L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

di Alessandro Le Goff

I brani qui pubblicati sono tratti da un’accurata e ben documentata tesina di maturità  di Alessandro Le Goff, uno studente svizzero figlio di immigrati (padre francese e  madre italiana). In essa ha trattato vari aspetti dell’emigrazione italiana in Svizzera  dal dopoguerra agli anni ’80 del Novecento: condizioni di vita e di lavoro, la fatica del viaggio, le difficoltà di integrazione, la costrizione delle rigide regole di ingaggio, specie degli stagionali, la condizione di clandestinità in cui erano tenuti i bambini dei lavoratori immigrati. Sono temi ben approfonditi dalla più recente storiaografia sulle migrazioni, ma  è importante vedere come  sono accolti e  rimodulati in un linguaggio chiaro e puntuale da un giovane che se ne serve per chiarire il suo passato familiare e la propria identità in costruzione. E anche i possibili legami (nonché le differenze) con le nuove migrazioni intercontinentali. [E.A.]

1. Modalità, condizioni e durata del viaggio

Gli emigranti italiani raggiungevano la Svizzera in diversi modi. Alcuni venivano legalmente altri illegalmente, la maggior parte di loro viaggiava in treno, alcuni in macchina o a piedi. I percorsi migratori degli italiani erano tutti diversi l’uno dall’altro. L’unica cosa che li univa tutti era la difficoltà del viaggio.

Diversi migranti arrivavano in Svizzera clandestinamente, passavano la frontiera attraverso le Alpi dove nessuno poteva vederli. A volte, addirittura, camminavano nella neve fino alle ginocchia, con il freddo glaciale e la paura di morire, ma erano determinati a venire in Svizzera per trovare lavoro.

La maggior parte dei migranti veniva in Svizzera legalmente, il che non era tanto più facile. Alla frontiera c’era la cosiddetta “visita medica”, e se gli svizzeri avessero trovato qualcosa di patologico, il migrante sarebbe stato costretto a fare il viaggio di ritorno e ritornare a casa sua.

Giuseppe Rigoni, giovane Vicentino che emigra in Svizzera a 17 anni nel 1958, racconta il suo viaggio da Vicenza a Soletta e tutte le sue vicissitudini. Risulta chiaro che il giovane è già spaesato a partire da Milano, dove si rende conto di non avere il biglietto giusto, viene fatto scendere dal treno, si addormenta in stazione, viene spaventato da un paio di delinquenti che vogliono rubargli la valigia, non ha un soldo per mangiare e, sebbene abbia tentato di ritornare indietro, si decide comunque ad imbarcare per Chiasso, dove lo aspetta la visita medica. Durante tutta la disavventura incontra solo incomprensione e cattiveria da parte di controllori e addetti della stazione: “I treni non aspettano gli imbecilli di nessuna nazionalità, mi disse un prepotente alla stazione”.

 

2. La visita medica alle frontiere

La visita medica alla frontiera era qualcosa di molto complicato da vivere per gli italiani che arrivavano in Svizzera. Il fatto di separare gli uomini dalle donne e di costringerli a mettersi completamente nudi faceva ricordare a molti di loro il metodo dei nazisti per mandare gli ebrei nelle camere a gas.

Una volta scesi dal treno alla frontiera, gli italiani erano intercettati e diretti verso la stanza dove venivano sottoposti al controllo medico, alla ricerca soprattutto di malattie polmonari contagiose come la tubercolosi. La stanza era affollata da migranti provenienti da tutte le regioni d’Italia. Gli svizzeri separavano gli uomini dalle donne e facevano spogliare completamente tutti per la visita di rito, i raggi ai polmoni e altri controlli. I migranti poi dovevano attendere ore e ore prima di essere rilasciati con il permesso o no di proseguire il loro viaggio.

Giuseppe Rigoni racconta che “Erano ormai arrivate le due di notte, mentre stavo lì impalato con il freddo che mi assaliva, quando all’improvviso si fece strada un pensiero nella mia mente, che già qualche ora prima mi aveva assalito, come una freccia attraverso la testa, ed all’improvviso incominciai a sudare freddo, anche se ero nudo, si trattava di questo; la mia partenza era avvenuta al mattino alle undici da Vicenza, ed il mio arrivo a Berna era previsto per le undici di sera, in quel tempo i treni erano meno veloci di adesso.”. Qualche riga dopo Giuseppe rivela quali erano le sue inquietudini mentre aspettava nudo e infreddolito: la paura di arrivare tardi e di far preoccupare sua sorella che lo aspetta alla stazione di Berna e la paura di vedersi rispedito al paese, se gli esaminatori scoprono che soffre di qualche malattia.

