Alberto Magnaghi e la cultura territorialista

Alberto Magnaghi

di Sergio De La Pierre*

Il 21 settembre 2023 ci ha lasciato Alberto Magnaghi, il nostro Presidente, dopo una lunga malattia che non gli ha impedito di essere, fino agli ultimi giorni, attivo con la sua grande tenacia nelle tante iniziative da lui promosse dentro e attorno alla SdT: l’ultima delle quali è stata il convegno “Buone pratiche territoriali nell’emergenza ecologica. Una prospettiva bioregionale”, che si è tenuto a Roma il 6-8 ottobre, in un clima di tristezza e insieme di orgoglio per aver portato a termine questo impegno fortemente voluto da Alberto.

Il primo ricordo personale di un incontro con Alberto Magnaghi risale al 1987, quando a un comune amico avevo raccontato delle mie ricerche – da una decina d’anni – sulle “minoranze linguistiche”, che allora stavano conoscendo in tutta Europa quello che fu chiamato il loro “revival etnico”. Alberto mi telefonò dimostrandosi molto interessato a un tema apparentemente così lontano da tutti i canoni usuali della sinistra. Dopo molti anni di collaborazione con lui e la sua “scuola territorialista” ho compreso il significato di questo suo interesse, e insieme della “strana” fascinazione che quelle “nuove” realtà esercitavano su di me: i movimenti di rinascita culturale, sociale e linguistica ad ampio raggio che caratterizzavano quei territori (io mi sono occupato in particolare degli occitani di Francia e del Piemonte) avevano rappresentato, fin dagli anni Settanta, un fenomeno inatteso nel mondo “sviluppato”, il quale però stava conoscendo i primi sintomi della “globalizzazione post-fordista”; e così potevano essere interpretati come una sorta di avanguardia che rispondeva a un bisogno crescente di riappropriarsi di un proprio territorio, al di là delle differenze sociali e “di classe”. Alberto mi ha fatto capire, in fondo, che il mio interesse per quei movimenti (certo assai variegati al loro interno), andava crescendo man mano che essi dalle originarie “rivendicazioni linguistiche” si andranno impegnando nella rigenerazione complessiva dei loro luoghi di radicamento culturale e di memoria storica[1].

Questo ricordo mi permette di introdurre alcuni concetti chiave dell’amplissimo lavoro di azione e ricerca sociale che ha punteggiato la vita di Alberto Magnaghi, il cui itinerario intellettuale è ancora ovviamente tutto da ricostruire. Alberto infatti lo ricorderò, tra le altre cose, come un grande creatore di contaminazioni culturali e disciplinari, ma anche di linguaggi, immagini, concetti, categorie di pensiero e analitiche di cui v’è traccia nel suo ultimo libro Il principio territoriale (il suo testamento intellettuale), che non a caso inizia con un “dizionario territorialista”, che in gran parte è opera sua: Spazio e Despazializzazione, Territorio e Territorializzazione /Deterritorializzazione, Patrimonio territoriale. Luogo e Coscienza di luogo, Paesaggio, Abitanti e Abitare. Ecoterritorialismo… (ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri: Progetto locale, Autogoverno. Autosostenibilità, Esodo e Contro-esodo, Bioregione urbana, Self-reliance, Statuto dei luoghi, Comunità territoriale…).

Ma dovendo tener conto dei limiti di uno scritto come questo, ancora peraltro segnato da un accavallarsi di ricordi e sentimenti, mi sono chiesto quali delle idee di Magnaghi forse mi hanno maggiormente influenzato, magari perché più vicine al mio sentire e alla mia formazione di stampo sociologico. Su due di queste idee si è soffermata la mia riflessione: le chiamerei il “principio della relazionalità creativa” e il “principio dell’attivismo progettuale”.

Già nella stessa definizione più “scientifica” di territorio, Alberto Magnaghi mette in evidenza il carattere fondativo di un “principio dialogico”:

Il territorio è il prodotto storico dei processi di coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente, natura e cultura e, quindi, come esito della trasformazione dell’ambiente a opera di successivi e stratificati cicli di civilizzazione (Il progetto locale. ed. 2000).

