Una ricerca storica sulla Basilicata tra 1740 e 1860

La Basilicata verso l’Unità d’Italia
– origini della Questione Meridionale – 1740 – 1860

E’ uscito con un ritardo di decenni –  segno sintomatico del degrado culturale  italiano dagli anni ’80 del Novecento ad oggi e della cancellazione della cultura della sinistra in questo Paese –  un libro di storia sulla Basilicata. L’ha scrittodi Giuseppe Natale – amico e studioso e, di recente, anche collaboratore  di Policritture -, il cui percorso di vita e di lavoro in varie occasioni si è incrociato in passato con  il mio. Lo segnalo volentieri proponendo  due brani: uno dalla presentazione di Giovanni Caserta – scrittore, storico, critico letterario e autore di una Storia della letteratura lucana (1993); e un altro con la spiegazione che l’autore dà sia della nascita della sua opera nel clima  di grandi speranze spuntate con il movimento studentesco del ’68 nella fucina intellettuale che fu l’Università Statale di Milano  in quegli anni – Franco Della Peruta e Lucio Gambi, ricordati da Giuseppe, furono tra l’altro anche miei professori –  e  sia della (forse paradossale e per me più incerta) attualità della gramsciana questione meridionale. Le vecchie botti del ’68  contengono ancora del buon vino. Assaggiatelo. [E. A.]

Dalla presentazione
di Giovanni Caserta

È facile intuire, a questo punto, che il volume è tutto piegato verso una storia vista come lotta di classe, sviluppatasi, a partire dal ’700, tra una borghesia agraria nascente e i bisogni dei populares. Ne consegue che non ci si deve aspettare un “racconto”, quale ordinata e cronologica elencazione di battaglie, re, successioni al trono, insomma eventi politici. A partire dal 1740 e a giungere al 1861, anno della proclamazione dell’Unità d’Italia, Natale spiega come emerse la questione meridionale. Fu messa in evidenza l’esistenza di due Italie. Di esse una, quella meridionale, depressa, povera, soffocata e soffocante, era popolata da una gran massa di contadini, pastori e piccoli artigiani, per lo più in condizioni di vita al di sotto di ogni limite di civiltà e di vivibilità; l’altra, centro-settentrionale, proiettata verso il centro dell’Europa, aveva cominciato a godere dei frutti della prima rivoluzione industriale, oltre che di una agricoltura fiorente per irrigazione e condizioni di lavoro.
L’Italia meridionale, conosciuta attraverso gli scritti dei classici greci, era la Magna Grecia piena di fiori, frutti, campi rigogliosi, chiare, fresche e dolci acque. Alla prova dei fatti, come disse il Pascoli, docente di latino e greco nel Liceo classico di Matera tra il 1882 e il 1884, infestata dal vaiolo e dalla malaria, dalle frane e dai terremoti, dalle inondazioni e dalle paludi, era più vicina all’Africa, anzi “Affrica”, che non all’Europa.
Palla di piombo al piede della nazione appena creata, alcuni avrebbero voluto liberarsene, lasciando che fosse affondata e sommersa nel Mediterraneo.
Natale traccia, decennio per decennio, il quadro socio-economico del Sud, con particolare riferimento alla provincia di Lucania Basilicata.
Si può dire che è storia che non abbia molto progredito, condannata, di fatto, ad un sostanziale immobilismo di miseria e povertà, quale fu colto ancora da Carlo Levi, quando, nel 1935-36, parlò di una terra estranea al tempo e alla storia. In verità, però, qualcosa cambia nel racconto di Natale. Ed è la lenta e graduale acquisizione di una coscienza di classe da parte dei ceti subalterni, con sussulti di lotta e di rivendicazioni. Tra questi, Natale inserisce il brigantaggio, puntualmente comparso dopo ogni movimento o svolta liberale che, promossa dal ceto borghese, sembrava annunciare tempi nuovi. Per Natale è “guerra per bande”. Di fatto accadeva, puntualmente, che, ad ogni svolta di natura culturale e ideale, con annunci di tempi nuovi, il contadino tornava a chiedere, come concreta forma di libertà, l‘assegnazione delle terre. Lo ricorda persino il Verga. E poiché a fare la rivoluzione di idee era la nuova borghesia, questa, se rivendicava la libertà, poco era propensa a dividere o a rinunziare alla proprietà. Era consequenziale che i contadini, delusi, rifiutassero la libertà e affidassero le proprie rivendicazioni al brigantaggio, da alcuni mal interpretato come fenomeno o segno di sanfedismo reazionario. Fu di questa natura la lotta di classe sviluppatasi nel Sud, sempre conclusa con una feroce repressione, soprattutto dopo l’Unità d’Italia. Ne consegue che, anche dopo il Risorgimento e per tutto l’Ottocento e il Novecento, il Sud, agli occhi di Natale, non offre mai un quadro economico-sociale confortante, salvo la parentesi della Ricostruzione post-resistenziale, presto esauritasi anch’essa.
Da emigrato, Natale osserva che, oggi ancora, purtroppo, la storia del Sud è più una storia di fallimenti che non di progresso. In una Italia che, in un mondo globalizzato, non ride, “massacro del lavoro e ripresa dell’emigrazione ritornano a colpire duramente il Mezzogiorno. Nel periodo 2008-2017, è quasi raddoppiato il numero di famiglie, i cui componenti sono in cerca di lavoro (da 362 mila a 600 mila); è diminu[1]ito di 310 mila unità il numero degli occupati, in modo drastico nella fascia di età 14-35 (-578 mila). Negli ultimi 16 anni sono emigrati dal Meridione 1 milione e 883mila persone di cui all’incirca la metà tra i 15 e i 34 anni e 1/5 laureati”. Se nel 1861 la popolazione lucana era di 492.959 abitanti, diventando di 644.2967 nel 1961, è scesa a 541.168 nel 2021 e a 536.193 nell’aprile del 2023. L’emigrazione, insomma, cioè la fuga, rimane ancora la protesta cui i meridionali sono costretti a ri[1]correre. E si va verso lo spopolamento soprattutto delle zone interne. Al volume, ovviamente, non mancano aspetti e motivazioni che sono ormai datati rispetto alla più aggiornata storiografia; ma la sua impor[1]tanza è proprio nel fatto che, mentre ci traccia il quadro di una Basilica[1]ta e di un Sud fermi al 1861, nello stesso tempo assume un valore stori[1]co diverso, anch’esso molto interessante, perché, attraverso un giovane Natale, ci si offre il quadro di un modo di atteggiarsi della storiografia dei “magnifici anni Sessanta”. Contemporaneamente, aspetto emotiva[1]mente coinvolgente, ci dice di quante aspirazioni, sogni, utopie si nutrirono gli anni e i giovani immediatamente successivi all’avvento della  Repubblica costituzionale. È, perciò, “documento umano” che, oggi, soprattutto per chi fu giovane allora, “prende” almeno tanto quanto il quadro economico-sociale, così analiticamente tracciato.