Come lo racconta Raymond Durous nel suo libro “Des Ritals en terre romande”, riportando l’esperienza di Maria Paris, arrivata a Briga da Bergamo nel 1946, la procedura della visita medica ricorda da vicino un “controllo del bestiame”. Infatti, Paris ricorda che tutti gli immigranti italiani venivano fatti completamente spogliare, dovevano farsi una doccia prima di essere cosparsi di DDT e passare la visita medica. Una donna incinta che rifiutava di svestirsi viene rispedita alla frontiera seduta stante. Qualche anno dopo, in seguito al decesso di una giovane donna morta di polmonite dopo questa visita, la procedura viene alleggerita, senza essere abbandonata.

3. L’arrivo del migrante italiano in Svizzera

3.1. il lavoro stagionale
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Svizzera ha bisogno di molta manodopera per soddisfare i bisogni di un’economia florida, a differenza del resto dell’Europa. Nel 1948 la Svizzera e l’Italia stipulano un contratto per il lavoro degli italiani sul territorio svizzero, e a partire da questa data un numero sempre crescente di lavoratori italiani si sposta verso la Svizzera per lavorare soprattutto nelle industrie edili e alberghiere. In questi settori, agli inizi degli anni ‘60 un terzo dei lavoratori era straniero, e due terzi dei lavoratori stranieri erano italiani. Tuttavia, se la Svizzera cerca manodopera straniera, e la maggior parte italiana, non vuole però veder aumentare la sua popolazione. Per questo motivo, gli italiani vengono assunti come lavoratori stagionali, per un periodo (rinnovabile) di nove mesi. Lo statuto di lavoratore stagionale non attribuisce al lavoratore alcun diritto, per esempio un’assicurazione sociale o degli orari di lavoro contenuti. Con il ricatto del contratto da rinnovare, i lavoratori italiani devono accettare qualsiasi condizione, come degli orari di lavoro massacranti e delle situazioni di servilismo nei confronti dei datori di lavoro. Inoltre, i lavoratori italiani non hanno il diritto di portare con sé in Svizzera la propria famiglia e sono costretti a vivere in comunità in baracche, spesso di legno, senza una condizione igienica minima. Alcuni di essi mettono in evidenza la situazione paradossale che consiste a costruire belle case, in quanto operai edili, e vivere in baracche di legno, senza servizi igienici.

In alcuni casi i lavoratori portano con sé illegalmente le mogli, che lavorano in nero, e talvolta anche i figli, costretti a nascondersi anche una volta arrivati, dopo aver dovuto viaggiare clandestinamente. In quanto illegali, i bambini non possono frequentare la scuola e devono sforzarsi di non parlare italiano per non essere scoperti. Oltre alla violenza subita sul lavoro, gli italiani devono anche affrontare da una parte l’ipocrisia delle istituzioni, compresi i sindacati, e dall’altra l’intolleranza della popolazione locale. I sindacati, infatti, invece di proteggere i lavoratori stagionali dai soprusi subiti, collaborano strettamente con l’ufficio cantonale del lavoro e, se denunciano le condizioni igieniche precarie, è solo per sostenere la necessità di limitare l’assunzione di stagionali stranieri. Quanto alla percezione dell’”italiano” da parte della popolazione svizzera, quest’ultima li vede come delle persone sporche, rumorose, ingombranti, fondamentalmente diverse.

Come ha detto lo scrittore Max Frisch nella prefazione del film documentario di Alexander Seiler  “Siamo Italiani” a proposito del razzismo svizzero nei confronti degli italiani: “Un piccolo popolo dominatore si vede in pericolo: volevamo braccia e sono arrivati uomini”. All’inizio degli anni ’80 si assiste a un primo slancio di solidarietà nei confronti dei lavoratori italiani, che si traduce con un’iniziativa per abolire la condizione di “stagionale”. Tuttavia, la popolazione non è ancora pronta ad accettare un’immigrazione di lungo corso e questa iniziativa è rifiutata a più dell’80%. Bisognerà aspettare infatti il 2002 perché il lavoro stagionale venga finalmente abolito.

