelatrice di una richiesta di alterità che suonava comunque poco gradita a sinistra.
Come potrò mai dimenticare (erano gli anni 1965-’66, studiavo lettere a Palermo e cercavo una tesi di laurea) che il mio incontro con Fortini, la mia scoperta, aveva riguardato un libro polveroso che raccontava una storia sconosciuta, i “Dieci inverni”, in particolare il saggio sull’esperienza del “Politecnico”? Per i miei venti anni era stata la scoperta improvvisa di un’altra linea, un’altra storia, il messaggio in bottiglia di un socialismo libertario che aveva osato non accettare lo stalinismo, il conformismo, i compromessi storici di allora e che ti offriva un codice, un mondo intero per comprendere le grandi viltà, i silenzi, le ortodossie dogmatiche della sinistra, la sua doppia verità.
La mia tesi di laurea dedicata al “Politecnico”, prima del ‘68, è stata resa possibile da quella vicenda e dagli scritti sarcastici, impietosi, rigorosi di Fortini. Ed è stata l’inizio di una ricerca che è proseguita tutta la vita, come ricerca storica e come ricerca di vecchie e nuove solidarietà alternative. Solo adesso sto cominciando a capire quanto fosse simile la sua solitudine alla mia, quanti altri “inverni” la sinistra abbia attraversato dopo quelli della guerra fredda e del 1956 e quanta doppiezza appartenga ai suoi costumi e alla sua ideologia come un’eredità, un marchio, un qualcosa con cui si impara a convivere ma che non si accetta mai.
Quello che dunque rifuggivo in Fortini era quel lato di irriducibilità che alcuni chiamano moralismo e che si pone invece come testimonianza, perché anche quelli che verranno possano sapere e possano continuare la loro battaglia di verità, facendo di nuovo bilanci e autocritiche o – come direbbe Fortini – dando luogo a una nuova verifica dei poteri. Con questo non intendo affatto dargli sempre ragione, ricordo ad esempio come io stesso durante gli anni ottanta abbia provato più di una volta lo stesso fastidio per certi scritti e certe posizioni e come dunque sia tuttora necessario distinguere fasi e momenti, situazioni e anche errori. Ma questo vale spesso per la storia di tutti. Rimane il nucleo profondo di un discorso e di una ricerca, una lezione che torna a proporsi.
SI VIVIFICO’ DAVANTI AI MIEI OCCHI... LA DIALETTICA RIVOLUZIONARIA DI ATTUALITA’/INATTUALITA’...[POST FESTUM, LA VOCE DI FORTINI]
di Roberto Mapelli
Alla metà degli anni ottanta, mentre le bande di crudeli o indifferenti organizzatori di mondi da bere imperversavano, e mentre la filosofia di Hegel e di Marx mi aiutava (e difendeva) da ogni deriva specialistico-solipsistica, dentro la periferia divenuta quasi totalmente nemica, incontrai Fortini.
La “condizione proletaria” (lo studente-guardiano notturno-imbianchino-magazziniere-libraio) mi aveva impedito di sostare con piacere e frutto nelle aule universitarie e costretto allo studio solitario, rotto dalla discussione politica dell’autorganizzazione faticosa di intellettuali periferici. Vivevo tra l’universalità dell’autocoscienza, l’aspirazione alla libera individualità marxiana, e il senso politico di un gruppo di ricerca e azione sociale a Cologno Monzese.
La parola illuminante veniva dai libri anche se vivificati dal dibattito. La realtà dell’ “attuale società”, in fondo, era indifferente ai concetti, alle essenze, persino ai fenomeni: sembrava semplicemente tracimare inesorabilmente e colonizzare tutto.
Al primo colpo incontrare Fortini fu come incontrare Sartre, Lukács o Bloch (almeno nella mia anticipazione immaginaria): la parola vivente di una nobiltà finita, oracolo di verità-contro, di vita-cultura alternativa. Ma non fu così, o soltanto così. La riverenza magistrale lasciò quasi subito il posto all’inadeguatezza passionale, alla mancanza antiesistenzialista. Non corse il codice dell’amicizia egualitaria, fatta di condivisione di una comune condizione, ma la forza condizionante e appassionante dell’incommensurabile differenza tra noi e lui, tra lo Spirito del Mondo e la volontà di agire. Si vivificò davanti ai miei occhi uno dei contributi teorici più importanti di Fortini: la dialettica rivoluzionaria di attualità/inattualità. Quella che insegna che per occuparsi del “qui ed ora”, dell’”attimo vissuto”, occorre “parlare”, scontrarsi con la storicità dimenticata, con i “coaguli di lavoro astratto” che sono sommamente esclusi, relegati nelle prigioni senza finestre delle ideologie dominanti. Con le chiavi della critica: l’analisi filosofica, la traduzione, la letteratura (la poesia). Dentro il destino della politica, dilaniata sempre dal conflitto tra decisioni anticipatrici e Naturgesetz (seconda natura). L’insieme di passione e precisione di Fortini sbriciolava immediatamente la complicità dell’incontro nel luogo comune (pur della cultura di sinistra), fatto di finto confronto paritario e di vera, ma nascosta, subordinazione irrisolvibile. Ci si trovava testimoni coinvolti di quello che probabilmente fu l’amicizia epicurea, disarticolata, ma non distrutta, dalla tragedia della necessità stoica, dalla forza terremotante del comunismo come maieutica della liberazione e, insieme, presunzione della ragione: perché “i valori non si mettono ai voti”.
Noi gli sottoponemmo il progetto di una rivista, con l’ambizione di produrre “materiali di lavoro per intellettuali periferici”, fuori da una sfera politica ormai irriformabile, dentro la contraddizione sociale postfordista (come si dice oggi).
Lui non ci aiutò a realizzarla, né ci diede consigli “esperti”; parlammo apparentemente d’altro, di cosa non fare perché non cadessimo tutti nella trappola che obbliga o all’abbandono della propria radice sociale e culturale oppure a rinchiudersi in essa, specificandosi, specializzandosi, infine, pacificandosi. Per mezzo di Leopardi, della virtù della ragione contro il “solido nulla”. Con Hegel (e Goethe) della totalità che non si dissolve nell’aria, con Marx (e Lukács) del senso della storia nella lotta per una funzione intellettuale rivoluzionaria. Partendo da Cologno Monzese, per arrivare a Cologno Monzese.
Non so se ce ne andammo più sicuri di quello che avremmo potuto fare, certamente più convinti di ciò che eravamo: un particolare che non si rassegnava al piccolo mondo che viveva, nella convinzione che occorresse viverlo con la forza ostinata di chi non ha paura del Grande Mondo Oggettivato. Perché la Periferia può attaccare il Centro, non ne è soltanto l’appendice colonizzata, può esprimere soggettività di liberazione.
...MI SONO IN UN CERTO SENSO AVVICINATO A LUI, ANCHE SE NON DEL TUTTO...
di Alberto Mari
Per i poeti di una certa generazione (intorno agli anni settanta), quelli che, per intenderci, pensavano che l’arte potesse avere una bandiera politica, Franco Fortini non è mai stato un riferimento preciso. Pur uscendo allo scoperto, pur essendo portatore di certe posizioni abbastanza delineate, ha sempre risentito della mancanza di un suo spazio costante nella carta stampata; lui stesso si lamentava di non avere una rubrica fissa, anche se, sia chiaro, non gli mancavano le occasioni di far valere la sua voce, specialmente nelle sedi specifiche che allora avevano un grande richiamo. In quel periodo Fortini era un intellettuale schierato a sinistra evidenziando la necessità di assumere questa posizione (condivisa con modalità diverse da altri, che fungevano da esempi o da trascinatori, come Giorgio Strelher o Dario Fo). I riferimenti più o meno plausibili comunque non mancavano; in ogni caso c’erano maggiori auspici per una società migliore e minor distacco da parte degli intellettuali e degli artisti spesso alla sinistra del P.C.I.
Di Fortini ricordo il grande carisma e di averlo incontrato diverse volte, anche se non posso dire di averlo conosciuto veramente. Questo non m’impediva di rivendicare le mie esigenze e di lamentarmi con lui per la mancanza di un interlocutore guida, o per dirla più terra terra, di un poeta più anziano, come riferimento. Figura che a molti è quasi sempre mancata, nel mio caso poi, non sono abbastanza giovane per avere simili “papà”. (Soltanto il poeta sonoro Luigi Pasotelli è riuscito a colmare questo mio “bisogno”). Fortini allora m’interessava perché banalmente non riuscivo a capire bene i collegamenti che c’erano tra il lavoro intellettuale e una propria posizione politica; cosa che mi è sempre sfuggita, Pasolini a parte, (ma lui, come Moravia, era ai vertici della comunicazione). Soltanto attraverso i suoi articoli e i suoi saggi mi sono in un certo senso avvicinato a lui, anche se non del tutto; la sua poesia non era innovativa ma anzi legata alla tradizione e all’ideologia, per la sua estrema semplicità e chiarezza. Molti di noi ne erano sconcertati, non capivamo l’enorme differenza che c’era tra il Fortini saggista e il poeta. Da parte mia non credo d’aver mai risvegliato il suo interesse: ero troppo sperimentale per il suo carattere. E’ stato comunque molto gentile nel darmi un suo parere e nel farmi conoscere Milo De Angelis, Angelo Lumelli e Michelangelo Coviello. Io allora a Milano non conoscevo proprio nessuno nell’ambito della poesia e rapportarmi con altri scrittori per me era molto vitale. Questi suoi gesti fanno parte della sua etica, accompagnata da una burbera gentilezza, in realtà Fortini non era interessato a nessuno che non fosse suo coetaneo e a quanto mi risulta non si è mai esposto a favore di qualcuno e del resto non era tenuto a farlo ed era in fondo un suo modo per non essere ingiusto. A me bastava che non appartenesse alla corporazione dei poeti e che facesse sentire adeguatamente la sua voce. In questo era assolutamente rispettabile.
Ricordo anche con autoindulgenza e un po’ di rimorso di essere stato introdotto una volta nella casa di Fortini di via Legnano, da un Cesare Viviani, esordiente sulla scena milanese, volitivo e meno ufficiale di adesso, (toscano come lui, era stato il suo “fotografo”, molto bravo tra l’altro). L’incontro è stato molto imbarazzante per me, (l’avevo conosciuto a un suo comizio e per telefono), accorgendomi che non c’era nesso con i precedenti contatti e che probabilmente venivo giudicato come uno in cerca di favori.
