Roberto Bugliani – Aldo Zanchetta
Murales zapatisti. Progetto d’un mondo nuovo
Mutus Liber, Riola (BO) 2022
di Roberto Bugliani e Aldo Zanchetta
"Noi pensiamo che i murales zapatisti, che parlano del sogno di un mondo nuovo, riguardino anche noi e non solo un mondo lontano. E oggi ancor più di ieri. Per questo abbiamo costruito questo libro. Siamo però coscienti di appartenere a un altro mondo culturale, quello dell’"io" e non quello del "noi" proprio del mondo amerindio, di avere cioè una diversa cosmovisione. E sappiamo come sia difficile - e talora impossibile - tradurre adeguatamente i valori propri di una cultura in un’altra. Suggeriamo quindi al lettore di tenere distinto il discorso degli attori di questa esperienza storica da quello della nostra mediazione, non necessariamente corretta in tutti i suoi risvolti, della quale ci assumiamo la responsabilità" .
«Nelle terre zapatiste non comandano le multinazionali, né il Fondo Monetario Internazionale, né la Banca Mondiale, né l’imperialismo, né l’impero, né i governi dell’uno o dell’altro segno. Qui le decisioni fondamentali sono prese dalle comunità. Non so come si chiama tutto ciò. Noi lo chiamiamo zapatismo» (Subcomandante Insorgente Marcos, La velocità del sogno, II, settembre 2004).
Dei primi murales realizzati nelle comunità indigene zapatiste dello Stato messicano del Chiapas dopo l’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), avvenuta il 1° gennaio 1994, non si posseggono dati sufficienti a informare sulla loro genesi e sui loro autori.
"Questi dati li possiamo trovare nella memoria degli abitanti delle comunità, ma in luoghi così frequentati nel corso degli anni come i Caracoles zapatisti è facile che le persone non ricordino con certezza i dati dei murales, senza contare che in molti casi i murales sono stati modificati varie volte e la versione che permane è molto differente da quella originale e a sua volta è in fase di cambiamento" (Gálvez Mancilla).
È lecito perciò supporre che i murales più antichi – una parte dei quali non più esistenti a causa delle condizioni climatiche avverse di regioni chiapaneche quali la Selva Lacandona e los Altos, o più raramente perché il materiale di supporto è stato riciclato per altre costruzioni – siano stati dipinti da artisti improvvisati che, partecipando ai primi incontri tra società civili ed EZLN, hanno voluto testimoniare la loro solidarietà apportando il loro contributo culturale in modo estemporaneo e seguendo una propria ‘rappresentazione’ dell’insurrezione zapatista in cui a campeggiare è il simbolismo politico-militare di tipo convenzionale, dalla bandiera rossonera dell’EZLN alla stella rossa a cinque punte, dal subcomandante Marcos a cavallo con cartucciera incrociata sul petto e passamontagna, agli imprescindibili Zapata e ‘Che’ Guevara, il tutto accompagnato da lemmi e consegne tratti dalle prime «Dichiarazioni della Selva Lacandona», i comunicati politico-militari emessi dalla Comandancia dell’EZLN dal gennaio 1994 al giugno 2005. Il primo di questi incontri è stata la Convenzione Nazionale Democratica (CND), convocata dall’EZLN con la «Seconda Dichiarazione della Selva Lacandona» del 12 giugno 1994 e tenutasi sette mesi dopo l’inizio dell’insurrezione nella comunità di Guadalupe Tepeyac (Selva Lacandona, dal 6 al 9 agosto 1994), le cui infrastrutture ricettive, simbolizzate nel presidium somigliante a un ponte di transatlantico che Marcos chiamerà la «possente nave d’Aguascalientes», hanno ospitato seimila partecipanti e sono state distrutte dall’esercito federale per rappresaglia il 10 febbraio 1995, quando i militari occuparono la comunità installandovi un imponente presidio dal quale si ritirarono sei anni dopo, il 21 aprile 2001. Alla loro distruzione l’EZLN rispose con la creazione di cinque nuove Aguascalientes, distribuite in altrettanti luoghi dei territori liberati”.
Una delle questioni salienti per il pensiero occidentale (la ‘società indoeuropea’) che, a differenza di quello maya-tojolabal modulato sul concetto di intersoggettività, è strutturato sulla dicotomia soggetto VS oggetto e sul concetto di proprietà (in questo caso intellettuale), è quella autoriale, riguardante cioè la paternità dell’opera. Questione che è opportuno a questo punto affrontare prima di proseguire nella nostra proposta di lettura del mural zapatista.