Ma Magnaghi, amante delle contaminazioni anche tra linguaggi e stili espressivi, ha saputo dare del territorio anche una definizione “calda”, al limite di una prosa scientifica che ha forti tratti di “poesia scientifica”:

Il territorio è un’opera d’arte: forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia espresso. A differenza delle molte opere artistiche (in pittura, in scultura, in architettura) o tecniche che sono prodotte dall’uomo plasmando materia inanimata, il territorio è prodotto attraverso un dialogo, una relazione fra entità viventi, l’uomo stesso e la natura, nel tempo lungo della storia.  un’opera corale, coevolutiva, che cresce nel tempo. Il territorio è generato da un atto d’amore […]. Il territorio nasce dalla fecondazione della natura da parte della cultura (Il progetto locale, ed. 2010).

Definizioni che permettono di comprendere come questa idea di territorio come frutto di un atto generativo faccia considerare superate sia la visione antropocentrica /funzionalista /prometeica dell’urbanistica e della pianificazione che riduce il territorio a “oggetto” inanimato esterno all’agire umano, sia l’ambientalismo che chiamerei “naturista”, che ipostatizzando la “salvaguardia della natura” rischia di espungere la presenza umana da un Pianeta il quale ha in realtà un gran bisogno non di un’umanità annullata, bensì di un’umanità rieducata…

Questo principio di “relazionalità creativa” nell’opera di Magnaghi si manifesta anche altrove, come segno del suo grande amore per il lavoro “cooperativo” nella costruzione del territorio. Come lui stesso diceva nell’intervista filmata L’urbanistica italiana si racconta (2018, cfr. sito della SdT), lui non ha mai potuto “fare solo l’urbanista”, e nei “pochi” progetti cui ha lavorato (rinascita della Val Bormida, ricerca lombarda sui bacini fluviali del Lambro-Seveso-Olona, mappe di comunità per il “Piano strutturale” del Comune di Montespertoli (Fi), Piana di Firenze, legge toscana sulla Partecipazione, Piano paesaggistico della Puglia, Parco agricolo in riva sinistra d’Arno – i suoi progetti non sono poi stati tanto “pochi”) non ha potuto non metterci dentro le sue tante competenze (pittura, disegno, analisi del patrimonio territoriale), ma soprattutto l’elemento essenziale della presenza partecipativa degli stessi abitanti (“la partecipazione non è altro che il processo di crescita della coscienza di luogo… Quando in Puglia, durante i lavori per il PPTR, abbiamo sottoposto agli abitanti di Neviano 4 unità di paesaggio, loro ne hanno individuato ben 40!”).

E oltre all’approccio multi-attoriale, anche quello pluridisciplinare era quasi un’idea fissa di Alberto, la quale gli ha permesso di mettere in piedi moltissimi gruppi di lavoro anche a livello accademico – con esponenti di discipline “tecniche” e umanistiche -, e ciò è dimostrato dai tanti libri collettanei da lui curati, certo più numerosi di quelli firmati da lui solo. La costruzione progressiva di una “scienza del territorio” in senso multi- e trans-disciplinare è alla base della pubblicazione ormai decennale della rivista “Scienze del Territorio” e certamente del lavoro “corale” da lui curato personalmente – insieme a Ottavio Marzocca – per l’ultimo testo di cui lui ha visto la pubblicazione, Ecoterritorialismo (2023).

L’“attivismo progettuale” per Alberto Magnaghi non può ovviamente prescindere dalla relazionalità creativa. Tra i criteri che lui ci aveva suggerito come “griglia interpretativa” degli interventi degli esponenti delle “buone pratiche” nell’ultimo Convegno di ottobre 2023 c’era, oltre alla presenza di un’analisi del patrimonio territoriale e di elementi di autogoverno, anche l’esistenza di una visione progettuale “integrata”, multisettoriale nei percorsi di rinascita territoriale locale. Questa acquisizione, pur da sempre presente, è stata da lui particolarmente esplicitata nel suo ultimo libro Il principio territoriale. Una progettualità “relazionale”, che sappia mettere insieme le componenti sociale, ambientale, culturale, di governance, la coscienza di luogo e la memoria storica, non può che sostanziare una mobilitazione “progettuale attiva” di tutte le componenti di una costellazione sociale, oltre che tutte le possibili varianti disciplinari. E ciò sarà possibile quanto più sarà conosciuta e riconosciuta la profondità del patrimonio storico.

