A proposito di Francisco Solano

Recensione di un libro assente

a cura di Franco Tagliafierro

I brani di scrittura saggistico-metaforica che riprodurremo più oltre sono stati estrapolati da un romanzo di Francisco Solano (1952, Burgos, Spagna) intitolato Tracce di nessuno (titolo originale: Rastros de nadie, Ediciones Siruela, 2006). Non servono come assaggio di uno stile che rende incisiva anche la prosa d’arte; non servono per evidenziare la insofferenza dell’autore nei confronti di chi congestiona le librerie con storie intercambiabili; non servono nemmeno come disincantati inviti alla metacritica; servono, invece, come irrinunciabile pretesto per un ripescaggio a sua volta pretestuoso, perché altrimenti non si parlerebbe mai più della “struttura” di Tracce di nessuno, che si sottrasse alle sdolcinate seduzioni del postmodernismo per infilarsi di soppiatto nell’instabile sperimentalismo di fine secolo.

Tracce di nessuno risulta diviso in due parti. La prima è romanzesca come può esserlo la autobiografia di un uomo non insensibile alla specificità della scrittura; la seconda è tendenzialmente saggistica, ma con appigli nella teatralità spicciola. La prima è il racconto di un agonico processo di (auto)occultamento, di una separazione razionale da qualunque contesto, di una pulsione irreversibile verso il non essere. L’uomo in questione non vive per ricevere attestati della sua esistenza, né per farsi riconoscere una identità. Di conseguenza non può mai sentirsi né situarsi nel “qui e ora” sebbene entri in contatto con persone e personaggi e agisca come un individuo cosciente. Scrive puntigliosamente di ciò che pensa, o che vede, o che fa, e si consuma nell’atto stesso dello scrivere, cioè in quella ambigua frattura nella quale la vita si disarticola per dare corso alla germinazione letteraria. Ricorda episodi della propria vita vuota di affetti finché non scopre che lui esiste soltanto nel processo autoconsolatorio della nuda scrittura, ossia in parole e sintassi destinate a perdersi nella insignificanza. Ovviamente il suo nome non figura sulle carte manoscritte abbandonate nell’appartamento in cui ha abitato con una corporeità poco più organica di quella di un fantasma.

La seconda parte di Tracce di nessuno è una fiction costruita per commentare la prima. L’autobiografia anonima di un uomo sparito dalla circolazione diventa così la ragion d’essere della seconda fiction, nella quale il narratore, un ex professore universitario di Teoria della Letteratura, rende noto che una sua ex alunna – ora agente letteraria – e suo marito vogliono cambiare casa. Fra le offerte di una agenzia immobiliare scelgono un appartamento nel quale lei trova in fondo a un armadio una scatola che contiene fogli e quaderni pieni di scrittura. Il topos del manoscritto anonimo ritrovato la entusiasma, ne immagina la pubblicazione con immancabile successo di pubblico, ma prima vuole sentire un parere qualificato sulla sua validità letteraria. Lo chiede al suo ex professore, il quale le restituisce un testo diverso da quello ricevuto in lettura, cioè un testo rivisto, corretto, riscritto, trascritto al computer, e accresciuto. Nella aggiunta si riportano le conversazioni tra lui e lei che vertono sui tentativi di ricostruire la psicologia dell’autore del manoscritto e sulla diversità fra la scrittura di chi scrive per sé stesso e di chi scrive con volontà di pubblicazione. La ex alunna, dopo lo shock per la profanazione dell’originale, giudica favorevolmente la aggiunta del suo ex professore, la quale consiste in un romanzo compiuto in sé stesso, e progetta commercialmente un libro costruito accorpando il manoscritto e la integrazione.

Ciò che non si dice nella fiction aggiunta dall’ex professore al testo del manoscritto è che lui si è sentito riconquistare dalle grazie della sua ex alunna e che per riconquistarla non ha trovato altro mezzo che l’invenzione di una storia non priva di verosimiglianza imperniata sul casuale ritrovamento del manoscritto e sugli incontri che ne derivano. Chi rivela questo aspetto sentimentale della vicenda è il marito della agente, che narra tutto e postilla tutto per filo e per segno in una lettera indirizzata al professore. Rivela che non ci fu alcuna ricerca di appartamento, che il manoscritto fu portato da un ignoto nella agenzia letteraria e che sua moglie lo lesse, lo fece leggere a lui e infine lo passò al professore, che vi aggiunse la sua fiction non solo per assegnargli una paternità, ma anche per riscrivere e rivivere il proprio passato. Sua moglie trovò interessante l’accorpamento delle due fiction e ora si occupa della sua pubblicazione. Il marito definisce il ruolo di ciascuno, e a ciascuno assegna la sua maschera con la quale saranno tutti assorbiti dal silenzio dalla scrittura, perché il romanzo è generatore non di una novità di storia e sentimenti, bensì di una espropriazione del discorso e di una distribuzione delle maschere.

