da ora,
ogni volta che sentirò la parola shoah
penserò a Gaza
10 morti ogni uno, e non è finita
son nato a un tempo orribile
quando questa pratica era di moda
non permettono i giornalisti
e ammazzano quelli indipendenti che trovano
distruggono gli ospedali
e uccidono medici e pazienti
un solo morto, sempre, è uno di troppo
qui sono cinquemila bambini
e quattromila donne
da ora
ogni volta che si dirà la parola shoah
penserò a Gaza
non sono soli gli israeliani
complici tutti gli ebrei delle comunità plaudenti
in italia come negli usa
la prima mano l’ha messa il capo dell’impero
la seconda, nascosta, il capo del loro governo
la terza il solito occidente
ma del resto ricordiamo
che hitler aveva tanti amici
dal re d’inghilterra ai potenti d’america
che ne condividevano valori e sogni
è solo quando la concorrenza l’ha sconfitto
che è stato dipinto come pazzo
ma ha generato dei buoni discepoli
da ora
ogni volta che risuonerà la parola shoah
penserò a Gaza
pochi i giusti rimasti e ammutoliti
Cosa vuol dire:« ogni volta che si dirà la parola shoah/penserò a Gaza»?
Prima ipotesi. Vuol dire semplicemente che la violenza da parte dell’esercito dello Stato di Israele che si è vista a Gaza in questi giorni – (per quel poco che ci hanno concesso di vedere i mass media) – è tanto crudele, studiata a tavolino (cfr. https://www.facebook.com/simona.borioni/posts/pfbid0a7imbCwVvgiP6D7v6PZXzqMWyB2pnHiaeuaDG888giB4x5ZPLtxp2mt47cDyg4xDl ) da far venire in mente lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti di Hitler, violenza dunque estrema, divenuta per la nostra opinione pubblica paradigmatica, assoluta, il Male in sé?
Seconda ipotesi. L’autore della poesia mette in discussione ( e non è una novità) l’unicità della Shoah. E’ come se dicesse che ci sono state varie Shoah (o massacri, o stragi o genocidi: poi le distinzioni vanno fatte per distinguere gli eventi e non fare confusioni…) e quello che è accaduto a Gaza – adesso, 2023 – è un altro orrendo anello di una antica catena di violenze ( Cfr. Sofsky, Saggio sulla violenza, https://www.poliscritture.it/2022/06/09/saggio-sulla-violenza-leggere-o-rileggere-sofsky/ …).
Terza ipotesi. Esistono in giro slogan non solo rozzi ma sbagliati (per me) che equiparano tout court la Shoah al massacro in corso a Gaza o Netanyahu a Hitler. (Ma la stessa cosa è stata fatta per Putin o per Saddam…). A questa ipotesi la poesia sembra alludere quando afferma: «ma del resto ricordiamo / che hitler aveva tanti amici». Oppure: « ha generato dei buoni discepoli», stabilendo una continuità tra Hitler e i suoi seguaci d’oggi (Netanyahu , Biden, gli occidentali.
Chiederei un approfondimento e un chiarimento.
Avviene tutto nell’immaginario collettivo e nelle identità:
per decenni gli israeliani hanno usato la Shoah come motivo e spesso pretesto per giustificare le proprie nefandezze; e sempre in nome della Shoah le comunità ebraiche dei vari paesi hanno giustificato Israle e tacciato di antiebraismo chi dissentiva dalle politiche dello stato di Israele. Errore enorme, che ha provocato anche la fuoriuscita ufficiale dalla comunità dei più giusti (come Moni Ovadia).
Oggi, quando lo stato israeliano si fa protagonista in prima persona di un genocidio, un massacro mirato di donne, bambini, malati , medici e giornalisti, perde ogni legame col proprio passato stato di vittima per entrare nel novero dei carnefici. E rompe la continuità con quella storia.
