Composita solvantur . Letture e riflessioni sul conflitto Israele- palestinesi (1)
a cura di Ennio Abate
Dal 7 ottobre 2023 – giorno del sanguinoso attacco di Hamas contro civili israeliani partito dalla Striscia di Gaza – sto seguendo notizie, commenti e riflessioni sulla nuova e – pare – inedita esplosione della crisi in Medio Oriente. In questa rubrica che riprende il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Franco Fortini, dal quale – a partire da “I cani del Sinai ” (1967)- ebbi la spinta a interrogarmi con continuità sul conflitto tra israeliani e palestinesi, ritornerò, senza rispettare l’ordine cronologico, su alcuni degli articoli selezionati, facendone innanzitutto dei semplici e chiari suntini. Spero che aiutino me e i lettori di Poliscritture a mantenere ferma l’esigenza di ragionare e di scegliere con tenacia la verità, sfuggendo le trappole delle semplificazioni propagandistiche e della disperazione. [E. A.]
In questo articolo di Augusto Illuminati, pubblicato su Dinamo Press il 21 ottobre 2023, che potete leggere per intero qui ma che ricopio per comodità in Appendice, l’autore:
1. prende posizione su Hamas: “quelli di Hamas non sono “i nostri figli di puttana”;
2. individua “l’aspetto principale della contraddizione” del conflitto tra Israele e i palestinesi: “non è la crudeltà dei terroristi verso i civili israeliani” su cui batte la propaganda dei media occidentali, ma “la sistematica prevaricazione dei coloni armati e delle autorità israeliane esercitate sui corpi, la terra e gli olivi dei palestinesi”, sottolineando la prepotenza colonizzatrice di lunga data dello Stato d’Israele nei confronti dei palestinesi, che ha impedito finora ogni politica di convivenza e imposto “decenni di occupazione illegale e di apartheid”;
3. si pone il problema della soluzione della crisi tenendo presente il rischio più grosso di un allargamento del conflitto: la possibilità di ” precipitare verso una terza guerra mondiale”;
4. individua la causa (o una delle cause principali), che rende particolarmente difficile una soluzione del conflitto, nel “fattore religioso”: “compenetrazione di legge religiosa e legge civile, per cui l’organizzazione del potere e la legislazione rinviano direttamente alla Bibbia (precetti della Halachahe commenti) o al Corano (il Fiqh, secondo le varie scuole interpretative) e la cittadinanza coincide di fatto con l’appartenenza confessionale”; per cui “il possesso della terra, il controllo del territorio è oggetto di uno scontro che assume subito carattere di sacralità, come se il Dio-persona (geloso e vendicativo) delle due religioni fosse chiamato in causa”;
5. a causa di questo condizionamento del “fattore religioso” sui problemi reali (“il problema della sicurezza di Israele e quello del ritorno dei Palestinesi nel territorio originale “), ritiene ormai impraticabile la soluzione “due popoli, due stati”, perché i problemi reali sono stati e verrebbero ancora inevitabilmente sovraccaricati da una “metafisica mortuaria” e i due Stati, anche se si arrivasse a concordarne la costituzione, “si consoliderebbero nell’odio reciproco e nel compattamento confessionale interno, ognuno producendo i propri fondamentalismi, gemelli fascisti”;
6. sostiene che Il prolungamento della “situazione paralizzante” dei rapporti tra israeliani e palestinesi è dovuto sia al “suprematismo ebraico” che all’”integralismo simmetrico di Hamas”; e che da questa paralisi traggono vantaggio sia l’”imperialismo Usa che […] le monarchie conservatrici dell’area”;
7. espone la sua tesi: ” l’unica, difficilissima, al limite improbabile prospettiva di salvezza e coesistenza è quella di uno Stato unico per Israeliani e Palestinesi, che rinunci, per un verso, allo “Stato degli Ebrei”, per l‘altro, alla cancellazione di Israele.” Il modello positivo di lotta che propone – (ai palestinesi sopratutto, a me pare) – è quello dell’Anc [African National Congress,] in Sudafrica, il partito che seppe astenersi “dall’uso della violenza contro i civili inglesi e afrikaner” e ottenne “un regime di eguaglianza elettorale e civile […] un regime con molti problemi e tutt’altro che edenico [che però] nella terra che ha visto nascere il messianismo sarebbe comunque meglio della catastrofe permanente”.