3.2. Gli alloggi comuni e la condizione precaria del lavoratore italiano
Il lavoratore italiano della prima fase migratoria in Svizzera era principalmente un lavoratore stagionale, quindi precario. Le sue condizioni di vita erano altrettanto precarie, come possono dimostrarlo gli alloggi. Buona parte dei lavoratori all’arrivo sono sistemati in grandi complessi residenziali, praticamente delle baracche, messe a disposizione dall’impresa stessa che li impiega. In questi alloggi si mescolava una popolazione essenzialmente maschile, e spesso mista in termini di provenienza. Posso portare come esempio il complesso di baracche nato negli anni ’60 vicino a Ginevra, chiamato i “Pavillons de Lignon”, per accogliere i lavoratori stagionali, in particolare italiani. Il complesso comprendeva 9 edifici di legno con 16 camere ciascuno. In ogni camera alloggiavano quattro lavoratori. Si può stimare uno spazio “vitale” di 15 metri cubi per lavoratore. Le condizioni igieniche erano disastrose, mancavano elettrodomestici essenziali come il frigorifero, e venivano negate ai lavoratori le comodità minime della vita quotidiana, come la radio e la televisione. Coloro che contravvenivano a questo assurdo divieto incorrevano in multe. Nessuno osava ribellarsi o protestare per via della minaccia implicita di un’interruzione o un mancato rinnovo del contratto. Il datore di lavoro poteva infatti licenziare con un preavviso di sole 24 ore. Può essere interessante sottolineare che il complesso di baracche “Pavillons de Lignon” è tuttora abitato da Svizzeri e stranieri in condizione di povertà.

Molti lavoratori italiani, pur avendo iniziato con un contratto stagionale, desideravano istallarsi in Svizzera sul medio/lungo termine. Alcuni volevano far venire la famiglia. La vita comune nelle baracche non era certo adatta a una sistemazione durevole, né era conciliabile con le esigenze di una famiglia. Da qui nasce l’esigenza di trovare una sistemazione in affitto. Questo obiettivo di molti migranti non era affatto semplice per via dei prezzi troppo alti, ma anche della difficoltà ad essere accettati per un contratto di affitto in quanto italiani. Per esempio, Maria Lanza, immigrata italiana alla Chaux-de-Fonds si rivolge a un proprietario: “Vous louez un appartement? Oui, Mais vous êtes quoi? J’ai dit italiens. Boum, il me ferme le guichet. Gli appartamenti che alla fine gli italiani riuscivano ad ottenere erano dei tuguri in cui erano costrette ad ammassarsi famiglie numerose in condizioni ancora una volta precarie dal punto di vista igienico. Il risultato è che l’Italiano finiva col corrispondere al luogo comune della persona sporca e rumorosa, semplicemente per via delle condizioni di vita a cui era costretto.

Questo paradosso è descritto molto bene in un rapporto dell’Università di Reims : « Les Italiens étaient très mal vus. Les gens disaient qu’on était sales […]. Le pire c’est que c’était sans doute vrai. […] Et puis, on n’avait pas un sou, on nous réservait des taudis […]. Tu mets les gens dans des taudis, tu les empêches de vivre ailleurs, et ensuite tu dis ‘regardez comment ils sont sales’ »[6].

Ed è così che gli italiani, per evitare di essere considerati sporchi, rumorosi, bellicosi, hanno fatto grandi sforzi per apparire “normali” agli occhi degli svizzeri, diventando “Plus Suisses que les Suisses”, e perdendo anche un po’ la loro identità, come lo dice la figlia di Maria Lanza nel corso dell’intervista della RTS sopra citata.

3.3. La situazione clandestina dei figli
La problematica dei figli dei migranti italiani in Svizzera è legata allo statuto del lavoratore stagionale. Nel secondo dopoguerra la Svizzera conosce un boom economico e ha bisogno di lavoratori per alimentare le sue industrie, ma non c’è il desiderio di accogliere dei lavoratori accompagnati dalle famiglie, che costano in Welfare (stato sociale), scuola, e così via. Per questo motivo, la Confederazione Svizzera ha istituito lo statuto del lavoratore stagionale. Come già ricordato, questi contratti erano a durata limitata e non prevedevano la possibilità per il lavoratore di portare con sé le mogli e soprattutto i figli. La maggior parte dei bambini venivano quindi separati dal genitore o da entrambi i genitori e spesso lasciati in Italia dai nonni o in istituti. Tuttavia, in alcuni casi i genitori si vedono obbligati a portare il figlio con loro in Svizzera, nonostante il divieto. In questo caso i bambini si trovavano di fatto in una condizione di clandestinità. Pur essendo al corrente di questo fenomeno fin dall’inizio delle mie ricerche sul tema del migrante, sono rimasto colpito e sorpreso dal numero impressionante di questi bambini clandestini. Si stima infatti che dai 15 ai 30 mila bambini siano entrati in Svizzera come clandestini tra il 1950 e il 1980. Non si tratta quindi di un fenomeno isolato, ma di una “generazione” di bambini la cui infanzia è stata rubata.