Personalmente, credo che i termini nazismo, fascismo, antifascismo, Hitler, Shoah, lager e, più di tutti, antisemitismo, siano ormai talmente abusati, inflazionati, che abbiano perso il loro significato (sono desemantizzati). Oggi sono diventati categorie politiche usate per fare propaganda in un senso o nell’altro.
Durante la pandemia, alcuni No Vax (tra cui molti destrorsi fascistoidi) hanno dato dei nazisti non solo ai ministri del governo Conte ma anche a vari esperti di virus e vaccini, arrivando a invocare un nuovo processo di Norimberga per i suddetti, tanto per dire…
Per cui, di fronte a un governo israeliano che da sempre parla di Shoah di fronte agli attacchi palestinesi (in passato Netanhyau l’ha citata anche per i lanci dei razzi Qassam di Hamas facenti uno o due vittime), è normale che si usi la parola Shoah anche in senso opposto (gli attacchi degli israeliani ai palestinesi), per il quale, peraltro, potrebbe essere più appropriata.
In ogni caso, a mio parere, sarebbe buona cosa lasciare fuori tutti i termini che ho elencato all’inizio da ogni dibattito sulla situazione politica internazionale odierna. Non tanto perché ritenga la Shoah un unicum nella storia, come se fosse l’unico avvenmento storico “unico” (anche quello che sta succedendo a Gaza rappresenterà, al termine dell’operazione, un unicum nella storia), quanto piuttosto perché ritenga che dall’abuso di questi termini nascono solo equivoci e propaganda. La Shoah è stata un genocidio con precise caratteristiche di gravità e pianificazione, ma non è stato il più grande e inarrivabile (e unico) genocidio della storia. Il concetto di “avvenimento storico unico” e già che ci siamo di “Male assoluto” è un concetto metafisico, o al massimo metastorico, e non lo applicherei nemmeno al genocidio degli indios, che è stato il più grave della storia.
Il problema è che le parole che ho elencato sono talmente abusate da essere diventate l’unico nostro parametro di giudizio, come fossero una unità di misura dei vari crimini, dove la Shoah sarebbe il limite massimo superiore. Quest’operazione, oltre che sbagliata, crea dei mostri e serve a Israele per difendere le sue politiche genocide di pulizia etnica e, di conseguenza, scatena una reazione opposta, altrettanto sbagliata di ritorsione, di accuse di Shoah a Israele. Basta. Basta essere shoahocentrici. Lasciamo perdere la Shoah e il Novecento e concentriamoci sul crimine che sta avvenendo oggi a Gaza, se vogliamo parlarne.
Per gli esperti del diritto, da quel che capisco io, si tratta di un genocidio che si concluderà, stando alle dichiarazioni di Israele, con l’espulsione di massa della popolazione da Gaza, ossia con una pianificata pulizia etnica che, al pari del genocidio è un crimine contro l’umanità. Al massimo, chiamiamo questa operazione, nuova Nakba, e soluzione finale della pulizia etnica della Palestina iniziata nel 1947-48.
DA UN SCAMBIO SU FB DEL 22 NOVEMBRE 2023
Ennio Abate
“35mila vittime in oltre 70 anni [del conflitto israelo-palestinese] non sono un genocidio.”.
Allora, per favore, qualcuno fissi una cifra (annuale, decennale, vedete voi…) di vittime (per così dire “necessare” o “inevitabili”).Così, in base a una bella aritmetica dei morti possiamo più facilmente stabilire quale Stato sia democratico e quale no.
XY
guarda se dici “massacro”, che è una cosa orrenda, io a volte sono d’accordo. Non sempre come vede la faziosità anti-israeliani, ma ce ne sono stati. E c’è oppressione, che è sempre orrenda. Ma genocidio, che è una cosa precisa, no. Naturalmente in generale di fronte all’indignazione capisco che non si vada per il sottile. Ma se parli di un popolo che un genocidio (vero) lo ha subito invece devi andare proprio per il sottile.