Avverte Vargas Santiago che «non sempre i gruppi indigeni sono i creatori dei discorsi artistici, nel caso della pittura murale, la partecipazione degli artisti indigeni tzotziles, tzeltales, tojolabales, zoques, choles e lacandonos è minima». Nella maggior parte dei casi, infatti, la realizzazione dei murales è stata, e ancora è in modi certamente più definiti rispetto a prima, a carico di artisti professionisti meticci e dei loro equipo o collettivi. Riferendosi quindi al caso del mural di Taniperla, il ricercatore messicano scrive: «Le tematiche del programma iconografico e lo stile dell’opera sono stati discussi e decisi dagli abitanti, proprio come si fa nelle assemblee comunitarie per giungere a un accordo, il che lo rende uno dei pochissimi casi di muralismo zapatista in cui la esecuzione pittorica e il piano di lavoro appartengono precipuamente agli indigeni». Malgrado la notorietà di questo mural abbia «generato l’idea che i murales zapatisti siano eseguiti da mani indigene», la verità è che ciò «succede in pochissime occasioni» (Vargas Santiago). Tuttavia, quando i murales si deteriorano, sono poche le volte che la restaurazione avviene per mano degli stessi artisti o collettivi che hanno contribuito alla loro creazione, ma «sono piuttosto gli abitanti della comunità che li ritoccano e arrivano anche a trasformarli, incorporandovi nuove figure o modificandone i colori» (Vargas Santiago).
Osserva Martí i Puig, che le precipue caratteristiche del muralismo zapatista sono
"da un lato aver raccolto parte della tradizione classica del muralismo nazional-rivoluzionario messicano degli anni Venti di David Alfaro Sjiqueiros, José Clemente Orozco, Gerardo Murillo - conosciuto artisticamente come Dottor Atl - e Diego Rivera, e dall’altro l’integrazione di elementi del cartellonismo degli anni Sessanta e Settanta, del graffito urbano della fine del secolo XX e dell’estetica naïf",
E, sempre sul rapporto dialettico fra tradizione e innovazione presente nel mural zapatista, Raina Zimmering fa notare che gli zapatisti
"hanno ripreso il genere del muralismo classico messicano. Ma le loro pitture non sono semplicemente un ‘Rinascimento’ del genere classico. Essi rappresentano, in modo loro proprio, la nuova rappresentazione iconografica e ‘performano’ contenuti e stili del passato".
Sul piano formale, dunque, la commistione di stili pittorici tra primo e tardo Novecento è ciò che caratterizza il mural zapatista, ponendosi a risultato della sua dinamica ‘metamorfica’. Sul piano contenutistico, invece, lo scarto prodotto dal mural zapatista rispetto alla tradizione muralista classica, da Vargas Santiago definito «scollocazione genealogica», è da rintracciare a monte, per così dire, ossia nella sostanziale differenza dei contesti politico-culturali che hanno modulato le rispettive ‘poetiche’ muraliste che qui verranno messe a confronto, sia pure per sommi capi. In tal senso, non ritengo infatti possibile individuare valide analogie nel raffronto tra il progetto politico-culturale che, al netto delle sue improvvisazioni, ha dato luogo al mural zapatista, e quello cosiddetto ‘vasconceliano’ degli anni Venti del secolo scorso, quando José Vasconcelos, appena nominato a capo della neonata Secreteria de Educación Pública (Ministero della pubblica istruzione), commissionò a giovani artisti una serie di murales da realizzare nei principali edifici pubblici del paese. Ma mentre quei giovani artisti dipingevano con enfasi la figura dell’indigeno sui murales dei palazzi del Potere, la condizione indigena in Chiapas e altrove non era affatto esaltante. In altri termini, un tacito do ut des ebbe a instaurarsi tra l’istituzione pubblica post-rivoluzionaria e gli artisti incaricati di realizzare i murales, che «trovarono nello Stato uno spazio per vivere della loro arte, e a sua volta lo Stato usava i prodotti artistici da loro prodotti con finalità politiche proprie» (Da Costa Maciel).
Quanto alla tecnica utilizzata per dipingere i murales, essa è definita da tratti suoi propri, di tipo selettivo, che la differenziano dal suo impiego pedissequo, impersonale, tipico dell’epigonismo; da una parte, infatti, «i muralisti militanti si rifiutano di utilizzare tecniche che non corrispondono alla tradizione muralista», mentre dall’altra «pochissimi tra loro seguono il procedimento della tempera e soprattutto dell’affresco, considerati la tecnica mural per antonomasia» (Vargas Santiago). Per cui si potrebbe parlare d’un recupero personalizzato della tradizione muralista da parte di questi artisti, recupero mediato dalle particolari necessità comunicative della comunità (indigena, in questo caso) e calibrato sulle contingenze e caratteristiche proprie della fase storica contemporanea. Tra i tipi di pitture maggiormente utilizzati da questi muralisti si annoverano il vinilico, la pittura a olio e l’acrilico, mentre lo spray non viene mai impiegato. Altro elemento caratterizzante i murales zapatisti nel loro complesso è che non vengono realizzati in precedenza bozzetti né prove, ma la loro realizzazione è del tutto spontanea e immediata.