La vita dei bambini figli di immigrati italiani arrivati clandestinamente in Svizzera può essere paragonata a quella di un carcere di massima sicurezza. Come è stato detto dalla regista Alessandra Rossi, i bambini dovevano rimanere chiusi in casa, con le tapparelle abbassate per non essere visti dai vicini (che avrebbero potuto denunciarli alla polizia) e rimanere in silenzio (non fare rumore) per non essere sentiti. Il rischio nel caso fossero scoperti era il rimpatrio di tutta la famiglia. Un altro regista italiano, un operaio figlio di immigrati, Alvaro Bizzarri, evidenzia la grande solitudine di questi bambini, che non potevano andare a scuola e nemmeno uscire a giocare. Oltre alla solitudine, il bambino viveva nella paura di rendersi responsabile del licenziamento e rinvio dei genitori. Diventati più grandi, questi ex-bambini hanno spesso conservato dei traumi pesanti, come viene sottolineato dalla psicoterapeuta Marina Frigerio che ha seguito molti figli di stagionali italiani. Di una di queste ex-bambine, la psicoterapeuta dice che “parlava pianissimo, aveva paura della sua stessa voce”, il che non sorprende se si pensa che per anni le era stato ingiunto di non fare rumore. Altri purtroppo sono diventati tossicodipendenti, come dice la stessa psicologa. Tuttavia, alcuni di questi bambini sono riusciti a superare con coraggio questo periodo tremendo della loro vita e, una volta assunto lo statuto legale, sono riusciti a studiare e ad inserirsi. È il caso di Egidio Stigliano, oggi psicologo affermato a San Gallo. Questo ex-bambino clandestino racconta che non potendo andare a scuola, spesso si inoltrava nel bosco. Durante una di queste uscite Egidio si è ferito ad un braccio. Non avendo uno statuto legale, i suoi genitori non potevano nemmeno portarlo in ospedale e il suo braccio è stato curato alla meglio.

In anni recenti è nata un’associazione, l’associazione Tesoro, diretta e gestita da alcuni di questi ex-bambini, il cui scopo è quello di fare luce sul fenomeno dei bambini italiani clandestini in Svizzera, descrivendolo da un punto di vista storico e soprattutto per ottenere le scuse ufficiali da parte della Confederazione (che per il momento non sono ancora arrivate). I membri dell’associazione chiedono inoltre il risarcimento delle persone lese.

Anche se lo statuto dello stagionale rimane in vigore fino al 2002, a partire dagli anni ’80 la situazione delle famiglie e dei figli comincia a legalizzarsi e i bambini abbandonano la situazione tragica di clandestini nascosti in casa e possono finalmente andare a scuola. In alcuni casi i residenti aiutano i figli dei migranti ad inserirsi. È il caso dello stesso Egidio Stigliano, che grazie all’aiuto di una suora riesce ad ottenere i diritti di base dei bambini “legali” e inizia la sua carriera scolastica. Tuttavia, anche dopo l’inserimento nella società e nel sistema scolastico, l’integrazione dei bambini italiani non è stata sempre facile. Per esempio, nel 1984 un bambino di nome Matteo in una scuola media di Zurigo ha dovuto redigere il tema dal titolo: “Hai incontrato un extraterrestre: come sei riuscito a comunicare con lui? Quali informazioni vi siete scambiati? Che tipo di rapporto siete riusciti a stabilire? Riporto a lato il tema per intero, perché ritengo che sia un documento importante e significativo della condizione psicologica dei piccoli italiani in quell’epoca in Svizzera.