Naturalmente in seguito sono rientrato nei ranghi e pur incontrando Fortini soltanto in rare occasioni, ho continuato a mantenere con lui un discreto rapporto di scambio di opinioni sulla letteratura. Era abbastanza curioso delle posizioni altrui e piuttosto loquace, salvo poi pentirsi bruscamente per senso del dovere. Ci siamo “scontrati”, invece, una sera durante una trasmissione della Rai “Stanotte la tua voce” condotta da Viviana Kasam, in cui lui sosteneva la tesi di Benedetto Croce, secondo la quale la poesia per bambini “non esiste”. Io non ero del parere opposto però avevo diverse obiezioni da fare e lui cercava da buon toscano di avere l’ultima parola. In realtà, allora, sosteneva il lavoro molto abile di giochi di parole sperimentati con i bambini dall’insegnante Ersilia Zamponi (“I draghi locopei”), proprio perché era congeniale al suo discorso, in quanto aveva poco a che fare con la poesia in senso stretto del termine. Non credo avesse individuato in me una specie d’avversario del libro della Zamponi che lui stesso mi aveva fatto avere in anteprima, era più che altro affezionato alle sue tesi e del resto, col mio testo più specifico, “Incontro con la poesia”, non potevo certo competere con il volume uscito da Einaudi, in seguito presentato, non a caso, da Umberto Eco e non dal suo sostenitore.
Alla “gloriosa” libreria di Coviello in via Messina ho incontrato per l’ultima volta Fortini ed è stato come se fosse la prima volta, in quanto probabilmente m’aveva dimenticato come figura fisica, dicendomi che era contento di vedere che ero “un uomo così imponente”, quasi riconoscendo attraverso il mio aspetto e i miei modi una maggiore importanza rispetto alla persona che più spesso sentiva per telefono o conosceva per iscritto.
Dulcis e amaro in fondo: una sera la moglie di Fortini m’ha telefonato per scusarsi a nome suo di non aver risposto a una mia animosa missiva, ma lui era molto malato e impossibilitato a evadere le molte cose che aveva in sospeso. Naturalmente mi son affrettato a sminuire la cosa anche perché ancor oggi non ricordo nemmeno la causa delle mie rimostranze. Forse qualche libro ignorato o forse il mio vizio innato di farmi valere a scoppio ritardato. Chissà… Nel nostro ambito le occasioni mancate sono molte. Non me ne lamento solo mi chiedo, ancora adesso, perché le cose non vadano diversamente.
...AVEVO FORSE PRESO ALLOGGIO ALL’HOTEL DES ABGRUNDS?
di Ezio Partesana
“La speranza in se stessa, non si può dire che esista o non esista, pensavo. E’ come per le strade che attraversano la terra. Al principio sulla Terra non c’erano strade: le strade si formano quando gli uomini, molti uomini, percorrono insieme lo stesso cammino”.
Queste parole scritte da Lu Hsun nel 1921 non mi ricordo se le lessi in qualche libro di Fortini o se le scovai da solo nell’edizione Garzanti della “Fuga sulla luna”, mi succede spesso…
Incontrai Franco Fortini nel gennaio del 1991, credo, durante un’assemblea universitaria. Gli Stati Uniti avevano attaccato l’Iraq e lui intervenne pubblicamente; non aveva nulla da dire – spiegò – se non a un ristretto gruppo che si ritrovasse fuori dalle sedi istituzionali, e invitò a cercarlo. Gli telefonai, e in questo modo presi a frequentare le riunioni di via Forze Armate.
Erano pomeriggi lunghi ascoltati in silenzio quasi perfetto. Per questo Fortini ci raccontò come i funzionari del partito comunista cinese mettessero alla prova i futuri militanti chiedendo loro di scrivere in cento parole i motivi e le speranze della loro ribellione, e chiese a noi di fare altrettanto. Scrissi le cento parole e Fortini mi rispose con una lettera cattiva; avevo forse preso alloggio all’Hotel des Abgrunds?
Ci pensai per un mese e poi risposi, sempre per iscritto, che no, non avevo preso posto tra gli intelligenti pessimisti del secolo a guardar rovine, ma che ignoravo come essere utile e che speravo la storia (anche con la minuscola) mi avrebbe spiegato cosa fare. Il carteggio proseguì ancora per qualche scritto, poi di settembre andai con un amico a trovare Fortini nella sua casa di Ameglia a Montemarcello. Mi offrì il vino che volevo, mi mostrò la foce del Magra, il suo scritto per Serantini ripubblicato non so dove, e un’altra quantità di cose.
Per parte mia pochissimo: l’originale tedesco di un aforisma di Kierkegaard su certezza e speranza, come mi aveva chiesto, e qualche riflessione sul Bloch di “Eredità del nostro tempo”, sul perché mi sembrasse utile di questi tempi. Credo gli sia piaciuto soprattutto l’aggettivo “utile”. Da allora mi permisi di andare a trovare Fortini con regolare rarità. Andavo a portare piccole notizie in cambio di ragionamenti e idee – scambio diseguale ma irrinunciabile. Di solito lui non era affatto d’accordo con me, mentre io lo ero con lui, e da questa contraddizione rigirata due volte devo aver appreso molto. Probabilmente come molti altri.
Non mi ricordo quando venni a sapere della sua malattia, né da chi. Mi telefonò per chiedermi se mi ricordassi dove Hegel parlasse dell’inutilità della morte individuale; cercai qualche giorno tra schede, appunti e la mia copia in disfacimento della “Fenomenologia dello spirito”, e poi andai a portargli i risultati.
Mi ricevette a letto in quello che credo (non ho mai visto per intero la sua abitazione milanese) fosse il suo studio.
Gli diedi un foglietto di note e pagine hegeliane e una riproduzione a colori dell’ “Angelus” di Klee, quello dalle ali spalancate di cui parla Benjamin, e per ringraziamento, penso io, mi recitò la poesia che comincia con le parole: “Se volessi un’altra volta…”; non ho sufficiente conoscenza di poesia né memoria abbastanza per dire se fosse identica versione a quella pubblicata in “Composita solvantur”, credo di sì.
Mi disse anche Fortini che si era sbagliato e che lo spazio di lotta che sperava aperto in momentanea vacanza di potere, si era rapidamente richiuso, oppure che quell’apertura era stata solo apparente. Se volevamo trovare un modo di organizzarci e produrre sapere e conoscenza per una prassi, dovevamo farlo da soli, inventando e riscrivendo tutti gli strumenti necessari. Ma fra tanti incontri lunghi e brevi, a dibattiti e riunioni o per caso o per fortuna, questo fu l’unico nel quale Fortini non disse – o io non capii – che cosa si aspettasse che i compagni facessero. La poesia mi suonò triste e triste fui congedato. Per molti mesi (ma le misure mi si dilatano tutte se penso a Fortini) riuscii a rintracciarlo solo saltuariamente, con molta fatica e per telefono. Mi mandò una cartolina con una foto di Adorno, lamentandosi di essere isolato come e più di prima.
Mi è sempre parso ridicolo raccontare io a lui che cosa vedessi succedere in giro, in università, sulle riviste o tra i gruppi di compagni. Però sia che fosse per giudicare della mia vista o per effettiva mancanza della rete di piccole relazioni nelle quali si muove in certi periodi la formazione politica, questo era quello che chiedeva a chi andasse da lui, ed io eseguivo.
Giunsi anche a mandargli qualche mio lavoro: degli appunti sulla composizione di classe, sbagliati mi disse in breve, e delle riflessioni su merce e ideologia e queste, caso unico, gli piacquero. Una malriuscita domenica tornai ancora da lui, per parlargli.
Ero dell’idea che l’umiliazione fisica e mentale dei lavoratori fosse presupposta alla soluzione che i potenti vorrebbero offrire alla forma attuale della contraddizione tra Capitale e Lavoro, e parimenti che nello sfruttamento sia in crescita la funzione di controllo dei rapporti di produzione sulle forze produttive e che, pertanto, siano importanti i fenomeni di resistenza e ribellione basati su istanze etiche di classe, anche se le parole “etica di classe” fanno specie.
Volevo sapere che cosa ne pensasse. Rispose che mi sbagliavo probabilmente e che però gli sarebbe piaciuto ascoltarmi litigare di tutto questo con Edoarda Masi. Provò anche a telefonare per invitarla a raggiungerci ma non trovò nessuno. Tanto meglio, mi disse, perché stava male e, in effetti, non sarebbe stato in grado di affrontare la discussione. Tirai un sospiro di sollievo ( mi scusi la Masi, verso la quale provo un poco di stupida soggezione), chiese che me ne andassi e rimandò la discussione ad altra data.
E’ morto Franco Fortini credo una settimana dopo. E adesso bisognerebbe che imparassimo, come penso egli intendesse, a essere maestri a noi stessi, l’uno attraverso l’altro.
...NON MI SONO MAI SENTITO IN SOGGEZIONE COME CON FORTINI...
di Costanzo Preve
Ho visto Franco Fortini cinque o sei volte nella mia vita e ho colloquiato a lungo con lui alla metà degli anni ‘80, quando ci fu un convegno su Lukács e Bloch a cui Fortini intervenne assieme a Cesare Cases, e poi in altre occasioni fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90.
Prima ero stato soltanto un suo lettore o l’avevo ascoltato in qualche conferenza.
Negli ambienti che io ho frequentato Fortini aveva un’alta immagine e non ho mai ascoltato giudizi cattivi, pesanti o spregiativi su di lui. Era considerato, più o meno come lo consideravo io: un maestro della letteratura e della forma, della poesia e della saggistica filosofica e politica; e contemporaneamente un intellettuale di altissimo livello, non solo paragonabile a Pasolini ma di prima grandezza.
Non so in altri ambienti. Evidentemente io non ho frequentato gli ambienti alla Giorgio Bocca, dove Fortini potesse apparire una specie di apocalittico, né quelli alla manifesto-Rossanda, dove c’era ancora il contenzioso per il giudizio che a suo tempo Fortini espresse, prendendo occasione dal fratello di Pintor, sugli intellettuali, diciamo così, in un certo senso privilegiati.