Col trascorrere del tempo, tuttavia, non tutti i murales hanno mantenuto il discorso iconografico, e con esso il messaggio politico, propri della fase storica in cui e per cui sono stati creati. Alcuni di essi hanno subìto e subiscono interventi di rimodulazione della narrazione iconografica diretti a modificare elementi o aspetti semanticamente rilevanti dell’immagine. Siffatti interventi, affidati dalle autorità municipali autonome ad artisti che collaborano con la comunità, sono nel loro complesso addebitabili al mutamento sensibile del contesto storico-politico in relazione agli avvenimenti da allora intercorsi.
Se ai suoi primordi il mural ha rappresentato un elemento di novità sostanziale agli occhi della comunità indigena zapatista (Gálvez Mancilla), ben presto quest’ultima ha saputo integrarlo nelle sue coordinate politico-culturali, facendo sì che il linguaggio iconografico trovasse adeguata collocazione nella più ampia area di ricerca e di codificazione di nuove forme comunicative, e contribuisse così a delineare l’identità collettiva (mitologica e storica al tempo stesso) del popolo zapatista, un cui momento fondante è il riconoscimento della propria genealogia rivoluzionaria, dal padre dell’Indipendenza Miguel Hidalgo a Zapata, da Villa a Lucio Cabañas a ‘Che’ Guevara. In altri termini, diffondendosi territorialmente e divenendo una risorsa comunicativa di cui le comunità si avvalgono per trasmettere all’esterno il proprio pensiero e il proprio sentire, il mural ha assunto una pluralità di funzioni; una delle principali è quella di costituire un «registro storico» (Gálvez Mancilla) di documenti visivi che danno conto delle trasformazioni e dei mutamenti iconografici dovuti a motivazioni di solito collegate alle nuove articolazioni politiche di fase del discorso zapatista.
Nel suo studio «Os murais zapatistas e a estética tzotzil: pessoa, política e território em Polhó» (2018), Lucas Da Costa Maciel si chiede: che cosa rende zapatista un mural? Pervenire a una codificazione del genere in grado di cogliere l’essenza dello zapatismo non è cosa facile perché, se assumessimo tale questione a orizzonte della nostra indagine, la natura perennemente cangiante del mural zapatista – riflettente sia la mutevole prassi del movimento dovuta via via alle particolari fasi di lotta, sia il pensiero «poliedrico e molto mutevole» (Aldo Zanchetta) del soggetto storico zapatista «in costruzione permanente» (Híjar González) – non mancheremmo di trovarci nella classica situazione del viandante che, per usare una metafora di Eduardo Galeano, vuole raggiungere l’orizzonte, ma quanto più cammina in quella direzione, tanto più l’orizzonte s’allontana da lui. Non soltanto, ma come ha fatto notare Híjar González relativamente al complessivo «capitale estetico» zapatista al quale il mural appartiene, esso «oltrepassa i limiti dell’agitazione e della propaganda e richiede di addentrarci in analisi pluridisciplinari per capire le condizioni di produzione, di circolazione, di ricezione, e soprattutto le sue conseguenze e i suoi effetti politici e sociali» (2007). Ora, un compito di tale portata sarebbe superiore alle capacità analitiche dello scrivente, che considererebbe già un ottimo risultato se queste pagine contribuissero a far avvicinare il viandante proveniente da un calendario e una geografia altri a una terra ribelle e in resistenza, e a renderlo partecipe della vita dei suoi popoli indigeni, dei loro sogni e della loro speranza.
Anche su questa terra gli imperi avevano posto a monito il cartello Hic sunt leones, riservandosi l’arbitrio di sfruttarla a proprio piacimento e di condannare le sue etnie all’oblio. Ed è su questa stessa terra che gli zapatisti hanno eretto il cartello: Aquí el pueblo manda y el gobierno obedece, ad attestarne il riscatto.
Bello e interessante. Ma, forse, si potevano mettere meno caveat e più elementi descrittivi..a meno che questa non sia solo un’introduzione
hic sunt leones in un altro senso, dove i leoni si esprimono
Grazie dei commenti.
@ Di Marco, Sì, si potrebbe fare, una sorta di Addendum, allegato o appendice, dove si forniscono ulteriori informazioni. L’attenzione sul movimento zapatista da parte delle società civili internazionali oggi è ai minimi storici.
(Si tratterebbe di convincere Ennio)