Ennio Abate
Temo che a inoltrarsi nelle distinzioni concettuali (massacro, strage, genocidio), pur necessarie per intendere la specificità degli eventi, si possa perdere di vista il problema che mi premeva porre: quando uno Stato (e non mi riferisco soltanto a Israele) possa essere considerato con buone ragioni democratico e quindi da difendere o da sopportare come “meno peggio”; e quando, invece, compie (per autodifesa o per prepotenza) fatti che fanno saltare il grado di civiltà che lo distingueerebbe -meglio usare il condizionale – dal nemico (Hamas o altri) che combatte.
Prima di questa guerra a Gaza, anche io pensavo che la parola genocidio dovesse riservarsi solo agli stermini, ossia a quei popoli che perdono per esempio metà dei loro individui, se non più. Però ho notato che i giuristi esperti di diritto internazionale hanno cominciato a parlare di genocidio per Gaza, per esempio Craig Mokhiber, l’alto commissario Onu per i diritti umani che si è dimesso qualche settimana fa proprio perché, in quanto esperto Onu di genocidi, vedeva che l’Onu non stava facendo nulla per fermarli (e si riferiva a Gaza, che ha chiamato “un caso di genocidio da libro di testo”). Altri invece hanno fatto notare che per la ex Jugoslavia sono stati condannati come genocidi massacri di meno di 10mila persone, e come sappiamo a Gaza il numero sta per essere triplicato.
Quindi, se dal pdv storico forse la differenza tra massacro/genocidio può essere ancora distinta, mi chiedo se dal pdv del diritto internazionale le cose siano diverse, se effettivamente il caso di Gaza rientri in quello che i giuristi chiamano genocidio. Non avendo tempo e competenze in materia per ora mi limito a riportare i termini della questione.
ora -finalmente, direi- gli orrori contro le donne ebree da parte di Hamas, sono pubblici. Hamas votato dai gazawi.
Quanto allo stato etnico-religioso di Israele, ne ha scritto Raniero La Valle.
Con due dirigenze simili cosa aspettarsi altro che *questa* guerra e *questa* battaglia ideologica?
La mia impotenza è assoluta. La nostra europea ci assomiglia. L’interesse usa è poco perspicuo. Non ricordo nella mia vita altre crisi storiche in cui fosse così difficile situarsi e prendere parte.
quali orrori di Hamas? Reali o pubblicizzati da Bibi? dato che non sono ammessi giornalisti stranieri, e l’unico giornale autonomo di Israele non ne parla…ma accenna una narrazione assai diversa dall’ufficiale_ bersagli al 90% militari (riservisti inclusi), trattamenti umani dei progionieri (hai visto la stretta di mano ai carcerieri della prigioniera liberata il primo giorno? subito poi proibite le immagini) ma questo è secondario…
e le 5000 donne palestinesi uccise? difficile situarsi?
gli USA hanno scatenato l’inferno (e continuano con ipocrisia enorme a dare armi mentre invocano ‘moderazione’ …un massacro moderato..) e fan finta di esser mediatori
su 14000 morti sono 11000 donne e bambini…questo cos’è???
mi scrive Medici senza Frontiere chiedendo soldi, ma spiega, guarda, il nostro ospedale è stato bruciato, 2 nostri medici uccisi, le ambulanze colpite…
questo l’ha fatto un paese che veniva definito civile….
ti ho mandato una mail con allegato l’articolo in questione
… e anche questo articolo di Avvenire di oggi: Le donne israeliane: «Stuprate, picchiate. E il mondo tace»
LA CAMPAGNA «ME TOO, A MENO CHE TU NON SIA EBREA»
«Alla vigilia del 25 novembre ci siamo dette che non potevamo aspettare un giorno in più. Era necessario far sentire la nostra voce, la voce delle donne israeliane sopravvissute al massacro del 7 ottobre. E di tutte coloro che, purtroppo, non ce l’hanno fatta». Sono le parole di Liron Kroll, direttrice creativa della campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew (“MeToo, a meno che tu sia ebrea), organizzata in occasione della giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Proprio grazie alla sua professione di direttore artistico, Liron si è attivata fin dal 7 ottobre nell’aiutare chi è stato più colpito dal massacro di Hamas, a partire delle famiglie degli ostaggi.