3.4. La lenta integrazione dei lavoratori e delle famiglie Italiane
“Ritals”, “Piafs”, “Pioums”, “Maguttes” nella Svizzera francofona, “Cinkali” nella Svizzera tedesca. Questi sono alcuni dei nomignoli spregiativi con cui erano chiamati gli italiani dagli autoctoni nel corso degli anni. Nei primi anni del dopoguerra, e fino almeno agli anni ’70 i lavoratori italiani (e in seguito le loro famiglie) erano considerati come diversi, rumorosi, sporchi e pericolosi. Ai tempi della vita nelle baracche, essendo una popolazione essenzialmente maschile, giovane e celibe, i lavoratori italiani venivano visti come un pericolo per le ragazze svizzere. Quando le famiglie e i figli hanno cominciato a raggiungere la Svizzera, legalmente o illegalmente, la vita ammassata in piccole stanze favoriva la sporcizia e la rumorosità che infastidivano lo svizzero. Come detto prima, molti bambini hanno dovuto imparare a “non fare rumore” per non creare problemi, dare nell’occhio e eventualmente incorrere in espulsioni. Lo scrittore Raymond Durous ha raccolto le testimonianze di vita di 22 emigranti o figli di emigranti italiani. L’autore scrive: “Alcuni decenni fa, lo straniero, il corvaccio, l’uomo col coltello era l’italiano […], il capro espiatorio responsabile di tutto ciò che non funzionava bene in Svizzera, che doveva solo lavorare e chiudere la bocca”. Le storie raccontate sono dolorose, fatte di soprusi e ingiustizie, come la visita medica alla frontiera, l’infanzia passata a nascondersi e la povertà.

Tra le difficoltà che gli Italiani hanno dovuto affrontare negli anni ’60-’70, si devono ricordare le diverse iniziative contro l’”inforestierimento”, “Überfremdung” in tedesco. L’idea di queste iniziative, la prima delle quali è stata proposta nel 1965 dal partito democratico mentre le successive sono state riprese dall’alleanza Nazionale, un partito di estrema destra, era di fissare una quota massima per l’immigrazione in particolare quella italiana. Il lato positivo è che tutte queste iniziative sono state respinte con una percentuale di NO che aumenta nel corso degli anni. Nonostante l’esito negativo di queste iniziative contro “l’inforestierimento”, esse hanno suscitato dagli anni ‘70 pesanti critiche dall’estero e accuse di xenofobia.

Nonostante queste enormi difficoltà, molti di questi migranti italiani sono comunque riusciti a conquistarsi un posto al sole grazie al loro lavoro e alla loro tenacia.

Tra le storie di vita raccontate da Raymond Durous nel suo libro c’è quella di Claudio Micheloni, che fa parte dei bambini la cui infanzia è stata rubata. Infatti, all’età di 3 anni e mezzo ha dovuto nascondersi in un appartamento di Boudry nel cantone di Neuchâtel. Più tardi diventerà senatore della Repubblica. Dal canto suo, Manuela Salvi ricorda le prese in giro dei suoi compagni di scuola in occasione delle iniziative contro l’inforestierimento, che avrebbero potuto, se accettate, rispedirla in Italia. Oggi Manuela Salvi è giornalista alla RTS. Oscar Tosato, ex municipale della città di Losanna, ci parla del razzismo subito nella città di Bienne, quando ha visto all’entrata di una discoteca un cartello con la scritta “Vietato ai cani e agli italiani”. Questa frase xenofoba, che troviamo anche nei cantoni italiano e tedesco, è diventata un simbolo del pesante razzismo contro la comunità italiana.

Angelo Barrile, proveniente dalla Sicilia e cresciuto a Pfungen, vicino a  Winterthur, racconta: «Il ruolo di noi italiani era prima di tutto di lavorare. Alla fine delle elementari, il maestro mi ha convinto a fare gli esami per entrare al ginnasio. All’inizio non volevo, perché pensavo fosse una scuola per ricchi. Mi ha detto “sei il più bravo della classe, se non ci vai tu non ci va nessuno”. Così li ho fatti e sono stato l’unico del paese a passarli. Alcuni erano contenti, altri invece no, era un po’ come se avessi rubato loro il posto. È in quel momento che mi sono reso conto per la prima volta del razzismo». Avendo potuto studiare e grazie al fatto che era estremamente brillante, Barrile è diventato medico e in seguito è stato eletto parlamentare: «La mia elezione rappresenta un segnale per tutti gli stranieri di seconda o terza generazione: dobbiamo partecipare, esprimere il nostro parere», sottolinea il medico zurighese, esponente del Partito socialista.