La fiction dell’uomo che vuole essere nessuno viene dunque destrutturata dalla fiction del professore. Entrambe le fiction, una volta affiancate, costituiscono un organismo romanzesco funzionale alla pubblicazione. Senonché interviene la rivelazione contenuta nella lettera del marito della agente, che dovrebbe dare una nuova dimensione strutturale alla prima e alla seconda fiction, ma non la dà. Non la dà perché, stando a ciò che dichiara l’autore stesso, la lettera non verrà mai inviata al professore, e quindi altro non è che la terza fiction, quella che annulla tutte le voci, e che decide la collocazione di Tracce di nessuno nella letteratura che lascia tracce.

 

Sei frammenti di TRACCE DI NESSUNO di Francisco Solano

Tutto ciò che scriviamo è la risonanza di testi sconosciuti o trasformati dalla memoria. Si scrive guardando all’indietro, la scrittura annovera fra sue facoltà quella di essere retrattile. La letteratura non è il rifugio della finzione, essa stessa è finzione. Non costituisce l’energia della immaginazione, dato che proprio le sue procedure sono materia per la finzione. La scrittura è fantasmagorica. L’autore esiste per far sì che non precipitiamo nel buio, e per far sì che, quando si assegna un proprietario alle parole, queste circolino come merce.

Un romanzo, una volta pubblicato, è una merce. Prima non è nulla: è un sogno. La conversione di tale sogno in libro implica la sua trasformazione in oggetto d’uso, con la sua capacità di produrre effetti e la possibilità di essere dimenticato o smarrito, al pari di un accendino o una carta di credito. Una pubblicazione è la somma di oggetti uguali, la sua moltiplicazione dovrebbe suscitare nell’autore un progressivo scoraggiamento. Basa il suo affermarsi su una esclamazione silenziosa che esige tempo e spazio. Spazio nelle librerie, nelle pagine dei supplementi culturali, nelle case, nelle biblioteche, e tempo nella logora soggettività delle persone. Il libro è un elemento di unione fra donne e uomini che si fidano delle parole. I libri si scrivono con la stessa determinazione con cui il comandante di una nave si assume la responsabilità di una lunga traversata. La sua intenzione è quella di tenere la rotta e arrivare al porto di destinazione con il carico in perfetto stato. Si ringrazia per l’entusiastica accoglienza, cominciano le manovre per scaricare la merce.
[Pagg. 136-137 dell’originale]

Ho letto troppi manoscritti e ho udito strombazzare magnifici progetti letterari; il punto di partenza è sempre provocante, però il risultato, in genere, è mediocre: questi tentativi sono perlopiù privi di senso artistico; confondono l’arte della narrazione con l’accumulo di frasi giocose ed espressioni di dubbia ingegnosità. L’arte della scrittura è il passatempo delle menti sterili; nessuno si gioca la vita. Questi autori potrebbero fare gite in barca o percorrere un itinerario di impronte preistoriche; invece, rimangono in casa a raccogliere dall’aria una successione di aneddoti e li fanno passare per esplorazioni dell’esistere. Narrano la storia di un personaggio al quale una avversità impedisce di essere felice accanto a una donna, o l’infortunio professionale di un individuo che, vedendo minacciata la sua qualità di vita, si carica di risentimento contro i suoi contemporanei con una smania di delinquere che non sarà riassorbita nemmeno dal successo. Storie stupide, raccontate mille volte, ripetute fino alla sazietà. Questi autori imbrattano di fango la materia della finzione, e io devo annaspare in quella prosa scivolosa casomai le dita tremino sfiorando la consistenza di una perla.