«Molte di loro sono donne: madri, figlie, nonne – ci racconta –. E la loro pena è doppia. Non solo per quello che hanno subìto durante quel Sabato Nero, ma anche perché a questo dolore si aggiunge il silenzio del mondo: il fatto che quel dolore non venga riconosciuto all’estero. Che non venga addirittura riconosciuto dall’Onu e da quei gruppi femministi che il 25 novembre sfilavano per le strade delle capitali europee e americane ». Sono trascorsi ormai più di 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel commettere il più grande massacro nella storia di Israele, si è macchiato anche di gravissimi crimini e violenze sessuali nei confronti delle donne. Israeliane soprattutto. Ma non solo israeliane: sono, infatti, 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi che sono stati rapiti nella Striscia. Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse dal gruppo terrorista nei confronti delle donne. E questo anche se il gruppo Hamas abbia fornito prove fin troppo evidenti delle atrocità di cui si è reso protagonista pubblicando in
tempo reale i filmati delle giovani rapite, fatte sfilare per Gaza picchiate, ferite, umiliate, violentate, molte con i pantaloni insanguinati. Il silenzio caratterizza persino quelle attiviste dedite proprio alla difesa dei diritti delle donne. Nel denunciare tutto questo, Nicole Lampert, firma di Haaretz, mette in luce anche un aspetto che riguarda le donne a Gaza: «Ci si sarebbe aspettati una ferma condanna da parte dei gruppi femministi ben prima del 7 ottobre, quando le credenziali di Hamas in fatto di femminismo non erano certo brillanti visto che il gruppo impone l’uso dell’hijab, ha reso illegale viaggiare senza un tutore maschio e si è rifiutato di vietare gli abusi
fisici o sessuali all’interno della famiglia». Invece, la maggior parte dei movimenti femministi ha taciuto. Addirittura, il 30 ottobre, 140 eminenti studiose americane hanno firmato una petizione «per il cessate il fuoco » dichiarando, però, che essere solidali con le donne israeliane significa
cedere al «femminismo coloniale». Come osservato dalla Lampert, nel Regno Unito l’unica organizzazione a denunciare la violenza sessuale del gruppo terrorista è stata “Jewish Women’s Aid”, sottolineando come «il silenzio pubblico di molte organizzazioni ha un ulteriore impatto
sull’isolamento e sulla paura delle vittime israeliane». «Non rimarremo in silenzio. La vita di ogni donna è ugualmente preziosa», sottolinea dunque la campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew. «Istituzioni come la Croce Rossa Internazionale e UN Women non hanno fatto nulla per supportare le nostre vittime», ha scritto – nella campagna Instagram – Keren Sharf Shem, la cui
figlia Mia, 21 anni, è stata rapita durante il Festival Nova. Le madri degli ostaggi hanno lanciato anche la campagna #MomToo (“mamma anch’io”) in cui si possono ascoltare le voci delle donne i
“gli USA hanno scatenato l’inferno ” (Di Marco)…
Non standoci dentro (per il momento) è giusto tentare di pensare come agire in questo inferno. Questo articolo mi pare uno spunto.
SEGNALAZIONE
Dalla pagina FB di Lanfranco Caminiti
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la guerra è sempre un inferno – dice tamar meisels, del dipartimento di scienze politiche dell’università di tel aviv. un intenso dibattito morale e politico – da cui possiamo pure ricavarne, come dice michael gross dell’università di haifa, che «l’etica non fornisce una risposta inequivocabile». ma ci si prova a pensare – pure dentro l’inferno.
war is always a hell – moral philosphers.