Personalmente, nei suoi confronti ho avuto un sentimento di doppia soggezione legata al divario di età e alla importanza storica di un intellettuale, di cui riconoscevo tutta l’importanza che aveva avuto nella mia vita culturale. Nei confronti di altre persone – come Bobbio, Geymonat, Althusser, Sweezy – grossi nomi con cui ho avuto modo di entrare in consuetudine – non mi sono mai sentito in soggezione così come con Fortini.
E devo ancora capire bene con me stesso come mai questo è accaduto. Posso fare un’ipotesi: Fortini ha avuto la benevolenza di leggere alcuni miei libri e di esprimere giudizi molto lusinghieri riguardo ad essi.
Questo lungi dal farmi piacere, è per me un motivo d’inquietudine, perché io sono perfettamente cosciente che i miei libri andavano oltre il marxismo e non erano soltanto una sua versione particolarmente spinta o intelligente e, forse, temevo che lui lo scoprisse.
Ho avuto sempre un’altissima stima della sua capacità di comprensione filosofica dei testi. E’ chiaro che un signore, capace di capire Hegel e Adorno, era capace di capire anche dove andava a parare Preve.
Allora – la metà degli anni ‘80 – eravamo accomunati dal desiderio di difendere un’eredità rivoluzionaria ed emancipatrice; eppure già c’era una diversa valutazione del pensiero negativo. Mi pare che Fortini avesse un giudizio molto severo su Heidegger e Nietzsche, che io non avevo.
C’era poi un secondo motivo d’inquietudine. Fortini per me era un maestro della forma; ed io ero molto consapevole (e tuttora lo sono) che i miei libri di filosofia lasciano a desiderare per quel che riguarda la forma della lingua italiana, la nettezza dell’espressione, ecc. Vi sono di sicuro elementi di sciatteria. E avevo il timore che Fortini lo scoprisse… Per essere sincero, dunque, devo dire che nei suoi confronti avevo questo atteggiamento di grande stima e di paura…
...QUANDO ENTRO’ IN CLASSE IL PRIMO GIORNO...
di Franco Romanò
Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere.
Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò per un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:
“ Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito Socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”
Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative, il silenzio era palpabile, denso, tesissimo. Quando ebbe finito di scrivere aprì tranquillamente il libro e cominciò la lezione. Ci accorgemmo subito che non leggeva nulla, parlava divagava creava collegamenti continui fra un autore e l’altro, una situazione e l’altra. Alla fine mi chiesi se fosse stata una lezione di storia o di letteratura italiana oppure di qualcosa d’altro che non capivo. Una volta uscito lui nella classe si scatenò il pandemonio. Gli schieramenti nacquero subito, io li seguivo un po’ defilato, non ero politicizzato, allora, il discorso di Fortini sul marxismo mi aveva lasciato indifferente; scrivevo già poesie e racconti allora e l’unica cosa che ricordavo del suo discorso – anzi che mi martellava dentro in continuazione – era proprio che il mio professore di lettere era un poeta. Non pensavo ad altro.
Per il giorno dopo ci aveva annunciato una lezione di storia per tutte e due le ore. Entrò in classe e ci disse di alzarci, saremmo andati nell’aula di proiezione della scuola. Per due ore filate ci mostrò film e documentari sulla condizione operaia ai primi dell’Ottocento, le prime manifestazioni operaie, la nascita dei sindacati, filmati inediti sulla rivoluzione bolscevica. I suoi interventi erano rari, secchi molto didattici, miravano a dare riferimenti spazio-temporali. Alla fine di quella lezione così anomala (mai era accaduta una cosa del genere in cinque anni di superiori), tornammo in classe e lui mise sulla cattedra una montagna di materiali: volantini, giornali, riviste, semplici fogli di una pagina, fotografie. “Potete prendere ciò che desiderate, ma non ne siete obbligati… ma mi raccomando di restituirmeli perché sono materiali storici preziosi.”.
Le sue lezioni erano imprevedibili, a volte entrava in classe e si metteva a recitare interi pezzi dei Sepolcri oppure della Commedia dantesca, oppure un idillio di Leopardi, girando per la classe a testa bassa quasi senza guardarci. Partiva da quelle recitazioni per iniziare il suo commento, non leggeva mai, parlava a braccio ma con un rigore tale da lasciar supporre che si fosse imparato a memoria cosa dire. Non seguiva il programma ma spaziava fra un autore e l’altro, seguiva percorsi suoi con una sicurezza di esposizione e chiarezza assolutamente formidabili. Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava.
Dopo un mese di scuola ci annunciò che subito dopo il primo compito in classe avrebbe distribuito un questionario cui dovevamo rispondere. Si trattava ci disse di alcune domande sul suo insegnamento: voleva che noi esprimessimo un giudizio, dei suggerimenti e critiche in piena libertà: potevamo firmare il questionario o lasciarlo anonimo. La classe non diede peso alla cosa. Pensavamo tutti al tema, un vero incubo con un insegnante così. Chissà cosa diavolo si inventerà, il giorno prima ne discutemmo, cercammo anche di stanarlo in qualche modo ma lui niente. Passai tutto il pomeriggio a ripassare tutto quello che avevamo fatto, mi chiesi cosa diavolo poteva inventare e il mattino dopo come tutti, attesi con ansia il momento del suo ingresso in classe. Fortini si mise in piedi in mezzo all’aula e cominciò a dettare: “Scrivete una lettera di richiesta di lavoro ad una banca.” Nessuno aveva scritto niente, tutti guardavano verso di lui. “Non siete ragionieri? E allora è di questo che dovrete occuparvi, la letteratura ed altro vi serviranno per la vostra cultura, per la vostra vita ma è questo che dovrete saper fare una volta lasciata la scuola.” Passato il primo momento di sconcerto ci rendemmo conto che tutto sommato scrivere quella benedetta lettera era più semplice di un qualsiasi altro tema ed infatti l’esito fu positivo per tutti. Quel tema sbloccò la classe, fu come una specie di svolta. Quell’uomo strano, a volte un po’ grigio, troppo serio, aveva però la capacità di spiazzarci continuamente. I suoi commenti alle nostre lettere furono talmente divertenti da suscitare ilarità, le esaminava come se fossero dei testi letterari, dimostrava un’ironia che disorientò positivamente la classe, il questionario fu affrontato da tutti senza apprensione. Non so cosa diavolo gli dicemmo, ma ne tenne conto perché qualche modifica nel suo modo di operare in classe la cogliemmo subito. Dei questionari non disse nulla se non una cosa: che avrebbe tenuto conto di tutto tranne di coloro che pretendevano da lui che insegnasse di meno; disse esplicitamente “ Chi ne vuole sapere di meno e non di più non lo posso seguire”.
Da quel giorno la classe fu decisamente con lui e quella parte più ostile a lui era ridotta al silenzio. Io continuavo a seguire questi dibattiti sempre più accesi con una certa indifferenza, ogni tanto dicevo la mia ma senza scaldarmi troppo; anche in classe, alle sue sollecitazioni, mi tenevo in disparte. Il tono appassionato di Fortini, il suo continuo riferimento al movimento operaio, la sua militanza non mi davano fastidio ma neppure mi entusiasmavano. Quando ci fece fare delle tesine su alcuni momenti importanti del Novecento, io scelsi il New Deal roosveltiano, cioè un grande esperimento riformista, che certamente non stava in cima alle sue simpatie. Ma non lo feci polemicamente, fu una scelta di basso profilo come tesi sempre a fare con lui e mi domando ancora oggi perché. Non saprei dire neppure se fosse timore reverenziale o altro.
L’anno finì in fretta, l’eco dei suoi discorsi, del modo in cui commentava la poesia, le sue aperture, i suoi voli che sapevano abbracciare campi vastissimi, avevano lasciato il segno su tutti noi. Alla cena di fine anno, fu una vera e propria sfilata, ognuno voleva salutarlo personalmente, anche quelli che l’avevano osteggiato. L’ultimo giorno di scuola ci disse che ci aveva dedicato una poesia, la lesse e come aveva promesso lesse anche dei versi tratti da ‘Foglio di via’. Devo dire onestamente che rimasi un po’ deluso. Mi sembrò che la ricchezza delle sue spiegazioni, la forza di certe sue intuizioni critiche, l’apertura a trecentosessanta gradi che dimostrava nei confronti delle avanguardie della letteratura europea fossero raccolte solo in parte dalla sua poesia. Non ho cambiato idea. Per me il Fortini più grande rimane il saggista, l’intellettuale a tutto campo, il critico della cultura, lo studioso del marxismo ed il militante. Testi come ‘Verifica dei poteri’, come ‘I cani del Sinai’ e altri successivi, mantengono tutta la loro forza. Pochi hanno saputo come lui scavare nei problemi e nelle vicende di questo secolo con coerenza e sapienza critica. Non voglio dire che il poeta sia minore, questo in definitiva lo dirà il tempo, ma ho la netta sensazione che l’accento che dal momento della sua morte è stato posto continuamente sul Fortini poeta (che non ebbe in fondo in vita riconoscimenti pari ai complimenti che riceve ora la sua poesia), servano a nascondere e ad occultare altro, la sua figura ingombrante e severa, poco italiana (almeno in senso convenzionale), calvinista e perciò fastidiosa, nonostante lui avesse dichiarato nell’intervista a Tito Perlini di alcuni anni fa di essersi convinto ad abbandonare il protestantesimo per ragioni profonde, che nella stessa intervista sono abbondantemente spiegate. Certe sue scoperte sono pietre miliari per la cultura italiana di questo secolo, specialmente per quella cultura che non è rimasta nei binari tradizionali: la sua traduzione di Simone Weil, Brecht, le sue lezioni di letteratura, l’instancabile fedeltà ai suoi ideali non sono mai venuti meno. Eppure, tutto questo non à mai andato a scapito della sua criticità; non si può certo dire che Fortini abbia coltivato una qualche ortodossia marxista o marxiana. Nella sua coerenza c’era semplicemente questo: il crollo del socialismo reale non fa diventare agnelli i lupi di ieri e comunque non è una ragione sufficiente per mettersi a frequentare salotti berlusconiani o per bruschi cambiamenti di campo e atteggiamento etico.