Leggere è una passione, la luce di chi si è smarrito che determina la rivelazione. Però la legalità e la attualità della parola, la sua tensione di organismo vivo, il verbo che si incarna in sangue, desiderio e rinuncia e tutte le prestazioni brillanti della scrittura, appartengono a epoche remote. Il nostro tempo è refrattario alla fecondazione della parola. Rimane, ciò nonostante, la speranza degli esseri solitari, che accendono una lampada nella notte e vigilano affinché la sterilità non sia assoluta. La rivelazione è stata spazzata via dalla informazione. Quante migliaia, milioni, centinaia di milioni di pagine stampate non sono niente più che il vapore invernale di bocche che respirano, e che non hanno fatto niente altro che respirare? Tuttavia, si conservano i loro pensieri e le loro battute, i loro tremori e le loro fantasie, i loro deliri e le loro vanità: si conservano perché sono stampati e rilegati e sono, tra le infinite variazioni, una variazione dell’articolazione dei segni. Non importa che non valgano nulla; il loro merito affonda le sue radici nell’esistere. E ogni esistenza esige, categoricamente, di essere preservata.
[Pagg. 138-139 dell’originale]

Ho bisogno di una pausa. C’è un’ombra dietro di me. È arrivata con quella impercettibile circospezione che si attribuisce allo spirito; ha infranto qualcosa nell’aria, forse la superficie del silenzio, e ora questa stanza è abitata dalla voce sinuosa di una coscienza che non mi appartiene, che però incombe su di me, e che devo ascoltare affabilmente per evitare i pericoli della chiusura in sé stessi. La tentazione di forzare le parole affinché dimostrino insolite abilità della materia funebre, ossia la competenza per scrivere un romanzo, rischia di essere ritenuto un proposito delirante che potrebbe costarmi il rifiuto sociale o la qualifica di pazzo. La voce si è installata qui per attenuare la mia confusione, e le sue rivelazioni affermano il diritto al dissenso; si agita accanto a me come chi dorme e sogna di cadere in un abisso, e con un colpo di tosse mi avverte che sto sondando un territorio che viene contagiato facilmente dalla stupidità. Mi sconcertano certi scrupoli circa un fatto che conosce bene, dato che è una voce senza corpo, che ha bisogno di articolarsi tramite il mio, e di cui si può dire che non è una voce viva, anzi, che è piuttosto fantasmatica. Tuttavia, non perché è priva di corpo cessa di appartenere alla realtà, come la foglia staccata da una pianta acquatica, che galleggia sola in uno stagno e continua a ricevere il nutrimento dell’acqua, sebbene abbia perso le sue radici. Cosicché questa voce è allo stesso tempo reale e ipotetica, quantunque non sia viva; la sua esistenza dipende dal fatto che io accolga i suoi avvertimenti.
[Pagg. 152-153 dell’originale]

Mi basterà presentare due tipi di scrittori. Uno è il sacerdote che si è preparato servilmente per esercitare il suo ministero, che ha il suo pubblico e la sua parrocchia, ai quali rivela i trucchi retorici del suo mestiere rendendoli partecipi della legalità sociale della sua immaginazione, mediante romanzi che mantengono viva la stabilità gerarchica conferitagli dal possesso di un pulpito, del luogo della parola, dove lui si erge come portatore di una tradizione della quale è la continuazione naturale, mentre gli ascoltatori e i lettori, riconoscenti  per il fatto che vengano inclusi nella memoria collettiva, con l’acquisto dei suoi libri collaborano affinché possano celebrarsi le fertili nozze tra il commercio, di spirito dinamico e imprenditoriale, e la anemica e inefficace letteratura, figlia sventurata della sofistica ostile a tutte le religioni. Questo scrittore lo si riconosce dalla sua predisposizione al successo, ed è una persona esperta in strategie della seduzione. Generalmente realizza le proprie ambizioni, diventa un modello con cui identificarsi e le istituzioni lo ricompensano aggiungendo il suo nome nei manuali. Si può dire di lui che non muore mai; finché esisterà uno scolaro, il suo nome è una eco che risuona nelle aule e per i viali alberati – quei passeggiatori solitari con un libro in mano – e si riposa soddisfatto, mentre si fa sera, nella poltrona più comoda di qualunque salotto famigliare.