Mentre la battaglia nella Striscia di Gaza richiede un tributo sempre più pesante da entrambe le parti, è scoppiato un altro scontro nel campo dell’etica della guerra.
Un gruppo di 44 accademici dell’Università di Oxford, tra cui esperti di etica e diritto internazionale, ha pubblicato il mese scorso una lettera aperta, perché i leader britannici chiedano “un’immediata cessazione dell’attacco moralmente disastroso di Israele contro Gaza”. Ha inoltre chiesto il libero passaggio degli aiuti umanitari a Gaza, oltre a chiedere ad Hamas di liberare tutti gli ostaggi.
I firmatari, tra cui il filosofo morale nato negli Stati Uniti Jeff McMahan – considerato uno dei massimi pensatori contemporanei sull’etica dell’omicidio in guerra – ha condannato fermamente l’atto terroristico “moralmente ripugnante” di Hamas e ha osservato che, secondo il diritto internazionale, Israele ha il diritto di agire contro l’organizzazione. Ma, hanno aggiunto, “questo diritto non si estende né giustifica l’attuale attacco di Israele contro la popolazione civile di Gaza”.
Secondo i firmatari dell’appello, “pensare che le atrocità perpetrate da Hamas giustifichino la crisi umanitaria attualmente in corso a Gaza significa sostenere un principio centrale del terrorismo – che tutti i cittadini devono pagare per le malefatte dei loro governi – così come la pratica centrale del terrorismo: punizione.”
Sei filosofi morali israeliani hanno risposto alla lettera: Yitzhak Benbaji, Michael Gross, David Heyd, Saul Smilansky, Daniel Statman e Noam Zohar. Nella loro risposta, hanno scritto che la lettera originale aveva ignorato “la natura radicale di ciò che Hamas aveva fatto, l’incredibile crudeltà” di ciò che Hamas aveva perpetrato, così come il fatto che l’omicidio di massa di civili israeliani, nel contesto del movimento di Hamas e il suo obiettivo dichiarato, possono essere considerati un atto di genocidio. Secondo loro, ciò giustificava una forte risposta da parte di Israele, non come vendetta ma a causa dell’estrema gravità dell’attacco iniziale, creando la necessità di sconfiggere militarmente Hamas in modo decisivo.
Estremamente complesso
La situazione è infatti estremamente complessa. Da un lato, ogni persona ragionevole concorda sul fatto che Israele può e addirittura deve reagire con forza al barbaro attacco compiuto da Hamas il 7 ottobre. Tuttavia, da un punto di vista etico, qual è il modo corretto di reagire quando i terroristi si mettono intenzionalmente al riparo dietro la loro popolazione civile, e addirittura impediscono a quei cittadini di ricevere aiuti umanitari dirottandoli verso le proprie necessità?
“Se fosse possibile, senza causare effetti collaterali dannosi a persone innocenti, uccidere ogni membro di Hamas, ciò non sarebbe semplicemente ammissibile ma obbligatorio”, dice il professor McMahan ad Haaretz. “Ognuno di loro è moralmente passibile di essere ucciso a causa della minaccia che rappresenta per persone innocenti, sia israeliane che palestinesi. Ma questo non è possibile. Quando una guerra è meno efficace come mezzo per raggiungere una giusta causa, e infligge anche più danni a persone innocenti rispetto ad alcuni mezzi alternativi, viola il requisito della necessità. L’attuale guerra israeliana, così come viene combattuta, non è necessaria in questo senso. È impossibile per Israele distruggere militarmente Hamas distruggendo allo stesso tempo le aree civili in cui opera. Per ogni membro di Hamas ucciso, ne recluta almeno altri due tra i civili che Israele lascia sommersi dal dolore e dall’odio, infiammati dal desiderio di vendetta per l’uccisione o la mutilazione del loro figlio, genitore, coniuge, fratello o amico”.