Perché pubblicare una tesi di laurea discussa nel 1969
di Giuseppe Natale

È una ricerca storica sulla Basilicata (titolo originario “I contadini di Basilicata verso l’unità d’Italia”), in particolare sulle condizioni di vita dei contadini e del proletariato rurale, nell’arco di oltre un secolo che precedette l’unificazione dell’Italia (1740 – 1860), nello scenario del Mezzogiorno. Periodo decisivo per le sorti future del nostro Paese, in cui si rintracciano quegli elementi e quegli aspetti peculiari della nostra storia moderna e contemporanea, in particolare quelli che caratterizze[1]ranno la cosiddetta questione meridionale. È la mia tesi di laurea, concordata e seguita dai miei stimatissimi professori: Franco Della Peruta, docente di Storia del Risorgimento; e da Lucio Gambi, docente di Geografia Umana. Rispettivamente relatore e correlatore. Venne discussa il 19 dicembre del 1969, all’indomani della strage di Piazza Fontana, nella sede delle Facoltà Umanistiche della Università Statale di Milano in Via Festa del Perdono. Assistevano: Maria Antonia, la mia fidanzata e futura moglie, e, testimone d’eccezione, mio padre Nunzio, contadino e mio primo vero maestro! La ricostruzione storica si fonda su fonti e documenti attinti dagli Archivi di Stato di Napoli, Potenza e Matera, mai, fino ad allora, esaminati dalla storiografia ufficiale. Mi proponevo di mettere in primo piano le condizioni reali e le lotte sociali delle masse contadine e di dare voce agli strati più poveri della società lucana e meridionale: la voce universale degli sfruttati e degli ultimi. Volevo dare un contributo scientifico al rovesciamento della narrazione storica verticale e piramidale o idealistica, che riservava (e ancora oggi riserva) un ruolo esclusivo, o quasi, al protagonismo delle classi dominanti e dirigenti. Sul piano teorico, e soprattutto metodologico, cercavo di utilizzare, in modo strumentale e concreto e non rigido e dogmatico, la metodologia della ricerca rinvenibile nel materialismo storico marxiano, rivisitato con fervida originalità  da Antonio Gramsci e dagli storici degli Annales. Questo lavoro, che mi vide impegnato per alcuni anni, ricevette tre rico[1]noscimenti importanti: il massimo dei voti di laurea (110/110), la borsa di studio presso l’Istituto Storico Benedetto Croce di Napoli (1970), il premio della prestigiosa rivista “Basilicata” di Leonardo Sacco (1975). Per ragioni familiari di natura economica, dovetti rinunciare alla borsa di studio e non mi fu possibile continuare la ricerca ed eventualmente intraprendere la carriera accademica: era la conferma dei limiti classisti degli studi superiori ed universitari in Italia, che ancora persistono e, se è possibile, aumentano! Neanche fu possibile ricevere il premio e pubblicare l’opera, a causa delle ristrettezze finanziarie di “Basilicata”. Un’altra ragione perché questa ricerca possa essere pubblicata sta proprio in quegli anni giovanili in cui la fatica degli studi s’intrecciava con l’impegno civile e politico, nel fuoco delle agitazioni e dei movimenti del Sessantotto.