Mi restano ancora poche cose da dire e la memoria torna ancora una volta al professore di lettere. Finito di leggere ‘ Foglio di via’ ci chiamò ad uno ad uno e ci scrisse una dedica personale su ogni quaderno. Purtroppo, quel quaderno è andato perso nei vari traslochi, non me ne do pace ma le cose andarono così. Forse fu un lapsus da parte mia, oppure semplicemente fu una sbadataggine, chissà. Quello che aveva scritto però lo ricordo: “ Ad un leale avversario “ seguito dalla sua firma. Mi aveva messo fra i suoi oppositori, lì per lì ci rimasi male ma non aveva in fondo tutti i torti. Doveva passare un anno perché le sue parole operassero su di me in profondo. Mi avvicinai lentamente alla sinistra, poi vi fu il ‘68… Da allora lo incontrai personalmente solo tre volte: la prima fui io a telefonargli, mi ricevette a casa sua con una straordinaria cordialità, si ricordava perfettamente di me, parlammo di politica, io ero vicino al Manifesto e lui mi disse che facevo bene, discutemmo a lungo ci lasciammo con l’intento di rivederci, ma la cosa avvenne solo un anno dopo ed in una situazione ufficiale, diciamo così. Io ero un dirigente del movimento studentesco della Bocconi (allora si diceva così), ero andato al Turismo dove lui insegnava a tenere un collettivo con gli studenti medi. Ci salutammo calorosamente, lui assistette al collettivo, ma la cosa finì lì. La terza volta fu a Torino molti anni dopo. Gabriele Contardi aveva appena vinto il premio Calvino con il romanzo ‘Navi di carta’, Fortini era il presidente di quella giuria e Gabriele sapeva che era stato il mio insegnante. Mi chiese di andare a parlargli insieme. Contardi gli disse che eravamo nello stesso gruppo di scrittura, che scrivevo anch’io. Io glissai, Gabriele non poteva sapere che c’era una cosa che non avevo mai detto a Fortini: che scrivevo. Qualcosa mi impediva di parlargliene, il nostro rapporto, per quanto limitato, era stato imperniato su altro, su quello doveva rimanere. Fortini per me era stato uno dei tanti padri, e non si può, passata l’adolescenza far leggere ad un padre i propri versi. E così è stato.
...DA QUI LA SENSAZIONE D’UNA CASA SOSPESA TUTTA NEL VUOTO...[IL SOGNO DELLA CASA DI FORTINI]
di Donato Salzarulo
Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 1985 sognai la casa di Fortini. Andavo a trovarlo in compagnia di mia moglie e delle mie due figlie.
La casa era un unico androne pieno di particolari raffinati ed eleganti. Su una parete sporgente, che fungeva in parte da separè, vi erano foto ed altre decorazioni. Al di là di essa, ma ben visibile, il letto sul cui fianco sinistro si poteva immaginare una sorta di angolo intimo: un bagno forse o più d’un bagno…
Fortini attendeva il nostro arrivo; la moglie, invece, stava terminando il riposo pomeridiano. Era sul letto e si preparava a vestirsi per venire da noi. Ho così potuto scorgere il suo seno destro (a sinistra dal punto in cui io guardavo). Era piacevole e bello come quello pubblicato sulla copertina della rivista L’Illustrazione Italiana, in edicola in quei giorni.
La mia attenzione fluttuava sui particolari della casa, specialmente attratta da un telefono di foggia antica, molto bello (di quelli che definirei, non so perché, ‘stile impero’), da una cornice ovale d’argento, da ceramiche e da altre raffinatezze.
Pensavo da un lato a come la casa fosse modesta (in fondo era un’unica sala, sia pure molto ampia), dall’altro ai tanti particolari eleganti che la rendevano ai miei occhi prestigiosa, ricercata, piena di qualità. Un androne umile, ma aristocratico.
Vestitasi, la moglie di Fortini venne a sedersi di fronte a noi, allo stesso tavolo, dove, accomodati su una panca, aspettavamo.
Era più lei ad intrattenerci che il poeta, il quale stava come in secondo piano. S’aggirava tra tavolinetti vari verso il fondo della sala e ogni tanto interveniva, in maniera affabile, ma distaccata, quasi scostante. Tutti e due, sia Fortini che Ruth, erano giovani.
Decidemmo, dopo un po’, di fare una passeggiata e ci preparammo ad uscire. La porta si trovava alle spalle della panca sulla quale io e mia moglie eravamo seduti e dava in un luogo comune, una specie di cortile che non s’intravedeva bene. Da qui la sensazione d’una casa sospesa tutta nel vuoto.
Per uscire dovevamo scendere una scalinata irregolare e molto ripida, con gradini di pietra. Sull’ultimo gradino, prima di fare un salto e trovarsi in strada, occorreva quasi mantenersi in equilibrio talmente esso era lungo e stretto.
Prima di uscire, Lucia, la mia seconda figlia, ha apprezzato l’assenza di trucco sul volto bianco, gentile e con qualche neo, della moglie di Fortini. Ho condiviso l’apprezzamento e l’ho commentato, notando che già molti “veleni frizzano nella città” (mi riferivo a inquinamenti fisici e morali, torbidezze, violenze) per aggiungerne altri al nostro volto.
Mentre dicevo queste parole, in attesa, spiavo la reazione del poeta. Avevo un sentimento di vergogna per le parole di commento, che mi erano sembrate inopportune. Queste, infatti, erano tratte quasi di peso da “Carezze di talco”, una mia poesia del ’79, con un verso che recita, appunto “il veleno frizza nella città”. Autocitandomi, volevo fare il saputello agli occhi di Fortini e non potevo osare tanto con una persona così grande.
“Del resto, pensavo, anche mia moglie non è truccata”.
Questo pensiero-diversivo non riusciva ad alleggerire il mio sentimento: un misto di vergogna, attenzione, curiosità e sottomissione.
Tornati in casa, ci siamo seduti, più o meno, allo stesso modo, eccetto Fortini che questa volta si trovava alla mia destra.
Era l’ora del the. Venne offerta, allora, una merenda alle nostre figlie e agli altri bambini. Uno era un maschio, un po’ bruttino e risultava loro figlio, un altro era una bambina, figlia forse della signora sconosciuta (sorella? vicina di casa? altro?), che entrava in scena a questo punto. Solo lei faceva merenda coi bambini e li accudiva più di noi.
Proprio in questo momento qualcosa cade (o c’è il rischio che stia per cadere), tant’è che Ruth dice: “Bisogna stare attenti perché l’altra volta, quando è caduto sul pavimento, si è formata una macchia molto difficile a togliersi.” Fortini acconsente.
C’è in noi, in me e mia moglie, un po’ di disagio. Ci guardiamo ammiccando, come per dire, “è meglio andare”.
A questo punto, Fortini torna ad aggirarsi sul fondo della sala, dov’era all’inizio del sogno. La moglie, invece, rimane sempre di fronte a noi. Ci invita a non andar via, a restare a cena in loro compagnia. Lei confessa che si annoia da sola, tant’è che è andata a letto a dormire. Anche Fortini ci invita a restare. Noi non sappiamo se accettare o meno, sebbene l’invito non appaia per nulla formale.
Quando feci questo sogno, avevo 36 anni e seguivo Fortini da 16. Per la precisione dall’articolo “Contro il rumore”, apparso sul n. 40 di Quaderni Piacentini. Negli anni della ‘solidarietà nazionale’, del terrorismo e della crisi verticale dell’esperienza di Nuova Sinistra, con diversi compagni colognesi usavamo “Questioni di frontiera”, uscito da Einaudi nel ’77, come zattera nella tempesta. Poi le poesie (“Dunque nulla di nuovo da questa altezza”) e gli articoli sul Corriere, ritagliati e accuratamente conservati.
Il Fortini del mio sogno non c’entra ovviamente nulla con l’uomo nato a Firenze nel 1917 e morto a Milano nel 1994, uomo che non potrei dire di conoscere bene o di aver frequentato. L’ho visto di persona quattro volte: tre senza sostanzialmente parlargli (due a Cologno, una ad un Festival provinciale dell’Unità dove leggeva le poesie di “Paesaggio con serpente”); l’ultima, ascoltando una lunga collana di aneddoti (che ruscello sono al suo confronto!), nella casa di Via Legnano, in compagnia di Abate, un pomeriggio di febbraio dell’89.
Fortini come Ruth Leiser sono significanti, conchiglie che custodiscono le contraddizioni della mia vicenda psicologica: in questo caso, l’eco o la riattivazione di conflitti a sfondo edipico, più o meno consci, da dipanare con l’aiuto di qualche analista.
Perché, allora, racconto questo sogno? Non mi risulta che molti trascorrano le notti sognando Fortini, per di più le scene oniriche hanno, a volte, un singolare fascino. Infine, ritengo, forse con un po’ di presunzione, che il potere metaforico delle sue immagini e le relazioni fra i suoi personaggi possano non appartenere solo al sognatore. Mi spiego:
1) Il contenuto del sogno, oltre ad un incontro agognato (evidente, lo sfondo erotico), realizza probabilmente un desiderio d’identità. E’ desiderio di volto senza trucco che, se da un lato non può fare a meno della ‘casa di Fortini’ (quindi del contenuto di verità della sua opera), dall’altro ha bisogno di svalutarla, ridurla a decorazioni, a particolari raffinati, ad un “androne umile, ma aristocratico”. Androne. La parola etimologicamente ha a che vedere con uomo. Il greco “andron” significa, per l’esattezza, ‘l’appartamento degli uomini’. L’inconscio, quasi certamente, si è scelto questo significante per dire che la casa di Fortini è quella del ‘grande uomo’. Il sognatore, per difendersi da questa grandezza, affida al poeta un ruolo di “secondo piano”. Così, il personaggio prestigioso e pieno di qualità attende gli ospiti, ma non li intrattiene, si aggira silenzioso fra tavolinetti, interviene ogni tanto, in modo affabile, ma distaccato, a tratti scostante. E’ prudente il sogno: i ‘grandi uomini’ meglio tenerli a distanza e, se proprio non è possibile farli fuori, si cominci almeno con lo svalutarli.