APPENDICE/ L’ARTICOLO (COMPLETO) DI ILLUMINATI
Non vogliamo mettere sulla bilancia i bambini decapitati nei kibbutz e quelli ridotti in poltiglia dai bombardamenti a Gaza – una contabilità oscena che vuole assolvere l’una o l‘altra parte – bensì registrare il fatto che la causa della violenza e dell’odio reciproco sta in decenni di occupazione illegale e di apartheid, opera di tutti i precedenti governi israeliani e che la destra estrema su cui si appoggia Netanyahu per sfuggire a una condanna per concussione ha soltanto esasperato e avvolto di un’aura pseudo-messianica. E che quindi per sbarazzarci di tutti i mostri – il ladro Bibi, gli assassini in divisa, gli esecutori magari poco convinti delle follie suprematiste di Ben-Gvir e Smotrich, i fanatici del terrore jihadista contro gli Ebrei in quanto tali – occorre “soltanto” invertire il processo di spossessamento che ha umiliato e frammentato Gerusalemme e la Cisgiordania, prorogando all’infinito gli effetti della Nakba del 1948. Non basta neppure arrestare l’evacuazione forzata di due milioni di Gazawi dal capoluogo e dalla parte nord della striscia Gaza per concentrarli in un gigantesco campo profughi di tende e baracche su mezza Striscia, a ridosso del valico di Rafah (chiuso) con l’Egitto.
Anche se tutto fosse congelato al momento attuale – cioè al massacro di decine di migliaia di abitanti e alla distruzione dell’abitato e degli ospedali di Gaza, in un territorio trasformato da prigione a cielo aperto in fossa comune – resterebbe inalterata la situazione di occupazione e odio reciproco, ovvero di oppressione per tutti i Palestinesi e di insicurezza per tutti gli Israeliani.
Il 7 ottobre e le stragi di oggi condensano uno sterminio distribuito in modo strisciante in settanta anni di occupazione e in specie nell’ultimo trentennio. E questo ormai la maggioranza degli Israeliani, non solo i lettori di “Haaretz”, lo sanno benissimo. Non sono così stupidi e bugiardi come la grande maggioranza dei giornalisti e opinionisti italiani che soffiano sul fuoco seduti davanti al loro computer o comodamente sdraiati nei talk show – iene con tastiera o in video – verrebbe da aggiornare una vecchia definizione. E lo sanno anche gli utilizzatori finali del terrore, in campo atlantico e mediorientale. Il problema è come uscirne senza precipitare verso una terza guerra mondiale.
I più volenterosi (e/o i più ipocriti) rilanciano con scarsa convinzione la soluzione dei due stati, aggiungendo vaghi accenni alle risoluzioni dell’Onu, ai confini del 1967 e a Gerusalemme est come capitale e comunque recriminando sul mancato riconoscimento della legittimità di Israele da parte delle organizzazioni palestinesi e (sempre meno) dei paesi arabi circonvicini. È una soluzione plausibile? E quali problemi resterebbero aperti? Apriamo qui una parentesi facendo un excursus “culturale”.
Nel Medio Oriente si sono sviluppate due grandi culture, ebraica e islamica, su una base etnica (per la componente arabo-islamica), linguistica e religiosa comune, che ha contribuito in grado inestimabile alla cosiddetta civiltà occidentale, fornendole, fra l’altro, due strumenti concettuali potenti (e nefasti): l’anima e il Dio unico, personale e trascendente. Il fattore religioso è stato in entrambi i casi un principio unitario decisivo, per quanto non siano mancati lunghi e fecondi periodi di laicizzazione. Una caratteristica specifica (e parallela) è la compenetrazione di legge religiosa e legge civile, per cui l’organizzazione del potere e la legislazione rinviano direttamente alla Bibbia (precetti della Halachah e commenti) o al Corano (il Fiqh, secondo le varie scuole interpretative) e la cittadinanza coincide di fatto con l’appartenenza confessionale.
Malgrado i vari compromessi con la legislazione positiva di matrice occidentale, il diritto israeliano, quello dei paesi sunniti e la velāyat-e faqih sciita instaurata in Iran dal 1979 presentano questo nucleo di indistinzione. La cosa passa spesso inosservata e deflagra solo in alcuni casi particolari, ma resta un sottinteso inquietante in ogni momento. Deflagra, per esempio, quando il possesso della terra, il controllo del territorio è oggetto di uno scontro che assume subito carattere di sacralità, come se il Dio-persona (geloso e vendicativo) delle due religioni fosse chiamato in causa. Allora il conflitto verte su un’area geografica su cui vale un diritto divino e non solo tradizionale o per interesse economico (la sventurata Palestina, Eretz Israel) o un suo minuscolo lembo, il Monte del Tempio, sorretto dal Muro del Pianto e coronato dalla Spianata delle moschee. Qui trattative, concessioni reciproche e coesistenza sono sempre minacciate dalla spada di Jahvè o di Allah e dalle armi più aggiornate dei loro fanatici seguaci. Chiusa parentesi.