McMahan aggiunge che per raggiungere l’obiettivo della guerra – distruggere Hamas – la migliore speranza è “mettere i palestinesi in modo deciso contro di essa. Per questo l’invasione è controproducente. Tra le molte linee d’azione che Israele potrebbe intraprendere, quella insieme sarebbe più efficace… stiamo costruendo una recinzione meno facilmente sfondabile, schierando molte più forze pronte al combattimento lungo il confine piuttosto che inviarle a proteggere i coloni in Cisgiordania, trattando i cittadini di Gaza come esseri umani e, infine, ritirando gli insediamenti dalla Cisgiordania e cedendo quel territorio, al quale Israele non ha alcun diritto ai sensi del diritto internazionale, ai palestinesi”.
Uno dei firmatari israeliani, il professor Noam Zohar dell’Università Bar-Ilan di Ramat Gan, scrive e insegna sull’etica e la guerra. È stato anche coinvolto nella formulazione della sezione del codice etico delle Forze di Difesa Israeliane riguardante la “purezza delle armi” (un termine israeliano per indicare la moralità in guerra). Anche lui esprime preoccupazione riguardo alla problematica di danneggiare civili innocenti: “Le emozioni suscitate creano un bisogno di vendetta, ma se attacchiamo intenzionalmente i civili, in realtà non siamo diversi dai terroristi”, dice. “La base del disprezzo morale dei terroristi è che attaccano i civili. Lo abbiamo visto in modo orrendo a Simhat Torah [7 ottobre], ma era vero anche prima, quando hanno lanciato missili contro le comunità civili.
“Quando alcuni israeliani dicono che Gaza dovrebbe essere cancellata o rasa al suolo, questa è proprio la trappola nella quale non dovremmo cadere”, dice. “Il codice etico dell’IDF stabilisce nella sezione sulla purezza delle armi che le armi non devono essere usate per danneggiare i non combattenti e che un soldato deve fare tutto il possibile per prevenire loro del male”. Per come la vede Zohar, l’IDF sta facendo di tutto per ridurre i danni ai civili – “più di qualsiasi altro esercito che io conosca, anche rispetto agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna in Iraq e Afghanistan”, dice.
Ridurre i danni ai civili spesso comporta un aumento del rischio per i soldati, il che crea un altro difficile dilemma morale.
“I piloti francesi della seconda guerra mondiale che si unirono all’aeronautica britannica bombardarono obiettivi nella Francia occupata e misero in pericolo i cittadini francesi”, dice Zohar. “Pertanto, hanno deciso di bombardare da un’altitudine più bassa, il che ha permesso loro di essere più precisi ma li ha esposti al fuoco antiaereo. C’è un limite a questo: non è necessario correre grandi rischi. Al contrario, anche l’altro estremo – “rischio zero” per i soldati, che significa un aumento molto maggiore del pericolo per i non combattenti – è problematico”.
Spostamento temporaneo
Uno dei passi compiuti dall’IDF per ridurre i danni ai civili senza aumentare il rischio per i soldati è stato quello di dire agli abitanti della zona settentrionale della Striscia di Gaza di lasciare le loro case mentre lì l’esercito combatte Hamas.
“Non ha precedenti fare una richiesta del genere”, dice Zohar. “Ciò è stato fatto con motivazioni meritevoli, ma è necessario ricordare che stiamo parlando di qualcosa che equivale allo sfollamento di un intero popolo. Il testo classico nel campo dell’etica della guerra è “Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations” di Michael Walzer. Ha un capitolo che tratta degli assedi che coinvolgono civili. L’assedio classico non consente ai civili di andarsene perché questo è il modo per sconfiggere l’esercito. Questo fu il caso dell’assedio romano di Gerusalemme nei giorni della distruzione del Tempio e dell’assedio di Leningrado. Walzer dice che questo è proibito; è necessario permettere ai civili di andarsene. Ma se dici a tutti gli abitanti di Leningrado di andarsene, dove andranno? E per quanto tempo dureranno? La chiave è che ciò è giustificato se è temporaneo; altrimenti è un crimine di guerra. Quando giustifichiamo lo sfollamento degli abitanti di Gaza City e dei suoi dintorni come il male minore, è importante respingere strenuamente le voci tra noi che chiedono di rendere questo trasferimento permanente di popolazione”, osserva. “Dobbiamo agire con forza per garantire la possibilità di riabilitazione e di ritorno immediato una volta finiti i combattimenti”.