3.5.1. Racconti di Italiani di Losanna
Un recente lavoro di trascrizione di una serie di interviste è stato condotto nell’ambito del progetto di memoria orale del museo storico di Losanna e della mostra “Losanna, Svizzera. 150 ans d’immigration italienne à Lausanne”. Questa mostra ha ispirato e dato l’avvio al tema generale del mio lavoro di maturità. La raccolta di interviste contiene le storie di venti immigrati italiani dal dopoguerra agli anni ’90. Alcune di queste storie sono particolarmente significative per quanto riguarda la descrizione delle condizioni di lavoro degli immigrati. Per esempio, la storia di Renato Cardone. Quando Renato Cardone, 19 anni, lavoratore nell’ambito della costruzione metallica, apprende nel 1966 che il salario in Svizzera è cinque volte più alto di quello che percepisce in Italia, decide di trasferirsi un anno in Svizzera per “riempirsi le tasche”. Ma non sa che la vita è molto più cara in Svizzera. Rispetto ad altri lavoratori stagionali, Renato ha molta fortuna, perché ogni due o tre settimane deve cambiare luogo di lavoro e quindi non vive nelle baracche sette giorni su sette. Quando si sposta da una città ad un’altra può addirittura stare in albergo. Quello che lo ha sorpreso è l’impossibilità di parlare dello stipendio, così non ha mai saputo quanto guadagnassero i lavoratori svizzeri. Un altro tabù è il fatto di non potere dare un parere sincero sulla politica, e lui, essendo di sinistra, non può parlarne per non litigare con nessuno. Ottiene velocemente il permesso di soggiorno B, che di solito si ottiene solo dopo cinque anni come lavoratore stagionale. L’impresa dove lavora in Italia, Swissboring, ha anche una filiale in Svizzera francese ed è così che Renato lavora 22 anni nella stessa impresa e poi due volte 8 anni in altre imprese. La sua occupazione consiste in “lavori speciali per il genio civile”. Come lo spiega lui stesso, si tratta di un lavoro fondamentale, ma nascosto, di preparazione del sottosuolo e delle fondamenta degli edifici. Ed è così che Renato si trova coinvolto nella preparazione del suolo, che poi accoglierà alcuni edifici importanti di Losanna, come il collegio di Bergières o il parcheggio della Riponne.

Rita Mancini arriva a Losanna nel 1972 con suo marito, perché senza matrimonio suo padre non l’avrebbe mai lasciata uscire di casa. Per lei è sempre stato un sogno quello di vedere la Svizzera, ma all’arrivo rimane un po’ delusa e scioccata dal fatto che la gente sii così chiusa e dal clima sgradevole. Tuttavia, nel giro di poco tempo Rita si è già abituata alla Svizzera e sa che non tornerà mai in Italia. Suo marito, che lavora da Metallica, ha il permesso B. Poco dopo lo ottiene anche Rita e dopo solo quattro anni hanno entrambi il permesso C. Rita trova un lavoro da IRIL, una fabbrica di indumenti. Il suo salario è inizialmente di 4.70 franchi all’ora (corrispondente a circa 7-8 litri di latte secondo i prezzi dell’epoca) sarà di solo 10 franchi all’ora nel 1990, un aumento semplicemente in linea con l’inflazione, quando Rita si dimette dalla fabbrica. La fabbrica IRIL paga all’ora ma anche a cottimo, in base al numero di pezzi prodotti in un’ora. Le condizioni di lavoro non sono affatto normali. Sono previste quattro settimane di vacanza all’anno, ma si possono prendere solo quando la fabbrica chiude, quindi 3 settimane d’estate e una a Natale. Rita non ha il diritto di fare una pausa caffè e neppure di sedersi. Dopo 18 anni di lavoro nella fabbrica IRIL, Rita cambia lavoro e diventa donna di pulizie per i servizi sociali a Chauderon e al museo storico della Riponne. Dopo 18 anni a lavorare nelle dure condizioni della fabbrica IRIL, una volta al museo, Rita continua ad avere paura della gente, e per esempio si spaventa quando vede arrivare il direttore. Esita a sedersi e non si sente in diritto di prendersi delle pause. Arriva sempre dieci minuti in anticipo come era abituata a fare in fabbrica.

3.5.2. L’acciaieria ticinese di Monteforno
La “Monteforno acciaierie e laminatoi S.A.” è nata nel dicembre 1946 a Giornico, nel canton Ticino. Nel 1970 la Monteforno tocca la cifra di 1000 operai e beneficia di molti record produttivi, che la fanno entrare nell’Olimpo delle acciaierie mondiali per notevoli investimenti tecnologici e per la bravura della manodopera, di cui la maggior parte composta da migranti italiani. Il lavoro, in alcuni casi estremamente qualificato, è tuttavia molto pesante per via delle temperature elevatissime a cui gli operai erano sottoposti nei forni a siviera (per la raccolta del metallo fuso). In questi forni, infatti, si sudava così tanto che i vestiti degli operai diventavano bianchi.