L’altro scrittore a cui voglio riferirmi si definisce come negazione e opposizione al precedente, e la sua qualità più caratterizzante consiste nell’occupare un futuro che non arriva mai. L’epoca, le condizioni obiettive che nutrono il sacerdote con una luce di autocelebrazione, sbiadiscono la figura dell’altro scrittore e lo relegano nelle zone più nebulose del quadro, spesso anche fuori dal quadro, là dove nessuno fa caso al lavoro anonimo del tempo. Il tempo, in effetti, non gli è favorevole, ed è probabile che qualcosa di oscuro che non può evitare, e a cui fatalmente si consegna, lo guidi verso l’autodistruzione. Il suo fallimento possiede l’energia della coscienza stritolata, e questa coscienza è l’unico testimone su cui può contare per concedersi un fondamento di realtà. E sebbene questo non sia sufficiente per farsi notare – è ancora inedito, sconosciuto – il fallimento gli serve di consolazione e di stimolo a non arrendersi davanti ai suoi contemporanei, che lui si rappresenta come cospiratori a suo danno, mentre vanno divulgando la credenza che lui non è mai esistito, che mai sarebbe potuto esistere.
[Pagg. 153-155 dell’originale]

Oggi è assolutamente necessario, per poter parlare, disporre di un luogo per la voce. In una geografia attraversata da strade –  viali tagliafuoco, binari del treno, autostrade, rotte marittime e aeree – che portano da tutte le parti, la coscienza del transito, ossia il disorientamento per  il fatto di essere mobilitato dalla superstizione del futuro, è così potente, così abietta, che solo quando ci fermiamo, per esempio all’ombra di una acacia, nell’angolo dove si contemplano, in un fondovalle, i tetti di un paese abbandonato, o quando ci trattiene, all’improvviso, un semaforo rosso che ci obbliga per un attimo a percepire, sul marciapiede opposto, uomini e donne che riflettono sui loro volti la inanità statistica del silenzio, soltanto allora ci rendiamo conto che ci distingue unicamente la voce che trasferiamo, come se fosse un segreto, da un posto all’altro, e ciò che questa voce possa dire sulla nostra esperienza del mondo, se incontriamo, concretamente, un luogo dove esprimerci, un uditorio già attento che tace per ascoltare, cioè tempo consacrato al fervore della parola. Esiste oggi questo luogo? Permettetemi di negarlo. Invece esiste il suo vuoto. O, per essere più preciso, sebbene sia molto frequentato è un luogo vuoto, come uno stadio di calcio prima che i giocatori entrino in campo. Nella sua qualità di critico lei dispone di uno spazio per la diffusone (riviste letterarie, supplementi di giornali); mentre io, a tutti gli effetti, non ho alcun potere, e il fatto stesso che mi metta a scrivere è, nel mio caso, una occupazione piuttosto stravagante, nella sua prima accezione, cioè “fuori dalle regole o dal corrente modo di operare”, che di sicuro non le frutterà altra deferenza che una attenzione, lo comprendo, particolarmente distratta. [Pagg. 166-167 dell’originale]

La scrittura è una inseminazione di solitudine; lo scrivere determina una energica domanda di concentrazione nei propri pensieri, una allucinazione dalla quale si è indotti a credere che viviamo in un mondo disabitato, dove ci sono soltanto parole e silenzio. Tuttavia, nello stesso tempo, le parole si raccolgono e vibrano nella concavità della bocca, poi si ripercuotono in qualche zona del cervello, e inaspettatamente la realtà si ricostruisce identica a ricordo che se ne ha: indescrivibile, sequenziale, banale. La realtà svanisce e riappare in una pausa prolungata fra due pulsazioni. Posso chiederle, signore, se ha vissuto qualche volta in una casa frequentata dai piccioni? Quanta agonia nell’alba. Mi succede tutti i giorni. Nella doccia, lo strepito in sordina dell’acqua si mescola con il vapore, e la nube si ingrossa e si scioglie secondo gli stimoli del tubare dei piccioni; il loro tubare dovrebbe essere un incoraggiamento, uno scongiuro, una seduzione; invece, è come se l’aria soffrisse di asma; il corpo igienico che esce dalla doccia ha già assimilato, prima di iniziare una qualsiasi attività, la certezza della decomposizione. E tutto il nostro sforzo di onesti lavoratori è destinato a far sì che non ci si spappoli il giorno tra le mani. E così la nostra vita se ne va.
[Pag. 168 dell’originale]

[Le pagg. 166-168 sono estrapolate dalla lettera che il marito della agente scrive all’ex professore e che non spedirà mai.]

Traduzione di Franco Tagliafierro

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