Un’altra questione critica riguarda la proporzionalità: se il danno è considerato “proporzionato”. Di questo Zohar dice: “La proporzionalità è determinata dalla relazione tra l’importanza dell’obiettivo militare e l’entità del danno ai civili. Se l’obiettivo non è definito o non è raggiungibile, ciò getta un’ombra sull’intera questione. Secondo la dottrina della guerra giusta, la prima condizione per giustificare una guerra è la legittima difesa. Questo è sicuramente il caso.
“La seconda condizione è che ci sia la possibilità di raggiungere l’obiettivo strategico. Altrimenti, tutte le perdite – sia dei vostri soldati che dei non combattenti dall’altra parte – non possono essere giustificate. Qual è lo scopo adesso? Smantellare Hamas o uccidere tutti i suoi soldati, il che è di per sé giustificato – ma poi cosa? Se non c’è chiarezza sul piano per il dopoguerra, è difficile giustificare tutte queste vittime. Solo alla luce dell’obiettivo strategico è possibile valutare i costi di tutte le mosse tattiche”.
Michael Walzer, professore alla School of Social Science dell’Institute for Advanced Study di Princeton, afferma che la proporzionalità è un criterio molto problematico. “La proporzionalità è un gioco da pazzi. In passato, la proporzionalità è stata utilizzata principalmente per giustificare un numero eccessivo di omicidi. Oggi viene utilizzato per condannare qualunque uccisione possa essere causata da Israele. I nostri giudizi morali dovrebbero essere basati in modo diverso – soprattutto, sulla questione della responsabilità. Hamas mette deliberatamente a rischio i suoi civili e trae vantaggio da chiunque venga ucciso. L’IDF, come qualsiasi esercito ad alta tecnologia in una guerra asimmetrica, è responsabile della maggior parte delle uccisioni. Chi è effettivamente responsabile? Hamas innanzitutto, mentre la responsabilità di Israele è quella di combattere il più attentamente possibile, mirando solo a obiettivi militari e assumendosi dei rischi nella raccolta di informazioni su tali obiettivi in modo che possano essere attaccati nel modo più preciso possibile. Le argomentazioni sulle cure necessarie e sui rischi necessari mi sembrano molto più importanti delle argomentazioni su ciò che è o non è proporzionato”.
Il ruolo del diritto umanitario
La prof. Tamar Meisels, del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Tel Aviv, è una studiosa di diritto specializzata negli aspetti filosofici del terrorismo e dell’antiterrorismo. “La proporzionalità è la regola meno compresa nel diritto internazionale e nella teoria della guerra giusta”, afferma. “È molto difficile da valutare e consente numerose distruzioni che coinvolgono civili. Cancellare un villaggio per uccidere un soldato è l’esempio utilizzato dalla Croce Rossa. Questo è un chiaro caso di danno eccessivo ai civili. Oltre a ciò, è difficile valutare quanto la distruzione sia sproporzionata rispetto all’obiettivo militare di uccidere i terroristi e distruggere le infrastrutture terroristiche – soprattutto in una guerra di necessità come questa. In ogni caso, la proporzionalità è un requisito relativamente minore nella moralità di guerra.