Per questa ragione la soluzione, sempre meno convintamente proposta, della prospettiva “due popoli, due stati” non si urta soltanto con i dati storici contingenti che l’hanno resa impraticabile – il fallimento degli accordi di Oslo, l’accaparramento delle fonti idriche e delle terre più fertili, il processo accelerato di colonizzazione della Cisgiordania, che ha insediato in quel territorio villaggi e grandi agglomerati urbani israeliani fortificati e collegati da una rete di strade sopraelevate inaccessibili ai palestinesi – ma contraddice all’inevitabile deriva confessionale di due stati separati che si consoliderebbero nell’odio reciproco e nel compattamento confessionale interno, ognuno producendo i propri fondamentalismi, gemelli fascisti.
Questa polarizzazione non è riducibile e imputabile soltanto a un fenomeno religioso, ma anche alla sua secolarizzazione perversa. Al di là delle vicende coloniali del Medio Oriente, del gioco ormai irreversibile dei rapporti di forza e delle tempeste che hanno sconvolto la geografia antropica dell’Asia minore (pensiamo soltanto, oltre al reinsediamento ebraico, all’espulsione dei Greci e al genocidio degli Armeni e degli Assiri nel primo ventennio dello scorso secolo), al di là della scelta opportunistica di scaricare in Asia un problema creato e sanguinosamente gestito in Europa, Israele ha edificato la propria legittimità sul lutto della Shoah, sulla conversione del dolore e della domanda di sicurezza in violenza (G. Winant, On Mourning and Statehood: A Response to Joshua Leifer), mentre i Palestinesi, rinserrati nei campi profughi e nel bantustan di Ramallah, hanno conferito senso alla loro resistenza nel segno delle sofferenze vittimarie e del ritorno degli espulsi della Nakba del 1948 e successivi trasferimenti forzosi (ultimo e gigantesco quello in atto a Gaza).
Non che il problema della sicurezza di Israele e quello del ritorno dei Palestinesi nel territorio originale non costituiscano problemi reali, ma è la loro deriva metafisica mortuaria e gli effetti psicologici di massa del trauma che ostacolano ogni soluzione. Tali tendenze manifestano sia tra i super-ortodossi delle due religioni che nei rispettivi ambienti laici, perché il fondamentalismo originario si è stemperato e intrecciato con le vicende storiche recenti e si è insediato anche in perfetti atei. No al culto della morte – e lo dico da fedele discepolo di Baruch.
È a questo livello che, anche dopo la liquidazione dell’appropriazione coloniale delle terre che oggi costituisce la contraddizione principale, anche dopo un cambiamento di rotta della politica israeliana (e siamo ben lontani da tutto ciò) la natura di Hamas e la sua attuale egemonia sui movimenti palestinesi potrebbe diventare in tempi ravvicinati l’aspetto principale della contraddizione per un processo di pace e ricomposizione in Palestina.
Il suprematismo ebraico e l’integralismo simmetrico di Hamas, che ha sostituito l’anticolonialismo rivoluzionario laico originario dell’Olp, creano una situazione paralizzante, che fa molto comodo sia all’imperialismo Usa che alle monarchie conservatrici dell’area, e proprio per questo l’unica, difficilissima, al limite improbabile prospettiva di salvezza e coesistenza è quella di uno Stato unico per Israeliani e Palestinesi, che rinunci, per un verso, allo “Stato degli Ebrei”, per l‘altro, alla cancellazione di Israele.
Il bordo urbano e illegale di Gerusalemme che avanza. Foto di Pasquale Liguori
Uno Stato che non riconosca la legittimità dell’altro, sia considerandolo un male passeggero, sia trattando l’altro come subordinato (gli Arabi rimasti all’interno di Israele) o semi-colonizzato (gli Arabi di Cisgiordania e di Gaza), è privo di senso. Da un lato la demografia lascia prevedere una crescita superiore della componente araba e dunque uno Stato riservato agli Ebrei e che ammetta soltanto il loro ritorno in patria sarebbe costretto a negare un regime di eguaglianza politica e di potere alla maggioranza elettorale, dall’altro l’espulsione degli Ebrei dalla Palestina è materialmente impossibile in quanto si tratta di una potenza nucleare e non solo industriale o in termini di armamenti convenzionali. Non stiamo parlando di quanto sia giusto e ingiusto, ma di impossibilità materiale in termini di dati di fatto ed evoluzione prevedibile.