Questa impostazione mi pare emerga ad esempio in un commento (“Epilogo”) scritto da Alberto Magnaghi a conclusione del testo Il valore della terra (a cura di C. Perrone e I. Zetti). Nel criticare la visione puramente conservativa di un ambientalismo proteso a edulcorare le storture dello “sviluppo” economicista predominante ma che cerca solo di porre limiti e “correttivi” agli eccessi di “carico” che tale sviluppo impone ai territori, Magnaghi afferma che “il territorio non è un asino”, che non basta porsi solo l’obiettivo di evitare un peso eccessivo che lo faccia stramazzare in terra; e che, dunque, occorre “passare dalla cultura correttiva del limite alla cultura positiva della rigenerazione che, nel richiedere un cambiamento strategico dei modelli insediativi, comporta necessariamente il recuperare una relazione sinergica fra la società insediata e il suo territorio”.

Dunque, nella visione di Magnaghi, c’è una idea di spinta verso una civilizzazione “altra”, in una prospettiva di nuovo umanesimo che non nega certo le storture, i conflitti, le “ecocatastrofi” prodotte da uno sviluppo distruttivo di territori, società, comunità… ma senza mai abbandonare un suo “ottimismo antropologico” che traspare nella cura puntigliosa di ricerca e individuazione delle tante tracce di riqualificazione, anche le più piccole, dentro le pieghe di esperienze e aggregati socio-territoriali anche talvolta “degradati”. Di qui quella “cultura positiva della rigenerazione” che non solo egli ritiene possibile, ma anche rilevabile nella miriade di esperienze, progetti, territori, soggettività emergenti (nuovi cittadini, nuovi agricoltori, nuovi montanari…) che lui voleva fossero raccolti negli Osservatori delle buone pratiche della SdT diffusi sul territorio, per la costruzione di una “contro-geografia” dell’Italia che vedeva come compito prioritario della nostra associazione.

Ma anche altri concetti teorici, ricorrenti nelle elaborazioni di Alberto Magnaghi, testimoniano di questa sua tensione verso una progettualità forte e creativa, che è anche sinonimo di soggettività sociali intrise di una profonda “coscienza di luogo”, che è anche coscienza di futuro: autosostenibilità, territorio vivente, valorizzazione di associazioni, cooperative di comunità, istituti di democrazia partecipativa e deliberativa, in una parola autogoverno come progetto che sfida le istituzioni ufficiali (spesso anche locali) sempre più lontane dalla ricca fioritura – tanto più ricca quanto meno viene “vista” – di bisogni, progetti, realizzazioni, visioni di futuro che stanno caratterizzando configurazioni territoriali sempre più numerose, e non solo in Italia.

Una sfida, quella di Alberto, che si è spinta sino a ipotizzare esperienze e progetti anche a scala più vasta (la “bioregione urbana”), come riflesso del carattere sovralocale di quel turbocapitalismo che sta colpendo il mondo con le sue ecocatastrofi, oggi sotto gli occhi di tutti, e alle quali la risposta non può più essere solo locale.

La sfida lanciata da Alberto Magnaghi, il cui pensiero, la cui opera contengono certo problemi e riflessioni da sviluppare e approfondire pur nel vuoto nella sua assenza (sopra tutti direi i temi dell’autogoverno, della bioregione, del rendere più efficace l’opera della sua, della nostra associazione SdT come “osservatrice” e “rielaboratrice” delle tantissime esperienze concrete dentro le quali siamo immersi), nasce pur sempre, mi pare, da una sorta di “priorità”, di afflato esistenziale che forse è stato il suo insegnamento, il suo lascito più profondo: non dimenticate l’utopia, perché essa vive dentro di noi certo, ma anche dentro le realtà concrete, quelle utopie concrete che per essere viste – come mi disse una volta – richiedono soltanto gli occhiali adatti.

Nota

[1] Nel Convegno di Roma del 6-8 ottobre questo tipo di esperienza era rappresentata dal “caso” do Ostana, Comune occitano piemontese ormai noto per la sua splendida esperienza di rinascita e neo-popolamento montano.

Alberto Magnaghi, Paesaggio, disegno a china

* Sergio De La Pierre nato a Caluso, in provincia di Torino, è stato insegnante di Discipline giuridiche ed economiche presso Istituti secondari di Milano e docente di Sociologia generale presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e di Sociologia urbana presso la Scuola di Empoli di Pianificazione dell’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni: Per una sociologia del progetto , Clup, Milano 2004, e Il racconto di Nonantola. Memoria storica e creatività sociale in una comunità del Modenese, Unicopli 2004.  Fa  parte del Consiglio direttivo della Società dei territorialisti/e.

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