La manodopera nell’acciaieria Monteforno proveniva soprattutto dal Nord Italia fino agli anni ’50, e poi anche dal Sud e dalla Sardegna. Più sensibili alla xenofobia con la quale si dovevano confrontare tutti i giorni, i migranti di questa seconda ondata hanno intrapreso tante lotte sociali, che hanno portato la Monteforno alla ribalta della cronaca svizzera. Come lo dice Mattia Pelli: “I lavoratori immigrati della Monteforno hanno vissuto tutto questo e ne sono testimoni straordinari: hanno superato grandi difficoltà, hanno lavorato duro per una vita, hanno affrontato il pregiudizio a testa alta, hanno fatto cambiare la gente intorno a loro e sono cambiati a loro volta, hanno lottato, hanno vinto e hanno perso.”. Con queste lotte sociali i lavoratori italiani si battono per migliorare le loro condizioni di lavoratori migranti, contro i contratti stagionali, per un miglior riconoscimento e una maggiore stabilità del soggiorno in Svizzera, ma nello stesso tempo si battono anche per i diritti di tutti i lavoratori, compresi quelli svizzeri, portando con sé la cultura sindacale italiana in una Svizzera in cui dominava la cosiddetta pace del lavoro.

Un capitolo interessante dell’esperienza italiana all’acciaieria Monteforno è quello dell’arrivo (graduale) di una piccola comunità sarda. Mattia Pelli raccoglie la testimonianza di A.D., un sardo arrivato alla Monteforno a 17 anni, al seguito di buona parte della sua famiglia. Qui a destra un estratto dell’intervista. Colpisce il fatto che il responsabile della manodopera dell’acciaieria si rechi apposta in Sardegna per procurarsi gli operai. Perché proprio in Sardegna? A.D. racconta che il direttore della fabbrica aveva conosciuto dei sardi durante la guerra e ha potuto apprezzare le loro qualità. Si tratta, come lo sottolinea Mattia Pelli, del mito fondatore, che in qualche modo spiega e giustifica questa specie di “rapimento” di giovani sardi per i lavori (pesanti) in Svizzera.

3.5.3. Le donne italiane nei Grigioni del dopoguerra
Le donne, anche se la storiografia non lo ricorda sempre, sono state prime attrici dell’immigrazione italiana in Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale. Tante giovani nubili lombarde sono venute nei Grigioni italiani per lavorare come domestiche, cameriere o aiutanti agricole e molte di queste hanno finito la loro vita in Svizzera. Nell’ambito di un progetto  di ricerca promosso dall’Istituto per la ricerca sulla cultura grigionese, Francesca Nussio ha raccolto i racconti di 19 donne che hanno lasciato il loro paese per venire a lavorare nei Grigioni. La prima cosa che Francesca Nussio sottolinea è che la migrazione delle donne italiane, tra il 1945 e il 1955, non era per niente marginale, anzi le lavoratrici italiane in Svizzera erano numericamente superiori agli uomini. Il che vuol dire che la maggior parte di loro emigravano sole, almeno tra il 1945 e il 1955.

Le 19 donne intervistate provengono quasi tutte dalla provincia di Sondrio o altre province lombarde e in generale erano figlie di contadini. Arrivate in Svizzera, molte di queste donne non volevano più ritornare nel loro paese di origine e rimanevano in Svizzera, come lo racconta una delle protagoniste del libro: “Quasi in ogni casa c’era una persona che poi restava qui. Era tutta una tiritera [una catena]. Si chiamavano l’un l’altra”. La maggior parte delle donne intervistate erano destinate a una vita da “serve” subendo condizioni che ai nostri tempi potremmo definire di sfruttamento. Francesca Nussio dice una frase molto forte alla fine dell’articolo: “Cercavo delle informazioni e ho trovato degli esseri umani, delle donne, tutte con storie diverse. Certo hanno un retroterra comune, e i loro percorsi presentano molti tratti in comune, ma a me è sembrato importante, nel libro, soprattutto restituire le singolarità e diversità. (…)”