La soluzione dell’unico Stato – dal fiume al mare, come sostiene Ilan Pappé – è tanto inevitabile quanto al momento in apparenza impossibile. Come se ne esce, una volta che pure si fossero bloccati gli attuali processi coloniali e genocidari, che rischiano di innestare un conflitto più che regionale e magari una terza guerra mondiale? Forse non ha senso parlarne ora, ma un cenno dovremmo pur farlo.
Di regola i conflitti coloniali e affini si sono risolti con l’espulsione regolata o violenta dei colonizzatori, con danni e ingiustizie – è il caso dell’indipendenza nei paesi del Maghreb e in Libia, dove c’era una consistente presenza di settler europei e di minoranze ebraiche di remoto insediamento. In risposta alla nascita di Israele ci sono stati esodi più o meno forzati di Ebrei di altrettanto e perfino più lungo insediamento da tutto il Medio Oriente. Abbiamo un unico esempio di soppressione dell’apartheid senza la cacciata della minoranza che se ne serviva per eternizzare l’oppressione. In Sudafrica l’Anc si è astenuta molto precocemente dall’uso della violenza contro i civili inglesi e afrikaner ed è riuscito a ottenere un regime di eguaglianza elettorale e civile dopo lunghe e sanguinoso lotte. Ne è nato un regime con molti problemi e tutt’altro che edenico, dove la distribuzione della ricchezza e della povertà è molto ineguale e uno strato di neri ricchi si è aggiunto al ceto capitalistico e agrario bianco, sotto un governo piuttosto corrotto. Non è un modello se non – e per questo ci interessa – per il fatto che per ora ha evitato di sostituire all’apartheid l’espulsione, ovviamente rovinosa, degli antichi dominatori coloniali. Per quanto imperfetta anche la riparazione extra-giudiziaria delle antiche ingiustizie e dei crimini ha funzionato in una certa misura.
Utopia? Nella terra che ha visto nascere il messianismo sarebbe comunque meglio della catastrofe permanente, ovvero della prosecuzione dello stato di cose presente. Servirebbe un Mandela pure fra il Giordano e il Mediterraneo. In passato si era ipotizzato che Marwan Barghuthi potesse rivestire quel ruolo, ma ora è sepolto con cinque ergastoli nelle carceri israeliane e non è certo il primo di cui Hamas chiederà lo scambio.
La ragione dei più deboli
1 – La teoria della pentola
È stato detto che se si mette una pentola sopra un fuoco e si chiude il coperchio, essa prima o poi esploderà. Una spiegazione fisica, non politica, e psicologica dell’attacco di Hamas, una metafora per conservare ragione e etica dove appaiono essere minacciate. Mi pare un argomento povero, innanzitutto perché anche gli ebrei qualche oppressione l’hanno subita, e più lunga dei settant’anni che avrebbero esasperato i palestinesi di Gaza, ma poi e principalmente perché la responsabilità dei dirigenti di Hamas (e di qualsiasi movimento partigiano) deve essere assoluta, e cioè avere una prospettiva. Qual è la prospettiva di Hamas?
2 – Le prove dell’esistenza di Dio
Lungo tutto il Medioevo si formò e presse gran spazio il dibattito sulle prove dell’esistenza di Dio, causale, finalistica, ontologica e via dicendo. Oggi, che siamo o dovremmo essere nella modernità, il dibattito è tornato di moda. Israele nega l’esistenza di un popolo palestinese, e con qualche argomento, i palestinesi negano il diritto all’esistenza di Israele, con l’accusa di colonialismo. È chiaro che nessuno dei due popoli dovrebbe avere diritto a una patria: i palestinesi devono farsi assorbire dalle vicine nazioni arabe, gli ebrei tornare non si sa bene dove, e comunque lì restarci.
3 – Vivo o morto, il gatto
Quel che si vede dipende (aveva ragione il pignolo Kant) da due strutture: lo spazio e il tempo. Da quando si deve cominciare, dal 1948 o dalla fine dell’impero Ottomano? Dalla rivolta giudea contro i romani o dalla Guerra dei sei giorni? E lo spazio è quello ristretto della Palestina o tutto il Medio oriente, l’egemonia statunitense o il sogno della “Grande Siria”? Senza specificare le scelte di tempo e di spazio il discorso trasforma le contraddizioni in dettagli, e il pensiero in propaganda.
4 – Animali da compagnia.
Aveva torto Fortini, i cani sul Sinai ci sono eccome, e latrano sbavando. Quasi tutto quello che ci è dato di ascoltare sull’oppressione dei palestinesi o sugli attacchi agli ebrei, è misurato e calcolato in modo da ottenere il massimo di reazione emotiva e il mino di razionalità. È come se la tragedia si recitasse solo davanti a un pubblico (pagante) e quel pubblico siamo noi. Che senso ha esaltare le nefandezze del nemico se non la circolazione della merce più richiesta oggi, qui, da noi, in Occidente?
