Intentio recta

Angelus Novus, 1920 – Paul Klee


La tua preghiera è degna di molta loda

Dante, Inferno, Canto XXVI

di Ezio Partesana

Molti sono frastornati dalle notizie torve che arrivano dalla Palestina; non tutti in verità ché numerosi sapevano e hanno scelto, ma qualcuno sì. E nella posizione servile di chi ascolta e non fa o non può fare nulla, si discute delle ragioni degli dèi nazionali e dei loro imperi o dei diavoli del capitale; si fanno le scarpe, insomma, ma anche i coperchi agli uni e agli altri.
È probabile che gli interessi materiali e diplomatici di alcune potenze regionali e mondiali rendano conto di certe benevolenze o odii, così come i sentimenti di giustizia e libertà animino le persone che sono scese, numerose, in piazza per chiedere la pace. Con qualche silenzio o timidezza da attori locali, Anp, Egitto e Giordania in primo luogo, che lasciano domande alle quali è difficile rispondere.
È impossibile che la dirigenza di Hamas non avesse previsto la reazione di Israele. La quantità di vittime e il numero degli ostaggi non lasciavano spazio a alcuna mediazione che non fosse la resa (impensabile) o l’attacco violento. Questo significa che il progetto politico di Hamas (la sua “intentio recta” come la chiama Cacciari in una recente intervista, citando Tommaso d’Aquino) cercava o la guerra totale contro Israele, in alleanza con Libano e Iran, o lo scontro militare con le Forze di difesa israeliane. In entrambi i casi è un attacco suicida: non si spera di sopravvivere, solo di recare il maggior nocumento possibile al nemico e, sì, devo aggiungere, senza preoccuparsi troppo del popolo palestinese.
In un certo senso la mossa ha funzionato, e Israele è già stato sconfitto; il paese era sull’orlo di uno scontro civile chiaro forte, e adesso è disteso tra un’operazione militare crudelissima, oltre che costosa, e l’opinione del mondo. Ma anche Hamas non ha vie d’uscita (a parte i capi ultimi che sono, tutti, in esilio e ammesso che il Mossad non li raggiunga) che non sia morire là dove aveva regnato per un lungo tempo. Al momento non esiste alcun compromesso che potrebbe portare a una tregua, nemmeno ragioni di decenza umana.
È difficile comprendere la logica di un attentato suicida che è altra cosa dal sacrificio personale per salvare altri, non rivelare informazioni, proteggere la retroguardia, mantenere in funzione gli ospedali. Il male subìto e la disperazione sono giustificazioni psicologiche, non politiche, e se spiegano, ammesso che lo facciano, il movente, nulla dicono sul fine. A meno di avere una prospettiva storica secolare dove ogni sconfitta inferta al nemico (e questa, lo ripeto, è una sconfitta per Israele), non importa a quale prezzo, è un granello della sabbia della sua tomba.
Questa festa è senza invitati ma con molti camerieri.

5 pensieri su “Intentio recta

  1. “A meno di avere una prospettiva storica secolare dove ogni sconfitta inferta al nemico (e questa, lo ripeto, è una sconfitta per Israele), non importa a quale prezzo, è un granello della sabbia della sua tomba.”
    Non necessariamente “secolare”, anche pluridecennale è una meta. Il popolo palestinese, così ho letto, non aveva una identità nazionale-politica fino a poco fa (come l’Italia era solo una espressione geografica e la spedizione in Crimea voluta da Cavour e i Savoia ha fatto di questi i leader dell’unità). Ora quella identità nazionale e politica la ha conquistata: per il medioriente e l’occidente. Questo è un risultato di prim’ordine, di cui Hamas può intestarsi, che poteva valere la pena del sacrificio.