2) Fra l’Io del sogno e il personaggio Fortini si instaura una relazione di subordinazione psicologica: “un misto di vergogna, attenzione, curiosità e sottomissione”. L’Io teme la parte del saputello e il narcisismo dell’autocitazione. In realtà osa fare proprio questo e non si trattiene dall’aggiungere veleni.
3) Nella ‘casa di Fortini’, l’incontro, più che con lui, si svolge con il personaggio Moglie. Letto, visione del seno, vestimento, conversazione al tavolo, volto senza trucco, merenda ai bambini…La traiettoria del sogno appare chiara: si riattiva la relazione amorosa materno-infantile in un’atmosfera di reciprocità e condivisione, di genuinità e gentilezza.
Nel momento in cui si offre il the-merenda, però, qualcosa di spiacevole ac-cade o sta per ac-cadere. E’ un segnale di pericolo. La Moglie pensa a metterci in guardia. “L’altra volta si è formata una macchia molto difficile a togliersi”.
E’ il ‘peccato’ della relazione amorosa materno-infantile, la tragica trappola in cui può cadere.
4)La porta per l’uscita dalla ‘casa di Fortini’ si trova alle spalle dell’Io del sogno e dà in un luogo comune, una specie di cortile presagito, più che distintamente osservato. La percezione confusa e inadeguata del fuori si tramuta in un boomerang per il dentro: l’Io prova, allora, la sensazione d’una casa sospesa tutta nel vuoto. Infine, per trovarsi in strada, deve sottoporsi a delle vere e proprie prove: scendere lungo una scalinata irregolare e molto ripida, mantenersi in equilibrio sull’ultimo gradino, impegnarsi nel salto finale…
Oso pensare che, incontrando l’opera di Fortini o uscendo dalle sue pagine, molti intellettuali italiani (periferici o accademici, nelle scuole o nelle redazioni, nei partiti e partitini di sinistra o nei sindacati) siano ricorsi agli psichismi presenti anche in questo sogno per difendersi dalla sua autorità. Accettarla, infatti, avrebbe significato (e tutt’ora significa) esprimere un accordo con la gerarchia di valori proposta dal complesso della sua opera.
L’autorità, nel modo più semplice, è proprio questa: la necessaria responsabilità (con tutti i rischi connessi) di indicare un più e un meno per la crescita individuale e sociale, di definire un prima e un dopo, un ordine di precedenza e di rilevanza nelle scelte dei singoli e in quelle collettive. In breve, essere d’accordo con Fortini voleva dire far proprio un certo esempio, comprendere una determinata esperienza morale ed intellettuale, condividere precise ipotesi teoriche, proteggere le verità rivelate dal dente velenoso della storia e raccolte nelle sue scritture. Impossibile. Non solo per gli avversari diretti, il che è comprensibile, ma anche per i molti ‘amici’ e ‘fratelli separati’ di sinistra o di ex-nuova sinistra. Troppo distante la gerarchia di valori, troppo esigente e confliggente con i comportamenti quotidiani. Un esempio per tutti: Fortini non ha aspettato l’89 per dire quel che pensava del socialismo sovietico.
1963: “…quello che abbiamo inteso per socialismo, cioè per l’atto decisivo di passaggio dell’umanità, mediante una parte di essa, dall’individuo borghese al collettivo, è rifiutato di fatto e presto anche in sede teorica, dalla coscienza media, in URSS e in Italia”. (QUESTIONI DI FRONTIERA, pag.158)
1974: “Non basta aver pronunciato un giudizio politico sull’Unione Sovietica di oggi o sulla politica del PCI. Resta il rifiuto autodifensivo dell’idea di una catastrofe storica. Per paura di confondersi ai nemici del comunismo, si continua e da tanti anni a non ridefinire il comunismo, a rifiutarne la storia. Si amano le proprie speranze più della verità. Inganniamo i più giovani perché continuino ad illuderci”. (Op. cit., pag.159)
Interi gruppi dirigenti e annessi uffici studi, privi d’amore per la verità, hanno vissuto nella menzogna per decenni e, dopo il crollo del muro, sono passati anche ufficialmente, armi e bagagli, nel campo nemico. Che dico? Il comunismo oggi non ha nemici. Non c’è più, infatti. E, quel che è peggio, nessuno più sa cosa sia. La paventata catastrofe si è realizzata.
All’epoca del sogno, ero un consigliere comunale vicino al PCI, un ‘indipendente di sinistra’. Fortini mordeva nelle mie carni come un padre che richiama ogni giorno alle verità, alla necessità di guardare in faccia gli orrori. Un quadro intermedio, alla pari di ogni intellettuale, si giudica dal rapporto fra quel che dice e quel che fa. Vivevo intensamente la contraddizione di dover essere quasi sempre d’accordo con le parole del poeta e di doverle adattare ad una pratica se non falsa, certamente ristretta e priva di respiro. In alcuni momenti, credo d’aver trovato Fortini irritante.
Ora il sogno è più chiaro. E così pure i suoi meccanismi: l’idealizzazione eccessiva per giustificare la successiva caduta d’illusioni, la svalutazione preventiva dell’intero per esaltare le singole parti, l’imbalsamazione distanziante per non assumersi responsabilità ‘parricide’, la non tematizzazione della relazione di potere (dominanza/sottomissione) e l’arretramento nella relazione materno-infantile (o, forse, meglio: la difficoltà a sopportare il disagio di vivere le contraddizioni che le due relazioni innescano nella medesima persona), la passeggiata nel ‘luogo comune’, la sospensione nel vuoto e il salto, infine, sulla strada, viandante a disagio e senza bussola.
Ora le figure del sogno stanno adempiendosi: l’opera di Fortini è davvero sospesa nel vuoto storico e sociale, davvero l’incontro con lei si è fatto più difficile e si riesce a recepire solo questo o quel particolare, davvero abbiamo imboccato una porta alle nostre spalle che ci ha condotti all’attuale, irregolare, ripida discesa.
Ma in quella saremo costretti a tornare e ritornare.
La sogneremo certamente in altro modo. Forse il poeta non si aggirerà più fra tavolini verso il fondo della sala. Interverrà e parlerà direttamente con noi.
Andremo in strada per un’altra nascita, lontani dagli ingenui utopisti del Positivo (il buonismo degli Abeli) e dal negativismo estetizzante dei Cainiti.
...MI TORNO’ IN MENTE LA METAFORA DELLA LAMA NASCOSTA NEL MEZZO DEL PANINO...
di Franco Sarcinelli
Sarebbe una presunzione affermare da parte mia di aver conosciuto Franco Fortini. Più semplicemente, gli ho parlato a telefono qualche volta e ho passato una mattina con lui, per le ragioni e nelle circostanze che posso brevemente rievocare.
Era il 1985, stava per cadere il primo decennale della morte di Pier Paolo Pasolini, io già allora insegnavo lettere nel II Istituto Tecnico per il Turismo di Milano, dalle parti di Lambrate, ed avevamo deciso con un gruppo di altri insegnanti di chiedere l’intitolazione della nostra scuola a Pasolini. Chiedemmo ad alcuni intellettuali di tenere delle conferenze nella nostra scuola su questo autore. Tra gli altri, proposi di contattare Fortini e per facilitare l’approccio con lui mi venne in mente questo particolare: Fortini aveva insegnato per qualche anno lettere nel triennio A di quello che allora era l’unico istituto per il turismo di Milano, in via Bernardino Verro – e aveva lasciato questa scuola nel 1970 quando ebbe la cattedra all’Università di Siena – : allora le sue classi erano state affidate per un anno ad un insegnante, Gianfranco Modolo (che è diventato poi un noto giornalista economico di Repubblica e de L’Espresso), e l’anno successivo, il 1972, ero subentrato io nello stesso corso A di Fortini. Insomma, sfruttando questa indiretta eredità, lo chiamai al telefono, spiegando la nostra iniziativa e, in nome di quella vecchia coincidenza d’insegnamento, non ebbi remore a chiedergli di tenere una conferenza su Pasolini. Accettò subito e prendemmo gli accordi per l’incontro.
Era il 3 maggio 1985 e faceva già un caldo di una giornata di primavera avanzata quando di buon mattino andai a prenderlo sotto casa sua, ai Bastioni di Porta Nuova. In macchina, il tragitto non era particolarmente lungo ma rallentato dal traffico, Fortini mi parlò subito di sé, senza indugi. Il particolare della classe avuta in comune l’aveva colpito e cominciò a rievocare i tempi precedenti la sua carriera universitaria: le durezze del dopoguerra, gli anni in cui era stato assunto alla Olivetti, e poi ancora anni precari, il periodo in cui aveva dovuto sommare, oltre agli impegni letterari, l’insegnamento nelle scuole superiori e contemporaneamente nell’Università prima della sistemazione definitiva. Mi colpiva la descrizione di una vita per molto tempo stentata e faticosa, molto più di quello che avrei potuto immaginare su un uomo, che conoscevo come letterato noto e ricercato.
Solo per un momento il racconto prese una piega divertente: quando ricordò che alla Olivetti ebbe l’incarico di trovare un nome pubblicitariamente attraente della nuova macchina da scrivere da lanciare sul mercato e gli venne – mi disse sorridendo – un’idea geniale (credo, ma non ci potrei giurare, che si trattasse della famosa “lettera 22”). Poi, arrivati a scuola, tenne la conferenza prevista su Pasolini, a cui volle dare un titolo “Amicizia stellare”, tratto da un famoso brano di Nietzsche.
La relazione fu chiara, lucida, secca e tagliente: non concedeva nulla a Pasolini di troppo, anzi era assai severa nei suoi confronti per certe scelte di vita da lui considerate dei compromessi con il potere ma nel contempo risultò ricca di indicazioni di lettura preziosissime per comprendere l’opera letteraria di Pasolini. Sono indicazioni di cui ho sempre tenuto conto da allora in poi, sia che le condividessi sia che le ritenessi in parte fuori misura. Finita la conferenza, lo riaccompagnai in automobile.
Mi fece domande sugli studenti e gli raccontai che li avevo appena portati ad Amsterdam, città che avevo trovato affascinante.
Mi consigliò subito di leggere la poesia che su di essa aveva scritto Vittorio Sereni (non sapevo allora che a quella poesia Fortini aveva dedicato un’analisi critica specifica!). Così il discorso passò alla poesia in generale. Commisi subito una “gaffe” piuttosto imbarazzante ed imperdonabile, ma che poi si rivelò fruttuosa.