5 – Tagliare in mantello
Qualche guerra tra Israele e i suoi vicini c’è già stata, qualche proposta di armistizio e spartizione c’è già stata. Su quanta giustizia avessero quelle guerre e quei piani di pace è un compito lungo da pensare. Ma tuttavia il problema rimane: non è possibile che Israele accetti di scomparire, se non per mano militare, e non è ipotizzabile che tutti i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania salgano su delle barche da pesca e vadano a vivere dovunque tranne che lì. Sono i dirigenti politici (purtroppo o per fortuna) che decidono dei processi di pace e della guerra, è a loro che va chiesto conto.
6 – L’anima buona.
Se la religione era l’oppio dei popoli, parrebbe che il consumo di droghe sia stato depenalizzato. L’estrema destra religiosa israeliana però, per quanto parte dell’attuale governo, rappresenta una minoranza, l’estrema destra islamica, anch’essa al governo, rappresenta la maggioranza nei paesi mussulmani. Una radicale riforma, fatta di scontri e scismi, come accadde nell’ebraismo e poi nel cristianesimo, mi pare debba essere oggi all’ordine delle riflessioni da promuovere.
7 – Principio speranza
La scelta israeliana degli insediamenti è stupida e truce, confina i palestinese in zone controllate e utilizza questi piccoli pezzi di terra come riserva da usare ora contro l’Olp ora contro Gaza. Il risultato è evidente. Non meno stupide e truci sono la creazione di milizie, armate e potenti, da affiancare, quando verrà il momento, agli eserciti regolari che hanno deciso di distruggere Israele. Dove è la speranza? Nella convinzione che la memoria di quanto commesso possa diventare una benedizione.
Pare di no, che l’estrema destra religiosa israeliana NON rappresenti una minoranza. (Questi poveri dii, strappati da una parte e dall’altra, per difendere miserabili interessi: di soldi per armi e affari. Altro che depenalizzato l’oppio dei popoli!)
L’Iran si crede ancora un impero, le Termopili non fanno parte della loro memoria. Il principio speranza è un prodotto europeo.
Di nuovo le religioni: uniche ideologie che si allargano sulle classi, sui due sessi, sulla storia, la “radicale riforma, fatta di scontri e scismi, come accadde nell’ebraismo e poi nel cristianesimo” vale appunto per l’occidente, quello che ha dominato le terre cui oggi raccomandiamo di ragionare e pacificarsi, “sono i dirigenti politici (purtroppo o per fortuna) che decidono dei processi di pace e della guerra, è a loro che va chiesto conto”: abbiamo qualcosa per imporglielo?
Vuol dire che, la prossima guerra mondiale a pezzi, nascerà fuori dall’europa, ma ci “toccherà” malamente come sta già facendo, e non per caso.
Solo una precisazione. Non è che l’Iran si crede ancora un impero e si è scordato delle Termopili: è che la Cina è un impero, di cui l’Iran è la pedina più importante in area mediorientale; e la Cina sa benissimo che le Termopili ebbero più peso sui romanzi storici, i fumetti e il cinema contemporanei, di quanto ne ebbero sugli avvenimenti dell’epoca.
CHIARIMENTI 1967/2023
A. EZIO PARTESANA
“Aveva torto Fortini, i cani sul Sinai ci sono eccome, e latrano sbavando. Quasi tutto quello che ci è dato di ascoltare sull’oppressione dei palestinesi o sugli attacchi agli ebrei, è misurato e calcolato in modo da ottenere il massimo di reazione emotiva e il mino di razionalità. È come se la tragedia si recitasse solo davanti a un pubblico (pagante) e quel pubblico siamo noi.”
B. FRANCO FORTINI
1.
“’Fare il cane del Sinai’ pare sia stata locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata dagli studiosi, il suo significato oscilla tra ‘correre in aiuto del vincitore’, ‘stare dalla parte dei padroni’, ‘esibire nobili sentimenti’.
Sul Sinai non ci sono cani.”
2.
“I cani del Sinai non sono soltanto quei liei connazionali europei che hanno sfogato il loro odio per il diverso e il contrario (ieri l’ebreo, oggi gli arabi, domani il cinese, il sudamericano, qualunque ‘rosso’): sono anche metafora ironica dei nostri più vicini e goffi nemici, quelli che latrano in difesa delle tavole di una legge che nessun dio ha mai dato e che nessun sa più decifrare, tanto è lorda di vecchia strage. Attirarsi qualche latrato o qualche morso, è cosa davvero di nessun momento, senza merito né demerito. Bisogna volere ben altro: e anzitutto credere, come Lenin diceva, che ad ogni situazione esiste *una* via d’uscita e la possibilità di trovarla. E cioè che la verità esiste, assoluta nella sua relatività.”