“Israele deve rispettare rigorosamente il diritto internazionale, ma non è necessario che vada oltre”, afferma Meisels. “Deve mirare solo a obiettivi militari, proprio come sta facendo, e per quanto possibile evitare di danneggiare i civili – cosa purtroppo meno fattibile quando il nemico si nasconde tra loro e abusa delle loro infrastrutture. Se Israele fa questo sforzo per ridurre al minimo le vittime civili, e lo sta chiaramente facendo, la responsabilità dell’alto numero di vittime ricade su Hamas. Moltissimi civili vengono uccisi nelle guerre più giuste e legittime, e se c’è un ragionevole tentativo di evitarlo – attraverso avvertimenti, attacchi aerei attentamente mirati, ecc. – le rimanenti uccisioni accidentali non costituiscono un crimine, per quanto deplorevoli siano. La guerra è sempre un inferno”.
Un’altra questione etica riguarda la questione del trasferimento degli aiuti umanitari. “Israele dovrebbe consentire il passaggio degli aiuti minimi richiesti dalla legge, nella misura in cui è necessario, secondo noi, per prevenire una crisi umanitaria, ma non una goccia di più finché tutti gli ostaggi non saranno restituiti. Il loro rapimento costituisce una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra”, afferma Meisels. “In ogni caso, non c’è alcuna giustificazione per inviare carburante quando è chiaro che Hamas ne ha molto”.
Il Prof. Michael Gross dell’Università di Haifa, specializzato in etica militare e autore di numerosi libri sull’argomento, è stato un altro firmatario della lettera israeliana. “Il diritto umanitario non esiste per prevenire la guerra o per esaminare chi ha ragione e chi ha torto. Invece, stabilisce determinate procedure”, spiega. “Permette alle parti di condurre una guerra partendo dal presupposto che i civili verranno uccisi e che ciò sia inevitabile. Le persone non lo capiscono. Pensano che la legge sia pacifista: purtroppo non è così. Non è possibile intraprendere una guerra senza che si verifichi un disastro umanitario. I due vanno insieme”.
Un enorme dilemma nella guerra attuale riguarda gli ostaggi e come Israele dovrebbe comportarsi per non metterli in pericolo.
“In ogni dilemma morale ci sono due opzioni, ciascuna delle quali spinge in una direzione diversa, e alla fine viene presa una decisione con la quale è possibile convivere”, afferma Gross. “Ma esiste una sorta di dilemma chiamato “scelta tragica”, in cui è impossibile convivere con nessuna delle opzioni. Quando è necessario scegliere tra la sicurezza dello Stato e la sicurezza degli ostaggi, noi come popolo, come tutto il Paese, dobbiamo pensare a cosa dovremmo fare in una situazione come questa. L’etica non può fornire una risposta inequivocabile”.
[da «haaretz», 27 novembre 2023»].
“Guerra di necessità”, “uccidere tutti i soldati è giustificato”.
Concetti validi solo se si parte dal presupposto che tutto sia iniziato il 7 ottobre e che Hamas voglia distruggere Israele (anche se in nessun caso può farlo) – cioè in caso di legittima difesa.
Se si inquadra diversamente questa “guerra”, mi chiedo, invertendo i ruoli, se non sarebbe considerato antisemita fare una guerra di necessità a Israele e uccidere tutti i suoi soldati. Credo che nessuno prenderebbe in considerazione come legittime queste due aspirazioni, in nessun caso.
mi vergogno a leggere quello che dice uno Zahar: ormai rispetto della verità, onore e parolaccie simili hanno perso ogni significato; guardiamo i fatti: un grafico del NYTimes di ieri ci dice che il prezzo pagato dalla popolazione civile di Gaza è spropositato: su 15000 morti 11000 donne e bambini, quindi certamente civili e innocenti, oltre agli altei civili non belligeranti. Questo è quello che Zahar definisce un comportamento eccezionalmente moderato dei soldati israeliani. E noi dovremmo stare a sentire questi cialtroni e far finta di crederci?
L’idolatria di una presunta democrazia già da decenni dimostrata parola vuota è diventata idolatria dell’occidente e della sua missione salvifica, una cui componente essenziale è lo sterminio degli infedeli…come dal 1492 in poi è prassi pressochè quotidiana