Gli dissi che c’era un passo di tanti anni prima che avevo letto e che non avevo mai dimenticato. In esso l’autore sosteneva che la sua poesia doveva essere come un panino con il salame, nel quale senza che il lettore si accorgesse egli aveva infilato in mezzo una lama acuminata.
Aggiunsi che l’autore in questione doveva essere Francesco Leonetti. Di rimando, gelandomi, Fortini precisò che veramente quella cosa l’aveva scritta proprio lui. Ma poi mi tolse d’impaccio, spiegandomi che l’importante era che avessi tenuto a mente quel concetto così importante e che questo faceva onore al suo autore, quindi a se stesso.
Così la conversazione riprese vigore e continuò fitta fino all’arrivo. Non ricordo più cosa seguitammo a dirci ma ho perfettamente impressa la sensazione che mi rimase alla fine di Fortini come di un uomo stanco, irrequieto, lucidamente consapevole di una realtà insoddisfacente ed opaca, quegli anni Ottanta che tanto hanno segnato il corso della nostra storia recente. Dopo l’incontro, gli comunicai che avremmo sbobinato il suo intervento e l’avremmo ciclostilato solo ad uso interno della scuola.
Egli chiese di rileggere, controllare e correggere tutto, con il massimo riguardo ed attenzione. A testimonianza della sua serietà e del suo estremo scrupolo culturale. Non ho più parlato, successivamente, con lui. Eppure, l’ho visto qualche tempo dopo, alla cerimonia milanese in cui gli fu assegnato il prestigioso premio Librex-Montale.
Impeccabilmente vestito, formalmente perfetto nell’elocuzione, lesse un intervento in cui coniugava i dovuti ringraziamenti alla rivendicazione della sua radicale, intangibile autonomia di pensiero e di giudizio intellettuale. Sentendolo parlare, anche quella sera mi tornò in mente la metafora della lama nascosta nel mezzo del panino. E’ una metafora che si addice ad un vero intellettuale, qual è stato per la cultura italiana Franco Fortini. La sua mancanza, come quella di molti altri della sua generazione, oggi si sente, maledettamente, oggi che troviamo in circolazione sul mercato della cultura (e della letteratura) molti panini plastificati, inodori, insapori, assolutamente innocui ma per nulla nutrienti.
...E RIVELA ALTRESI’ CHE LA PAROLA GIUSTA / DEVE ESSERE ANCORA DETTA...
di Giulio Stocchi
Mi è stato fatto non so quando un male.
Una ingiustizia strana e indecifrabile...
Franco Fortini
Sentinella, a che punto è la notte?
L’alba sta per venire
ma la notte non è ancora terminata.
Non stancatevi. Tornate.
Domandate.
Isaia
Se questo resta com’è
siete perduti.
Il vostro amico è il cambiamento,
il vostro compagno di lotta il dissidio.
Bertolt Brecht
“[…] Poi uscivo e scoprivo un altro mondo.
In via Madonnina, nel cuore del vecchio quartiere di Brera, c’era un bar. Oggi ha lasciato il posto a uno di quei palazzotti pretenziosi con videocitofono e tutto.
Più che un bar, quello di via Madonnina era una crota, un’osteria. Ci si mangiavano uova sode, aringhe, salame cotto. Si beveva molto vino. E si parlava. Io ci andavo con Piero Scaramucci. L’avevo conosciuto tramite una mia compagna di Università. Già, perché nel frattempo avevo tagliato il nodo delle mie indecisioni e mi ero iscritto a filosofia. Per desiderio di capire, dico oggi. Ma allora, probabilmente, per sfuggire a un qualche destino di uffici e tenere aperta, per vie traverse, la strada della poesia.
Piero aveva venticinque anni. Si sentiva il mio fratello maggiore. Voleva che imparassi. Mi raccontava, in quelle mezzanotti di bicchieri, del luglio ‘60, del governo Tambroni e dei moti di Genova. Mi spiegava che alla Fiat stavano per firmare certi accordi. Anzi, un ‘accordo quadro’, diceva. E questo non mi entrava assolutamente nella testa. Di operai non sapevo nulla. Sì, che esistevano da qualche parte, e poco più. Poi mi parlava del XX Congresso, dell’Ungheria, della svolta di Togliatti.
Piero era dei Quaderni rossi. E mi portava spesso con sé in un garage dalle parti di Città Studi. A leggere e discutere Rosa Luxemburg. C’erano Vittorio Rieser, Edoarda Masi, Goffredo Fofi. E tanti altri. Avevo persino conosciuto un poeta a quelle riunioni. Il primo che vedessi in carne ed ossa. E mi sorprendeva che invece di starsene a scrutare gli abissi della sua anima si infervorasse a parlare di centro sinistra e ristrutturazione. E al freddo, per giunta. Era Franco Fortini. Io me ne stavo zitto e non capivo molto. Ma incominciavo a intuire, in modo ancora confuso, certi collegamenti fra la cucina di casa mia e tutto il resto. […]”
Mi piace iniziare con queste parole che rievocano il ragazzo che ero a dicott’anni, nel 1962, al tempo del mio primo incontro con Fortini, perché- oltre che a restituire il clima di quel periodo in cui tutta una generazione si metteva per così dire al lavoro nella prospettiva di una radicale trasformazione della nostra società, iniziando un viaggio di cui non conoscevamo ancora gli approdi e in cui molti si sarebbero perduti- riflettono una caratteristica costante della figura di Franco, allora e fino alla sua morte: l’essere stato cioè sempre, con le poesie, i saggi, gli interventi parlati e scritti, al centro di un dibattito corale della sinistra di cui ha costituito uno dei punti di riferimento più saldi. E anche più scomodi, in un certo senso, perché Fortini non era certo di quelli che si tiravano indietro quando si trattava di enunciare verità che sulle prime apparivano sconcertanti o controcorrente per poi rivelarsi inevitabilmente esatte.
E me lo rivedo, con la testa già bianca, fra i capelli arruffati e le giacche variopinte del ‘67, in una di quelle assemblee fitte di giovani che si tenevano all’Università, quando il lavoro quasi cenobitico di cinque anni prima era sfociato in un movimento ribelle e festoso.“Sul Vietnam ci si divide”, mi pare quasi di udirlo con quella sua voce chiara, pacata e tuttavia tagliente, al termine di un memorabile intervento in versi: intendendo, con quelle parole, che occorresse passare dalla solidarietà generica dei sentimenti a una adesione guidata dal rigore di un’analisi razionale. Convinto com’era che la lucida consapevolezza è una conquista in grado di dare terra duratura alla pianta del sentimento. Perché, come gli aveva insegnato Brecht che Fortini in quegli anni traduceva, un morto ci commuove, a dieci ci si abitua e a mille non si fa più caso: diventano parte del paesaggio. Come dovevamo imparare anche noi in questi ultimi anni di universale macello, in cui i corpi straziati delle guerre del pianeta convivono senza alcuno scandalo sui nostri schermi televisivi con gli ancheggiamenti dell’ultima sciocchina di turno all’ora di cena.
A quel tempo però la sua affermazione mi aveva molto colpito, lasciandomi più di un dubbio: io che pochi mesi prima mi ero guadagnato tante botte, qualche titolo sui giornali e una condanna dall’allora giovanissimo sostituto procuratore Vigna per avere tirato a Firenze un uovo contro il vicepresidente degli Stati Uniti Humphrey. Spinto più da uno sdegno emotivo che da un ragionamento ponderato.
La ribellione continuava, ma la festa sarebbe di lì a poco finita. L’autunno caldo si dissipava nel gelo del suo lungo inverno. Una decisione feroce, fino incomprensibile nella sua determinazione, gettava una lunga teoria di morti sul cammino delle nostre speranze. E furono Piazza Fontana, e Pinelli, e Saltarelli, e Tavecchio, e Serantini, e Franceschi, e…
[…] “Non ricordi
quel ragazzo sfregiato
la sera dell’undici marzo 1971
che correva gridando
‘Cercate di capire
questa sera ci ammazzano
cercate di
capire!’
La gente alle finestre
applaudiva la polizia
e urlava ‘Ammazzateli tutti!’
Non ti ricordi?”
Sì, mi ricordo
La sensazione era proprio quella espressa dai versi di Fortini: che volessero semplicemente farci fuori tutti. Fu così che molti tornavano a riunirsi nei garage, ma questa volta per studiare il modo di rispondere colpo su colpo
o imparavano nelle cantine
come il polso può resistere
allo scatto
dello sparo
come scrive sempre Fortini nella medesima poesia.
La poesia… Io la poesia la coltivavo fin da bambino, come mio fiore e mia libertà, ma ora cominciava ad apparirmi come un dono avaro se non avessi saputo farne partecipi coloro ai quali avevo legato i miei passi e il mio destino.
Ci vollero anni perché mi decidessi ancora una volta a varcare la soglia di casa, finché, nell’aprile del ‘75, l’aprile dei visi chiari di Zibecchi e Varalli che ti fissavano listati a lutto dai muri della città perché polizia e fascisti ne avevano fatto scempio, salivo per la prima volta su un palco a urlare le parole rabbiose che l’indignazione mi aveva dettato. Quell’indignazione che è forse uno dei miei limiti, perché rende roca la voce, anche quando è necessario sia fredda e incisiva come un diamante.
Comunque sia, quei palchi erano in verità un osservatorio molto interessante per cogliere le trasformazioni che stavano mutando il volto del paese. Dalle grandiose manifestazioni del ‘75-‘76, quando la sinistra pareva a un passo dal successo elettorale, alle gonne a fiori, i nastri spavaldi e gli slogan dissacranti del ‘77, fino alle manifestazioni sempre più livide e incattivite degli anni successivi quando in piazza cominciavano ad apparire pistole e fucili e i comunicati delle BR erano un quotidiano bollettino di guerra insieme alle notizie dei primi morti per droga.
E intanto salivo e scendevo i gradini dei comizi, entravo nelle fabbriche, partecipavo agli scioperi generali, correvo con tutti gli altri nel fumo dei lacrimogeni e degli spari. Le mie poesie erano affisse ai muri come manifesti, distribuite con i volantini nei cortei, stampate nei libretti della sottoscrizione operaia, messe in musica nei dischi e illustrate dagli artisti democratici.