(F. Fortini, I cani del Sinai, De Donato Ed. 1967)
C. ELENA BASILE
I cani da guardia sono all’ opera
Tutti persino #Quirico sulla #stampa
Si prepara l’ opinione pubblica alla guerra regionale
Si afferma che Iran e hezbollah, i mostri, i cattivi vogliono trascinare gli USA e Israele in guerra
Per favore ragioniamo:
Cui prodest? Chi beneficerebbe di un conflitto i cui rapporti di forza sono a vantaggio di Israele USA?
Hezbollah sono al governo in Libano, Paese che si sta faticosamente mettendo in piedi
Iran grazie alla Cina era uscito dall’ isolamento, avvicinandosi all’ Arabia Saudita e aveva ottenuto lo sblocco di 6 miliardi detenuti in Corea del sud
La Russia è occupata in Ucraina
Riflettiamo : a chi puô convenire la guerra
permanente
Come si puô avere la delirante strategia di proiettare potere e distruggere il terrorismo con una azione militare?
E chi è artefice di queste strategie belliciste, ‘militariste e pericolose?
Non ascoltate i cani da guardia
Riflettete con la vostra testa
(Dalla sua pagina FB: https://www.facebook.com/elena.basile11/posts/pfbid021Jc4niF9wt2AzKqxqyQNLev5H7ZyGb8wRUpNz8sBoYDJSwEU6Ghq6ThKS5NAL7Jrl)
1) – Di sicuro ogni forma di ideologia o religione (specie se “monoteiste”) produce uno zoccolo d’uro d’esagitati e criminali: Hamas (ma anche altre sigle) è quello dei Palestinesi; e come bisogna distinguere tra “Israeliani” come popolo e seguaci di certi Partiti (dal Likud a quelli più integralisti), così occorre fare per quanto riguarda i Palestinesi.
2) – È vero, ma teniamo presente che conflitti come questo si autoalimentano: l’innesco nasce dal modo col quale l’Occidente ha imposto la creazione di Israele nel 1948, ma se si vuole si può risalire a prima: come minimo alla spartizione dell’Impero Ottomano dopo la I G.M.. E volendo si può andare ancora più indietro, fino a cadere nel famoso paradosso dell’uovo e della gallina.
Questo per dire che il problema, più che essere “chi ha cominciato per primo”, è quello di disinnescare questa volontà di guerra a oltranza; che, si badi bene, è presente per forza di cose da entrambe le parti.
3) – Mettetevi il cuore in pace: la III G.M. è questa: non ha la forma di un conflitto nel quale in breve tempo vengono coinvolte in prima persona le grandi potenze, perché così si arriverebbe dritti e rapidi all’uso del nucleare. È un mosaico di tanti scontri d’area, per lo più condotti per procura: cioè quello che vediamo.
4) – Oh, qui abbiamo la chiave di volta di tutta la questione, cioè la natura religiosa del conflitto. E c’è poco da fare, almeno a livello teorico, coi negoziati: il vero Monoteismo è la traduzione teologica del concetto riassunto in due frasi da Alberto Sordi in un celebre film: “Io sono io e voi non siete un cazzo.”
Partendo da questo presupposto ci si può comunque orientare su colloqui tra le fazioni più moderate delle religioni in causa, però bisogna tener presente che ciascuna a un certo punto metterà dei paletti insormontabili: prendiamo per esempio la questione di Gerusalemme, che coinvolge pure i Cristiani. E quando spuntano i paletti, c’è già il terreno fertile per crescere nidiate di integralisti, daccapo.
Rimaniamo a casa nostra e per capirci chiediamoci se la Chiesa ha rinunciato alle sue prevaricazioni per convinzione, o perché non è in grado di rimetterle in atto…
5 e 6) – Vere entrambe. L’odio è andato così in profondità, che due Stati indipendenti continuerebbero a sognare la distruzione dell’altro (e oggettivamente ne avrebbero ben donde…), così da divenire utili pedine dei soliti noti, come spiegato dall’autore nel punto 6. Il problema è che ora come ora, non cambierebbe nulla nemmeno se si mettessero assieme i due popoli; a meno di non farli convivere in una sorta di panopticon gestito da terzi, nel quale il primo che prova ad usare una spilla da balia contro uno dell’altro Credo, viene incenerito senza processo.
In altre parole, prima della realizzazione dell’unico Stato, occorrerebbe che le singole etnie (o meglio le rispettive “minoranze sane”, come le chiamo io) mettessero in condizione di non nuocere le ali estremiste; in qualunque modo si voglia intendere l’espressione “mettere in condizione di non nuocere”.