3.7. Il “mito del ritorno”

Durante gli anni ’70 una parte degli italiani emigrati in Svizzera decide di tornare in Italia. Infatti, come abbiamo visto nella sezione 3.6 (prima figura), il numero di italiani in Svizzera diminuisce da quasi 600’000 nel 1970 a poco più di 400’000 nel 1980. Chiedendomi quali siano state le ragioni di questo fenomeno, ho trovato un interessante lavoro di ricerca effettuato da Thierry Burkhard dell’Università di Neûchatel. Questo ricercatore identifica la ragione principale sottostante al ritorno al paese nel “mito del ritorno”. Con questa espressione si intende l’insieme dei sogni e delle illusioni che molti italiani nutrivano quanto alla possibilità di tornare al paese. Molti migranti italiani della generazione, arrivati in Svizzera negli anni ’50-’60, non si sono in realtà mai integrati completamente nella società svizzera. Thierry Burkhard porta l’esempio di una comunità proveniente da Gissi, negli Abruzzi, e istallata a Bienna: «Queste famiglie di gissani hanno ricostruito un po’ il loro villaggio a Bienne… I gissani vivevano molto raggruppati, avevano una loro squadra di calcio, si ritrovavano nei loro club abruzzesi o nelle loro associazioni cattoliche». Un quadro molto simile viene presentato anche da Aldo Gabriele nella sua tesi di laurea presso l’Università della Calabria, che racconta la vita di una comunità calabra a Schönenwerd, una cittadina del cantone di Soletta. Aldo Gabriele introduce il concetto di “Paese doppio”, per indicare il fatto che gli italiani avevano la tendenza di ricreare le condizioni di vita del loro paese in terra svizzera, rimanendo tra loro, chiusi in una cultura italiana fatta di cibo, canzoni, film e attività religiose.

Secondo Thierry Burkhard sono proprio questi italiani della prima generazione, mai intergrati nella società e nella cultura svizzera, che nutrono il mito del ritorno. Poiché negli anni ’70 la Svizzera conosce una fase di crisi economica che rende il lavoro più precario, gli italiani vedono venir meno la loro unica ragione di restare in Svizzera: il lavoro. In questi anni si assiste quindi a un primo contro-flusso migratorio verso l’Italia. Un deterrente al ritorno in Italia, come lo sottolinea Thierry Burkhard, è la scolarità dei figli. Finché questi ultimi sono ancora a scuola i genitori rimandano il ritorno per paura di far affrontare ai figli una seconda lacerazione. Quando i figli hanno lasciato la scuola e sono abbastanza autonomi anche quest’ultimo vincolo viene meno e molti italiani decidono di rimpatriare.   Paradossalmente, i figli di questi emigrati italiani, spesso arrivati in Svizzera in condizioni disumane, si sentono meglio integrati dei genitori e spesso decidono di non seguirli e di restare in Svizzera. Il ritorno in patria interessa quindi essenzialmente gli immigrati della prima generazione.

Il ritorno in Italia non è sempre all’altezza delle aspettative. Infatti, dopo molti anni passati in Svizzera, gli italiani trovano l’Italia cambiata almeno quanto sono cambiati loro. Con il risultato che un migrante che decide di tornare si sente straniero due volte.

2 pensieri su “L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

  1. il lavoro di Maturità di Alessandro Le Goff sulla migrazione degli Italiani in Svizzera dagli anni ’50, secondo dopoguerra, agli anni ’80 del ‘900 mi appare molto interessante sia per le informazioni riportate, ben documentate storicamente e tramite testimonianze scritte e orali, sia per la partecipazione emotiva che si legge tra le righe, da parte del giovane studente che si immedesima nelle traversie di chi l’ha preceduto nella sua stessa esperienza, in condizioni di grande durezza…Condizioni che accomunano i protagonisti di molte altre recenti, e anche piu’terribili,e rischiose, migrazioni…la narrazione diventa, a tratti, il racconto collettivo di un popolo che tenacemente e orgogliosamente ha voluto sfuggire alla povertà del dopoguerra imbattendosi, in una terra ostile, in condizioni di lavoro e di vita spesso disumane. Cosi’ il giovane che scrive, d’origine italiana da parte materna, si interroga sulle vicende umane legate alle proprie radici nel quadro di una identità in formazione, come ben dice Ennio Abate che ringrazio

  2. Ho trovato questo articolo ben documentato e a tratti toccante. Un lavoro da raccomandare e tramandare alle future generazioni che poco sanno della storia dei migranti italiani del dopoguerra, delle loro lotte e della loro, spesso improbabile, integrazione in un paese straniero.
    Personalmente sono arrivata in US negli anni ’80 fa come “espat” , che e’ una condizione estremamente privilegiata, non paragonabile in alcun modo a quella dei migranti. Tuttavia anche io trovo l’Italia cambiata almeno quanto sono cambiata io. Con il risultato che qualche volta anche io mi sento straniera in Italia e non trovo più le mie radici.
    Ringrazio Alessandro Le Goff per aver scritto questo articolo e Ennio Abate per averlo pubblicato.

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