Ero diventato per così dire un personaggio: si parlava di me sui giornali, venivo intervistato alla radio, mi riprendeva la televisione. “Chissà cosa ne penserà Fortini…”, mi accadeva di tanto in tanto di domandarmi.
A ricordarmi Fortini ci pensava un uomo buono, paziente e affettuoso: Corrado Stajano, che mi aveva chiesto per la collana che dirigeva all’Einaudi un libro che raccogliesse il resoconto di quelle esperienze. Durante i due anni e più di laborioso parto che Corrado ha assistito con straordinaria perizia, di fronte a certe mie titubanze o incertezze soleva minacciarmi scherzosamente: “Guarda che se non ti sbrighi, mando tutto a Fortini”, col sottinteso “e in Fortini”, da sempre uno dei cervelli dell’Einaudi, “troverai un critico ben più severo di me, per il tuo libro”.
Il quale libro vedeva finalmente la luce in un paese che sembrava essere stato assalito da una nuova febbre: una smania di scrivere e recitare poesie che trasformava città, paesini, borghi in sede di festival, riunioni, cenacoli, letture o, meglio, di readings, come si cominciava a dire. L’enorme amarezza di una vita che appariva sempre più stretta in una morsa che la schiacciava senza riuscire a trovare via d’uscita pareva travasarsi in quella marea di versi che finivano col diventare uno smisurato regesto di fuga o di rassegnazione. E così il titolo orgoglioso che avevo voluto per il libro, Compagno poeta, cominciava ad apparire già allora irrimediabilmente fuori moda.
A quei festival, sempre più stonato nel coro di universale lamento, partecipavo anch’io. Fortini non c’era verso di incontrarlo in quelle occasioni e anzi non mancava dal suo altero isolamento di mandare segnali di profondo dissenso nei confronti della vecchia broda misticheggiante spacciata come ultimo specifico nelle farmacie di quei piccoli orfei tutto languore e brividini.
In verità di gente che non aveva perduto il ben dell’intelletto ce n’era ancora tanta. Saranno i suoi campi, sarà il Ticino che li attraversa, fatto sta che Nino Jomini, il Ninone delle nostre epiche bevute, ha sempre mantenuto una sua concretezza terrestre che è stata per me fonte di più di una consolazione durante i vent’anni che ci conosciamo. Nino è di Castano Primo ed è uno studioso finissimo dei dialetti pietrosi di quei posti e soprattutto è un infaticabile custode di memorie. Come dimostrava il manifesto che mi aveva fatto pervenire: “…ecco, dal lontano 1962, ogni anno il 27 ottobre, nell’anniversario della morte di Gianni Ardizzone, lo studente castanese caduto a Milano nel corso di una manifestazione internazionalista per l’indipendenza di Cuba, ecco prepotente questa voglia di non dimenticare…”. E in efffetti Nino è una sorta di archivio vivente di tutte le storie piccole e grandi che si sono svolte in quelle contrade e che contribuisce a non far dimenticare con articoli, spettacoli, canzoni. O iniziative, come quella che mi proponeva col suo manifesto, che concludeva: “…quest’anno, ecco, sabato 27 ottobre 1984, a Castano Primo, con noi a ricordare saranno due Poeti, Franco Fortini, testimone di quei tragici avvenimenti, Giulio Stocchi, di Gianni coetaneo, come lui allora studente”. E che, come lui, quel 27 ottobre 1962, era sceso in piazza. In quella che era la prima manifestazione cui avessi partecipato in vita mia.
L’emozione di vedere il mio nome accanto a quello di Fortini, come poeta e con la P maiuscola per giunta, era grande. E non vedevo l’ora di incontrarlo. “Anzi”, mi aveva detto il Ninone per telefono, “passa tu con l’Ornella a prenderlo in macchina Fortini, così fate il viaggio insieme”.
Era dai tempi del garage che non ci vedevamo di persona. Durante i convenevoli d’uso Fortini non diede segno di ricordarsi di me. Né io me l’aspettavo: un quarantenne cambia molto di più rispetto al ragazzo che era 22 anni prima di quanto non mi apparisse quell’uomo diritto, dallo sguardo severo ma temperato da una vena d’ironia, che ci attendeva sul marciapiedi in via Legnano e che mi sembrava identico al personaggio che avevo avuto la ventura di sfiorare durante la mia adolescenza.
La macchina si lasciava alle spalle la città, inoltrandosi per vie secondarie nel fitto dei paesini che la circondano verso una promessa di campagna che i filari lunghi dei pioppi in lontananza lasciano intravedere. “COME?!!???!”. “Sì”, mi andava ripetendo Fortini, “non sai chi è quest’altro poeta, questo che interviene stasera, questo, questo…” concludeva con una vaga assonanza che storpiava il mio nome. Non riuscivo quasi a crederci: “mi avrà scambiato con qualche compagno dell’organizzazione”, fu la prima insensata speranza cui mi aggrappai. Ma no: dovevo arrendermi all’evidenza. Fortini non solo non sapeva che IO fossi Giulio Stocchi ma non aveva la più pallida idea di CHI diavolo fosse Giulio Stocchi.
I pioppi ormai mi parevano i plotoni di un qualche esercito cupo che mi correva incontro agitando gli stendardi del mio stesso sconforto.
E così, mentre l’Ornella, che allora mi amava molto e aveva intuito il mio dramma, continuava a guidare sfiorandomi di tanto in tanto il ginocchio, io mi abbandonavo a tutta una recriminazione silenziosa -…ma come, una vita all’Einaudi, proverbialmente al corrente di tutto, e proprio io dovevo sfuggirgli…- sprofondando sempre più nel sedile, schiacciato dal peso di quella fatale rivelazione.
Mi parve di cogliere un certo lampo di imbarazzo negli occhi di Fortini quando raggiunsi al tavolo della conferenza il posto che attestava la mia identità. Alla Villa Comunale la cittadinanza tutta era stata invitata “per vivere un avvenimento eccezionale che vede cultura e sociale, come sempre dovrebbesi”, aveva scritto non senza una punta di civetteria il Ninone, “e invece raramente avviene, incontrare e coniugare”. “Ecco, già”, rimuginavo di pessimo umore fra me e me guardandomi intorno, “e questa non è davvero una di quelle rare occasioni”. La sala conteneva sì e no una quarantina di persone, poche in confronto alle centinaia di qualche anno prima. Anche questo era un segno dei tempi che si andavano preparando e apparivano già immerse in una nebbia di nostalgia le parole che avevo cominciato a leggere di Tradizioni, il racconto del mio libro in cui rievocavo quella mia prima manifestazione e da cui è tratto il passaggio con cui ho aperto queste note.
Francamente non ricordo cosa dicesse Fortini nel suo intervento, cui non prestavo molta attenzione ancora prigioniero com’ero del mio rovello interiore, ma ricordo che a poco a poco da quell’intrico venne a liberarmi il ritmo stesso di quel suo ragionare cristallino che doveva concludersi -e ormai ero tutto orecchi-, con una di quelle accensioni liriche che sono tipiche e che costituiscono il fascino della sua poesia, nei quattro versi de La madre con cui terminava il suo dire:
Glielo ammazzò il governo e ora parla ai comizi
per riaverlo intatto. Somiglia
mia madre com’era nel Venti. Non sa che in un vecchio
grida un attimo il figlio.
Al Pozzo, il ristorante della cooperativa dov’è buona tradizione che la sinistra si riunisca dopo simili manifestazioni, l’amarezza di qualche ora prima era solo ormai un leggerissimo tarlo che le risate dei compagni, i bicchieri di vino provvedevano via via ad ammutolire, mentre mi incantavo sempre più a sentirlo parlare con quella gente, Fortini, sempre con quel suo rigore che non concedeva nulla alla semplificazione, alla condiscendenza o al paternalismo con cui tanti intellettuali si rivolgono a quelli che considerano “gli um
ili”.Erano le ultime ore di una nottata limpidissima quando ci congedammo a Milano, davanti all’Arena. Tornando a casa attraverso il profumo d’ottobre di tutti quegli alberi del Parco che l’autunno non aveva ancora sfiorato, i versi di Franco che quel fogliame mi sussurrava:
Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia
erano il segno più chiaro che ormai mi ero riconciliato con me stesso, con la poesia, con Fortini, e con l’universo mondo.
Io posseggo un arnese che è la dannazione dei miei amici, ma che di tanto in tanto mi dà qualche soddisfazione. La mattina dopo la serata di Castano me la sarei sposata la mia segreteria telefonica. “Sono Franco Fortini”, diceva quella voce esatta che il miracolo tecnologico dell’apparecchio mi ha consentito di riudire ancora oggi e che trascrivo. “Solo adesso mi sono reso conto che Giulio Stocchi è Giulio Stocchi. Cioè me ne sono reso conto ieri sera con estrema vergogna. Questa mattina ho ripreso il libro, che mi era nell’ ‘80 completamente sparito, dati momenti per me gravissimi d’allora, e ti ringrazio di averlo fatto, di averlo scritto, questo libro, e mi devi scusare di non averti riconosciuto”.
Fatterelli, si potrebbe dire, insignificanti se non per me. E invece sono, a mio parere, l’indizio più sicuro di una delicatezza, di una gentilezza d’animo, di un’attenzione verso gli altri e, insomma, di uno stile, che hanno reso caro Fortini a chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo.
Da allora abbiamo avuto modo di sentirci spesso e di vederci qualche volta. Come quella sera a cena, a casa mia, insieme a Stajano, a Giovanna Borgese, a Donatella Zazzi, all’Ornella, a Roberto Cerati, a Claudio e Paola Bazzi, e Franco, seduto vicino alla sua Ruth, col bicchiere in mano, e quella bella voce che declamava e declamava Pascoli, Carducci, Aleardi e giù giù fino ai minori dei minori dell’ ‘800 in una sfida giocosa con Claudio a chi ne ricordasse di più di quei versi.
Il ‘falso vecchio’, come amava definirsi, era tornato quella sera ragazzo.