E qui ci si scontra con la mentalità del vero monoteista: che oltre alla convinzione di essere il detentore della Verità, si rende conto che la realizzazione del teorema celeste suggerito dal suo Dio non è possibile su questa Terra, sul piano materiale, ma si raggiungerà solo post mortem. Peccato che non possa uccidersi, per arrivarci, perché se no è dannato per l’eternità: come conseguenza, deve scassare i maroni al mondo, finché qualcuno non ne può più e lo ammazza, facendolo arrivare dritto tra le braccia del suo Dio, in quanto martire.
Oltre alla psicoticità di questi individui, capite anche voi che una soluzione pacifica è virtualmente impossibile: siamo nel piano della fantapolitica, o della fantasociologia, a piacere.
7) – Continuando il discorso scritto sopra, faccio umilmente notare che l’AFC si trovò a operare in una situazione nella quale lo scontro non si basava su elementi religiosi di natura monoteista. Si potrà obiettare che c’era di mezzo il razzismo: cioè una bislacca teoria per la quale anche in questo caso “io sono io e voi non siete un cazzo”. Teoria oltretutto figlia di quel monoteismo laico nato dall’Illuminismo: il quale aveva bisogno di basi scientifiche per poter continuare a perseguitare chi non era come lui; visto che, negando l’esistenza di Dio, perseguitare qualcuno con l’accusa di deicidio faceva ridere i polli.
E dunque riguardo al Sud Africa, nel quale la situazione è riconosciuta giustamente come non proprio ottimale, bisognerebbe capire sul posto se le contraddizioni precedenti ai noti cambiamenti politici sono state almeno per la maggioranza risolte, o se son lì lì che aspettano il momento buono per dimostrarsi ancora vive e vegete.
Copio da Poliscritture su FB questo intervento [E.A.]
Maurizio Bosco
Io non riesco ad immaginare quale possa essere una soluzione concretamente praticabile della questione israelo- palestinese, ma vorrei apporre qualche postilla alle considerazioni in base alle quali Augusto Illuminati pensa come impossibile la soluzione dei due popoli in due stati. Atteso che la convivenza in un unico stato, che ai sensi delle determinazioni postbelliche dell’ONU, avrebbe dovuto essere, appunto, binazionale, non si è dimostrata praticabile e credo abbia raggiunto un punto di non ritorno, l’obiezione che Illuminati avanza contro l’ipotesi dei due stati e che ci sarebbe, al fondo della natura delle identità arabo-palestinese e sionista una radicale ed irriducibile componente religiosa che vedrebbe opposte due identità incompatibili, in quanto entrambre auto-leggitimantesi, in maniera incomponibile in in forza della articolazione tra ambito religioso ed ambito politico-statuale. Dal mio punto di vista è necessario distinguere il carattere eminente del sionismo dalla sua presunta indossolubilità dalla identità ebraica. Lo stato sionista, lungi dall’essere ispirato dalla vigenza della halakhah è fondamentalmente uno stato laico che fonda la sua legittimità su una torsione storicizzata del messianesimo ebraico, che ha interrotto il tempo dell’attesa, la tensione verso la venuta, con un’entrata nel tempo storico di Israele nella veste di potente entità politico statuale. Ne è riprova il fatto che gli ebrei ortodossi, dentro e fuori israele per lo più non riconoscono la legittimità dell’esistenza dello stato sionista e che il governo di Tel Aviv ha fortemente represso le componenti religiose ebraiche israeliane e non. In realtà, per quanto può valere la mia opinione, ritengo che il progetto della nascita (stabilita “a tavolino”) di Israele si debba configurare come l’insediamento in terra di Palestina di uno stato colonialista, avamposto in medio-oriente dell’imperialismo di matrice anglo-statunitense, che ha sopportato, a tal fine, la contraddizione tra un fondamento evangelista (ed antisemita) e l’idea, anch’essa legata al cristianesimo anglo-statunitense di una forma di suprematismo bianco. Lo stesso che i principali leader del movimento sionista, sostenevano a chiare lettere, prefigurando, per il futuro, quando combattevano per la nascita dello stato sionista (anche venendo a patti con netti antisemiti, quali i rappresentanti del reich) la sostituzione della figura canonica dell’ebreo come figura marginale e caratterizzata, con quella dell’ebreo emancipato e occidentalizzato. L’entità sionista è un’espressione del colonialismo e del suprematismo bianco, ed i suoi fondatori, al