  2. SEGNALAZIONE

    Hier ist kein warum
    Vi chiedo scusa se posso apparirvi melodrammatico, è forse una questione di temperamento, ma sono giunto alla conclusione che siamo di fronte alla situazione che definirà le nostre vite, la traccia etica e intellettuale che lasceremo.
    I nostri nipoti (se avranno voglia di occuparsi di noi) non si chiederanno cosa abbiamo fatto nel 1968, o come abbiamo reagito davanti agli attentati fascisti degli anni 80, o al rapimento di Aldo Moro.
    Si chiederanno invece: come si è comportata mia nonna, cosa ha detto e cosa ha fatto mio nonno, quando si è reso conto del fatto che in un posto che si chiamava GAZA era in corso un genocidio non dissimile da quelli che dal 1942 in poi i nazisti condussero contro gli ebrei, i rom, gli omosessuali, i comunisti, per citare soltanto uno degli innumerevoli eccidi che hanno segnato la storia umana?
    Io descrivo a me stesso la situazione come se fossimo in un romanzo di Isaac Bashevis Singer che si chiama Meshugah: negli anni quaranta un gruppo di intellettuali si incontra per parlare del più e del meno, e viene a conoscenza (una conoscenza frammentaria, contraddittoria) del fatto che un milione di persone sono rinchiuse dentro un campo in un villaggio polacco, guardati da soldati armati, affamati, costretti a bere acqua marcia, o a succhiare per la sete un cubetto di ghiaccio (come racconta Primo Levi). Mentre sono chiusi lì dentro vengono di tanto in tanto picchiati, trascinati fuori dalle loro baracche, malmenati, minacciati di morte, torturati.
    E ogni giorno cinquanta o cento o mille di loro vengono uccisi.
    Non importa che questi internati siano democratici o oscurantisti, socialisti del Bund o fanatici ortodossi lettori della Torah. Non importa niente se sono buoni o cattivi, sono quello che Agamben chiama la nuda vita. Corpi indifesi contro un nemico che li vuole sterminare ed è super-armato.
    Naturalmente mentre scrivo queste righe sono consapevole del fatto che all’inizio del genocidio in corso, c’è un pogrom, un’azione di violenza atroce. Il 7 ottobre militanti di Hamas armati hanno superato la frontiera invalicabile e fino a quel momento invalicata, e hanno aggredito, incendiato, sparato su vecchi e bambini inermi. Hanno sequestrato donne e uomini, hanno separato il fratello dalla sorella, l’amante dall’amante, li hanno trascinati separatamente su dei camion come fossero bestiame.
    Hanno ucciso millequattrocento persone che stavano ballando, o dormendo o scappando.
    Hanno messo in scena un pogrom come quelli che i contadini polacchi per secoli hanno scatenato contro gli ebrei, un rastrellamento come quelli che i nazisti tedeschi conducevano nei quartieri abitati dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
    Come posso dunque oggi dire che Israele porta intera la responsabilità dell’eccidio del 7 ottobre, e la responsabilità del genocidio iniziato subito dopo?
    Posso dirlo perché ho cercato di immedesimarmi in un ragazzo o una ragazza che nel 2018 ha partecipato alla Grande Marcia per il Ritorno.
    In quei giorni della primavera 2018 ricordo di avere seguito quotidianamente gli eventi: migliaia di giovani palestinesi, chiamati da un giovane giornalista attivista e poeta di nome Ahmed Abu Artema marciarono disarmati verso le recinzioni che impediscono agli abitanti della striscia di andare nei territori che prima del 1948 appartenevano alle loro famiglie.
    Per molte settimane ogni venerdì marciavano verso i fili spinati, lanciavano sassi nel vuoto, gridavano, cantavano alcuni bruciavano copertoni, altri perfino lanciarono bottiglie incendiarie che davano fuoco alle sterpi.
    La marcia coincise con il giorno in cui il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – noto come suprematista e razzista, rappresentante dell’America del Ku Klux Klan – dichiarò che aveva deciso di spostare l’ambasciata del suo paese a Gerusalemme, in spregio alla richiesta di tutti i paesi arabi. La marcia coincise inoltre con il settantesimo anniversario della Nakhba, quando le truppe israeliane uccisero in un giorno solo 57 palestinesi e deportarono migliaia di persone in un atto di pulizia etnica.
    Mentre migliaia di persone stavano in piedi davanti alle invalicabili recinzioni i soldati israeliani, acquartierati in fortificazioni protette, spararono proiettili di vario calibro e di vario genere, compresi proiettili vietati dalle convenzioni internazionali perché esplodono nella carne della persona colpita. Secondo il rapporto di Amnesty International
    https://www.amnesty.org/…/10/gaza-great-march-of-return/
    tre paramedici furono uccisi perché si trovavano sul posto con i loro grembiuli bianchi per curare i feriti, tra loro la ventunenne Razan al Najjar colpita al petto da un cecchino israeliano pur essendo chiaramente identificabile come infermiera per i vestiti che indossava.
    Trentun bambini vennero uccisi nei sei mesi di svolgimento delle marce settimanali.
    Due giornalisti furono uccisi mentre riprendevano scene della marcia.
    Secondo l’organizzazione ebraica B’tselem durante le marce pacifiche del 2018 furono uccisi 290 palestinesi.
    Gli israeliani uccisi furono zero.
    Nessun israeliano fu ucciso o ferito.
    https://www.btselem.org/about_btselem
    Mi sono chiesto: se io avessi partecipato alla grande marcia del Ritorno nella primavera del 2018 avrei potuto continuare a sopravvivere miseramente senza poter fare nulla se non guardare gli uccelli del cielo e attendere una pallottola israeliana, oppure avrei detto a me stesso: andiamo a compiere l’atto più atroce che si possa immaginare perché tutti i morti viventi che ci guardano in giro per il mondo e non fanno niente, possano finalmente inorridire?
    Avrei detto a me stesso: andiamo a uccidere e morire.
    Perché la morte è meglio della vita che i nostri torturatori ci hanno consegnato.
    Ho riflettuto molto, ho letto molto, ho provato molto dolore e molta vergogna, ma ora ve lo debbo dire, perché non posso nascondervi quello che sento.
    Sono giunto alla conclusione intellettuale, emotiva, storica, filosofica e personale che
    GAZA E’ COME AUSCHWITZ.
    E non posso pensare di condividere nulla – d’ora in avanti, con chiunque sta dalla parte delle guardie armate che ogni giorno sorvegliano le persone che stanno chiuse dentro un recinto sul quale c’è scritto: Arbeit Macht Frei.
    Franco Berardi bifo