Non so se Fortini approvasse fino in fondo il mio modo di fare poesia. Quello che so è che il suo comportamento nei miei confronti era animato da grande rispetto. E questo voleva dire molto per uno nelle orecchie del quale ronzavano frasi – ed è una delle più gentili nel catalogo di varia meschinità che mi sono annotato nel corso della mia ormai non più breve carriera – come quella colta al volo dalle labbra di Majorino: “in questo paese in cui si scambiano gli Stocchi per Zanzotto”. Figuriamoci: io avevo il problema che in questo paese il mio nome venisse almeno pronunciato al singolare. Ma, si sa, ognuno ha lo stile che può, e che merita.
Il rispetto e lo stile, del resto, stavano diventando una merce rara. La città intorno a noi cambiava. Gli anni di Brera e del garage di via Aselli sfumavano nel ricordo, assumendo i colori di una leggenda che ci pareva quasi impossibile avere vissuto, paragonati alle miserie piccole e grandi, ai tradimenti, alla volgarità, alla caduta di speranze, alla cartapesta della Milano da bere.
Fortini era sempre lì. Sempre diritto, fra i tanti che per viltà o per convenienza chinavano la schiena di fronte ai nuovi potenti, giocando a rinnegare, insieme alle idee della giovinezza, la loro stessa decenza. Sciacquandosi naturalmente la bocca con un progresso e una modernità che non riuscivano tuttavia a rendere meno fetido il loro alito.
E fra i più onesti, molti ammutolirono di fronte al precipitare di eventi che trasformavano l’assetto geopolitico del mondo intero.
Io stesso, sfiancato da tanto girare sotto i palchi sempre chiedendo di recitare, esasperato da tutti quei burocratici sorrisini che accompagnavano, e non m’importava più, l’assenso o il diniego, e valutando infine che quell’esperienza di poesia in pubblico, già di per sé rischiosa, potesse davvero trasformarsi in ciò che io assolutamente non volevo, pura declamazione e consolazione, segno di impotenza e non di signoria, e che occorresse affrontare i chiodi della solitudine per ritrovare un accento di verità, tornavo a rinchiudermi nella cucina di casa mia da cui ero uscito con tanta fatica una trentina d’anni prima.
Fuori, gli edifici del sopruso si levavano intatti. E anzi, si moltiplicavano. Di quella livida geografia Fortini continuava tenace la ricognizione, la sua instancabile verifica dei poteri, con una voce certo più isolata, ma forse per questo ancora più netta, confrontandosi, ragionando, discutendo, mettendo in guardia. Insistendo: per usare una locuzione a lui cara.
È stato gravemente malato per molti mesi”, mi scriveva Ruth, “ma ha sempre cercato di lavorare non appena sentiva un lieve miglioramento”. Questa costanza vigile è la lezione di Fortini. Il suo esempio. E il suo onore.
E chissà perché, a questo punto che sto per congedarmi da questi ricordi e da queste riflessioni, mi viene in mente una mia poesia, nata da una delle ultime occasioni che ho avuto di entrare in una fabbrica sul finire degli anni ‘80. L’orologio ha compiuto il suo giro. Le grandi manifestazioni sono l’eco lontana di un mare che batte contro la costa ripetendo ostinato le sue domande.
“Proteggete le nostre verità”, ci intima Fortini come estrema consegna in Composita solvantur, apparso a pochi mesi dalla morte.
E quegli otto al tavolo mi ricordano i pochi che eravamo all’inizio del nostro viaggio e paiono riaffermare con la loro stessa presenza una verità che Fortini non si è stancato di ribadire, l’ingiustizia che nel corso della sua esistenza si è sforzato di decifrare in tutte le sue manifestazioni: la realtà di uno sfruttamento, che non solo non è scomparso ma, mascherandosi da falsa libertà -per citare il titolo di Lu Hsun a Franco tanto caro- si è insinuato in ogni piega del nostro tempo e della nostra vita.
Una verità che tanta parte della sinistra, dimentica delle proprie radici e delle proprie ragioni, oggi tende a rimuovere e a negare in nome delle magnifiche sorti e progressive di un mercato dove in realtà tutto si riduce a numero, macinando e frantumando sogni, aspirazioni, speranze, identità: in una parola, la nostra stessa umanità, avvilita in un processo in cui servo e padrone si rispecchiano nella medesima miseria antropologica.
E se è vero che la parola giusta, quella in grado cioè di raddrizzare la storpiatura che deforma la nostra società e la nostra vita, per essere efficace può essere pronunciata solo da un universo di voci solidali, è altrettanto vero che ci sono uomini che con la loro intelligenza e la loro generosità hanno saputo tracciarne e mostrarcene, vorrei dire quasi con testardaggine, le lettere.
Uomini così meritano di essere grandemente lodati.
Franco Fortini è stato uno di loro.
Inequo
dice con voce lenta
il provvedimento è inequo e noi
non lo possiamo accettare in otto
attorno al tavolo in rappresentanza di più
di tremilaseicento operai un cartellone
pubblicitario che vedo dalla finesra affermache la
vita è meravigliosa e inequo
torna a ripetere e più della parola
o della situazione la storpiatura della
parola pone un problema denuncia che
con la parola molti si storpiano la vita
la quale per altri è meravigliosa perché
questi appunto vivono così e che lo
sfruttamento non è una parola la storpiatura
della parola dunque lo testimonia
e rivela altresì che la parola giusta
deve essere ancora detta
perché tutto ciò
com’è giusto
finalmente
scompaia
...L’IMPRESSIONE ERA DI AVERE ACCANTO UN GENTILUOMO D’ALTRI TEMPI...
di Paola Zamboni
Milano. Primavera del 1972. Via della Signora, Sede delle ACLI. Docente: Franco Fortini. Il corso: Metodologia della critica letteraria, Lukács e dintorni. Gli studenti: Franco Brevini (che mi fece entrare nel gruppo), due suoi compagni del Liceo del Turismo di via Santa Marta (dove Fortini insegnava lettere), Edoardo Esposito, Franco Brioschi (allora borsista in Statale, oggi docente), due giovani amici di Fortini, un ragazzo e una ragazza, forse il poeta Milo De Angelis…Non ricordo altri. Polemicissima ragione del corso: tenere delle lezioni alternative a quelle ufficiali della Statale, roccaforte del PCI.
Il corso su Lukács si rivelò affascinante e asistematico, inventato di volta in volta sull’onda dell’umore e del piacere personale di un docente di eccezione, che riversava sulla sparuta platea il torrente impetuoso, ora arrabbiato ora dolcissimo, della sua voce.Non ce
rcava né confronti né riscontri, ma soltanto un uditorio disposto ad ascoltarlo. Col narcisismo di un attore bambino, con lo stesso abbandonato entusiasmo, senza curarsi minimamente se qualcuno dei malcapitati studenti conoscesse qualche parola di francese – o forse lo dava per scontato – arrivava al culmine recitativo nella lettura in lingua da Nadja di Breton (i suoi amati Surrealisti!) e da Proust. Mi incantavo strabiliata e felice che la “coscienza inquieta” della cultura italiana rivelasse tanta debolezza.
L’amore per la letteratura e la parola riusciva sempre a sovrapporsi alla adesione teorica e metodologica (“possibile che tutti si dimentichino che io sono prima di tutto un poeta?”).
Ora era Lukács che auscultava le pagine tolstoiane di Anna Karenina, ora l’attacco malioso del Pianto della scavatrice (quanta ammirazione e invidia in quel suo “figlio di puttana Pasolini per attaccare così!”). Ora era il ricordo divertito del tempo in cui i poeti scrivevano canzoni, lui compreso. Ora – e lo diceva esilarato – era Arbasino con la sua trovata per Laura Betti: “ossigenarsi a Taranto è stato il primo errore”.
E che sapienza riconoscere in Sandro Penna una delle voci più autentiche della poesia italiana. E ne citava i versi:” Tu mi lasci. Tu dici ‘La natura…’ / Cosa sanno le donne della tua bellezza”.
Ne ricordo il volto roseo, pudico, i capelli bianchi, il sorriso fanciullesco.
Una sera mi accompagnò a casa in macchina. Mi fece allacciare
...RICONOSCENZA PER QUEL SORRISO APERTO, AFFETTUOSO, CURIOSO...
di Donatella Zazzi
Ho avuto – e ho – molta incertezza e molto pudore nello scrivere anche poche righe su Fortini. Che importanza può mai avere un mio ricordo su di lui?
A decidermi, è forse la riconoscenza per quel sorriso aperto, affettuoso, curioso con cui sempre mi salutava e mi guardava. C’era infatti un lontano ricordo, un filo sotterraneo, che ha continuato a unirci nonostante il passare del tempo e il variare dei luoghi in cui ci si incontrava: l’esserci conosciuti in un momento e in una situazione particolari, che, sebbene in modi diversi, erano evidentemente rimasti impressi a entrambi.
Sarà stato il ‘62 o il ‘63: triestina, io ero arrivata da non molto a Milano, e vivevo in una “comune”, in Via Solferino 11. Le persone con cui abitavo e che frequentavo partecipavano all’esperienza – oggi veramente “mitica” – dei Quaderni Rossi e di Potere operaio.
Fortini aveva voluto conoscere “questi giovani”, e ci aveva invitati nella sua casa di Via Legnano, che era, tra l’altro, proprio a due passi.
Tutto qui: ricordo la sua cordialità, il suo interesse per quanto si muoveva “a sinistra del PCI”, il suo bisogno di un contatto con persone più giovani, con quanto c’era di vivo – e allora c’era veramente qualcosa di importante e vivo – a Milano. Ricordo il suo accento toscano e un’aria quasi timida nel suo accostarsi a questa città, in cui avrebbe in seguito avuto un ruolo così significativo.
Note
[1] Il brano di Sergio Bologna è tratto, con l’autorizzazione dell’autore, da un’intervista apparsa su “IL PONTE della Lombardia” nel febbraio 1996
[2] Il brano di Francesco Leonetti è tratto, con l’autorizzazione dell’autore, da “CARTE E CONTI CON FORTINI” in “ALLEGORIA” 21-22, 1996
* Raccolta delle testimonianze: Ennio Abate
* Hanno inoltre collaborato: Rosella Bertola, Carmen Carlotta, Luca Ferrieri, Roberto Grossi, Alessia Meani, Titina Salzarulo, Angela Villa.
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