netto della suggestione pseudo-socialista del kibbutz, hanno stretto, come noto, solidi legami di collaborazione con le forze europee più reazionarie o apertamente fasciste. Il problema è, quindi, innanzitutto politico e ha a che vedere con l’occupazione da una parte e la rivolta contro questa occupazione da parte dei legittimi abitanti della terra di Palestina. Ad ulteriore riprova di ciò, bisognerebbe ricordare che le comunità ebraiche della diaspora hanno pacificamente convissuto con le popolazioni arabe e di altre confessioni di molti paesi ospitanti, dalla Persia sciita ai paesi balcanici, all’ex unione sovietica o all’attuale federazione russa, in cui convivono pacificamente confessioni diverse. Tutto ciò prima che la radicalizzazione (politica) politica determinatasi con l’incistamento del progetto sionista nel cuore del medio-oriente arabo portasse al progressivo incancrenirsi di un conflitto sempre più aspro. Non esprimo un giudizio su Hamas, perché questo richiederebbe ben altro tempo e perché è ben noto il ruolo che lo stesso Israele ha svolto per innalzare Hamas ad unico “interlocutore” politico, ora “terrorista”. Ricordo solamente che ben prima che Hamas si affermasse a Gaza, peraltro vincendo elezioni, la stessa OLP di Arafat era considerata organizzazione terrorista. Questione, insomma, indistricabile sul piano della discussione e che andrebbe oggi, più che mai, inquadrata all’interno dello stravolgimento complessivo dei rapporti di forza tra le grandi potenze mondiali e delle rispettive sfere di influenza il cui ridisegno e sotto gli occhi di tutti.
Io ricordavo una alleanza tra arabi e Hitler, ma devo aver preso il libro sbagliato. Così come mi pareva di ricordare la pacifica convivenza di arabi e ebrei ristretta a chi pagava per la sua libertà, ma anche qui chissà che pagine avrò letto per farmi questa idea bislacca. E non parliamo di Hamas, non parliamone mai, per amor nostro.
@ Partesana
Puoi benissimo pubblicare qui le pagine che nomini o i link ad esse.
C’è davvero bisogno che qualcuno “indichi le pagine” dell’alleanza anti-inglese del Muftì di Gerusalemme e i nazisti?
E allora non capisco il senso dei tuoi “ricordi” o della lamentela (“E non parliamo di Hamas, non parliamone mai”).
In passato Poliscritture ha sempre pubblicato i tuoi articoli su questi temi:
– Islam in decadenza? (https://www.poliscritture.it/2014/12/16/islam-in-decadenza/ );
– Peggio dei nazisti (https://www.poliscritture.it/2014/08/27/peggio-dei-nazisti/)
Puoi proporne altri.
SEGNALAZIONE
PAOLA CARIDI/ DUE STATI?
– E la soluzione dei due Stati?
“Non ci credo più e non ci crede ormai nessuno. Tutti concordano sulla morte per agonia del processo di Oslo, dopo vent’anni. Se quella era la soluzione doveva essere implementata subito. Invece a Oslo è stato fissato un recinto per la pace, tanto affascinante quanto irrealizzabile”.
(https://www.famigliacristiana.it/articolo/caridi-la-terra-santa-attende-uomini-nuovi.aspx)
Confermo.
I popoli dei due Stati continueranno ad odiarsi per i crimini commessi l’uno contro l’altro e perché ciascuno continuerà a rivendicare solo per sé quel lembo di terra. Con ciò continueranno anche ad essere pedine degli interessi di altri Stati in quell’area, così come già a suo tempo gli Stati arabi per l’U.R.S.S. e Israele per l’Occidente a trazione statunitense. Anche se ormai viene da chiedersi se non sia l’Occidente al servizio degli interessi di Israele laggiù.
Inoltre non bisogna scordare la questione di Gerusalemme, pronta a diventare un detonatore in qualsiasi momento, anche se venisse affidata a un’amministrazione internazionale e “super partes”.
Spiace, ma con i Monoteismi non c’è nulla da fare con le soluzioni politiche tradizionali e guidate dal buon senso.
Non riesco a capire perchè tanti ottuagenari si immaginino Presidenti in Esilio del Comitato Centrale del Partito (in esilio) e quindi si affannino a) a prendere posizione nella prima parte della risoluzione del CC su ‘La situazione attuale e i nostri compiti’ su torti, ragioni e problemi morali allegati
b) a indicare, nella seconda parte della Risoluzione, la soluzione alle contraddizioni presenti e quindi come uscire dal conflitto
Non potrebbero limitarsi a capire e far capire, se hanno gli strumenti, come si è giunti alla situazione e come (gli altri) ne potrebbero uscire?
Tutti che parlano del ’45 e nessuno di Biden e delle sue alleanze militari….