    (DA https://www.facebook.com/franberardi/posts/pfbid0DQPvpLPNzibNuueMkCsfjhZQTCVmJrZ759wCaXQvSmtU7jyHoNisUCWAnvW3EL46l)

  3. Il ben scritto articolo di Bifo non contiene però alcuna analisi materialista (né vedo cosa c’entri con il mio intervento, ma questo è un problema mio). È condotto dalle emozioni – che molti di noi credo condivideranno – di questi giorni: l’attacco di Hamas, la decisione israeliana per uno scontro definitivo.
    È lo stesso Bifo a dichiarare che si tratta di una reazione personale (certo, di un compagno colto e attento) alla guerra, con qualche citazione, da Fortini (“i nostri nipoti si chiederanno”) e Singer (“Meshuga”, yiddish per pazzo, stolto). Non ci sono nel testo ragioni (forse non ce ne sono in generale) e la conclusione, non “nuovissima” a dire il vero, è che Gaza oggi è come Auschwitz ottanta anni or sono.
    Si poteva scrivere in cinque righe.
    Oltre la pietà però, non c’è niente altro; Bifo dovrebbe ben sapere che ogni decisione politica va (andrebbe) spiegata, e che il dolore personale, intimo e sincero, non spiega nulla.

  4. @ Partesana
    L’articolo di Berardi (Bifo) è una “Segnalazione” sul tema di questi giorni. L’ho messa sotto il tuo articolo, perché fino ai ieri sera era il più recente fra quelli che la trattavano.

    NOTA DEL 3 NOVEMBRE 2023 DI E.A.
    Per evitare incomprensioni, da oggi pubblicherò le SEGNALAZIONI non esplicitamente riferibili agli articoli pubblicati nella colonna verticale destra della Home Page (sotto il riquadro ‘Articoli recenti’)

  5. IPOTESI DA CONFRONTARE:

    1. Ezio Partesana

    “È impossibile che la dirigenza di Hamas non avesse previsto la reazione di Israele. La quantità di vittime e il numero degli ostaggi non lasciavano spazio a alcuna mediazione che non fosse la resa (impensabile) o l’attacco violento. Questo significa che il progetto politico di Hamas (la sua “intentio recta” come la chiama Cacciari in una recente intervista, citando Tommaso d’Aquino) cercava o la guerra totale contro Israele, in alleanza con Libano e Iran, o lo scontro militare con le Forze di difesa israeliane. In entrambi i casi è un attacco suicida: non si spera di sopravvivere, solo di recare il maggior nocumento possibile al nemico e, sì, devo aggiungere, senza preoccuparsi troppo del popolo palestinese.”

    2. Brunello Mantelli
    ( sua pagina FB: https://www.facebook.com/brunello.mantelli/posts/pfbid0u61E5cjxJCWzsq8rDLmBnukrQyL72gxiuw8gPeG86aguy4YqapLGBCq6uW9D154Ul)

    Perplessità. E domande
    Sorprende che in tanto clamore ed in tanti interventi, giornalistici e non, sulla guerra in corso tra le IDF e Hamas (con gruppi collaterali attorno) nessuno si sia posto il seguente problema: quando il gruppo dirigente di Hamas ha avviato l’organizzazione del pogrom poi svoltosi il 7 ottobre scorso, organizzazione che ha richiesto parecchi mesi di preparazione, addestramento, accumulo di armi e così via, che tipo di strategia e di tattica aveva in mente?
    Va da sé che il gruppo dirigente di Hamas sapeva di star pianificando un attacco che non avrebbe colpito alcun pilastro dell’apparato difensivo israeliano, tanto è vero che obiettivo prioritario dell’attacco non sono state le strutture militari delle IDF, bensì per la quasi totalità installazioni civili, da civili abitate. Civili da uccidere in prevalenza, ed in parte da rapire, trasformandoli in ostaggi (pratica contraria al diritto internazionale umanitario, per inciso) Una via di mezzo tra un pogrom e un’incursione barbarica.
    Altrettanto evidente che il gruppo dirigente di Hamas fosse ben consapevole che le IDF e lo Stato di Israele avrebbero reagito con estrema durezza, sia politica, sia, soprattutto militare (come qualunque Stato sottoposto ad un attacco militare terroristico da parte di una entità nel cui programma stia la distruzione dello Stato aggredito).
    Qual era allora, nel piano del gruppo dirigente di Hamas, la vittoria, l’obiettivo che si voleva conseguire, posto che nessun gruppo dirigente di una struttura politicomilitare avvia un’offensiva armata senza avere messo bene a fuoco gli obiettivi che intende raggiungere?
    A mio parere (ovviamente, in assenza di documentazione disponibile, non si può andare oltre la formulazione di ipotesi), l’obiettivo strategico di Hamas era reggere ad una pesante controffensiva delle IDF mantenendo intatto il grosso della propria capacità militare e mantenendo il controllo (dal 2007 gestito con metodi dittatoriali) sulla popolazione civile di Gaza, dimostrando quindi che Israele può duramente essere colpita, certo a prezzo di far pagare un prezzo assai alto ai civili gazawi (cosa di cui alla direzione di Hamas poco o nulla importa) ma senza correre il rischio di essere sbaragliati.
    Un obiettivo quale quello ora delineato per essere raggiunto richiedeva certamente l’accumulo di armi, munizioni, carburante, riserve di cibo sufficienti per gli effettivi che compongono le milizie armate di Hamas (ben foraggiate dal Qatar!), pari, si dice, a 40.000 soldati (la forza di due divisioni occidentali a ranghi compatti, in altri termini), ma aveva la necessità di contare su una potente quinta colonna: l’opinione pubblica internazionale, in parte significativa pronta a invocare un “cessate il fuoco” che di fatto sancirebbe la vittoria strategica di Hamas.
    Chi, in buona o mala fede, chiede un “cessate il fuoco” a Gaza senza aggiungervi: “e resa incondizionata di Hamas” è di fatto un alleato di Hamas e, conseguentemente, un nemico dei civili gazawi.

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