[…]

Questo mio lavoro, oltre che contributo di conoscenza storica in sé, può essere letto oggi come un esempio di ricerca militante e rappresentativa di un’epoca. Un altro ordine di ragioni a favore della pubblicazione sta ovviamente nell’attualità della questione meridionale come questione nazionale. Descriverne le origini e conoscerne le radici diventano sempre operazioni indispensabili per capire il presente e rendersi consapevoli del perché del dualismo dello sviluppo italiano, o meglio degli squilibri territoriali e della marginalizzazione e dispersione di intere popolazioni e risorse umane.

Ancora una volta è il Rapporto SVIMEZ 2018, sul triennio 2015-2017, a ricordarcelo. L’indice di crescita annuale del PIL è tremendamente più negativo nel Mezzogiorno, che, pur registrando un incremento negli anni 2015-2017 ( +1,5% ,+ 0,8%, +1,4% ), registra un – 10% tra il 2008 e il 2017, mentre il negativo del Centro-Nord è meno della metà del Sud (- 4,1%). Massacro del lavoro e ripresa dell’emigrazione ritornano a colpire duramente il Mezzogiorno. Sempre nel periodo 2008 – 2017, è quasi raddoppiato il numero di famiglie, i cui componenti sono in cerca di lavoro (da 362 mila a 600 mila ); è diminuito di 310 mila unità il numero degli occupati, in modo drastico nella fascia di età 14-35 (- 578 mila). Negli ultimi 16 anni sono emigrati dal Meridione 1 milione e 883 mila persone – di cui all’incirca la metà tra i 15 e i 34 anni e 1/5 laureati. Aumenta, con maggiore intensità rispetto al resto del Paese, il lavoro precario e saltuario, degradato e sottopagato, insicuro e povero. Ritorna, e si diffonde in tutto il territorio nazionale, il caporalato che “schiavizza” soprattutto, ma non solo, gli immigrati, che diventano utile esercito di riserva.
Se il Meridione piange, l’Italia non ride. Il nostro è tra i paesi in cui le disuguaglianze hanno raggiunto livelli allarmanti: 10 famiglie più ricche detengono una ricchezza di 98,4 miliardi, superiore ai 96 miliardi del 30% della popolazione! L’Italia è il paese che ha ¼ di residenti a rischio povertà, il 28,3%: 4 punti in più rispetto al 24,4% della media europea (dati Istat). In Italia 1 bambino su 7 nasce e cresce in una famiglia in condizione di povertà assoluta. 8/10 bambini non possono frequentare l’asilo nido; 1/10 non frequenta la scuola dell’infanzia. L’Italia è anche il Paese in cui la criminalità organizzata ha le caratteristiche di vero e proprio sistema economico articolato in diverse imprese, il cui fatturato si aggira attorno ai 300 miliardi di euro all’anno (cifra forse in difetto). Questa grande macchina criminale, che si intreccia con la corruzione (altri 60 miliardi di danni: cifra molto in difetto!), inquina il tessuto sociale, le istituzioni, la politica. Mette un’ipoteca pesante sul sistema costituzionale e democratico, oltre che sullo sviluppo economico culturale civile della società. Il racconto delle bestiali condizioni dei braccianti e dei contadini dell’epoca del primo capitalismo potrebbe contribuire a squarciare il velo sulla realtà di oggi in cui domina un capitalismo neo-liberistico e finanziario nelle forme tra le più ciniche e feroci mai sperimentate, che sta spostando indietro l’orologio della storia, a livello locale e globale, in tutti gli angoli del pianeta. Sulla concentrazione della ricchezza e sull’aumento delle povertà sul piano globale, siamo già al punto di rottura: quanto può reggere la società mondiale degli umani di fronte al livello spaventoso raggiunto dalle disuguaglianze (85 persone possedevano nel 2014 la ricchezza della metà della popolazione mondiale; e nel 2016 la ricchezza dell’1% ha su- perato quella del 99%!!)?…

Mentre va a gonfie vele l’industria delle armi e proliferano le guerre (in preparazione della terza guerra mondiale?…) e si accumulano ordigni nucleari che somigliano a mostri pronti alla distruzione apocalittica. Come se non bastasse, il degrado ambientale e gli sconvolgimenti climatici minacciano dalle fondamenta le condizioni di vita, in primis di quella umana, sul pianeta. Prima che il tempo arrivi a scadenza, occorre prendere coscienza che il dominio dei capitali finanziari e la mercificazione tendenzialmente globale e totale degli elementi fondamentali della vita (aria, acqua, terra, energia), dei diritti fondamentali e delle istituzioni statali e locali stanno stringendo in una morsa mortifera ogni possibilità di emancipazione libertà e progresso.

Opere storiche, come la mia tesi di laurea, sono il frutto di rigore nella ricerca scientifica e di volontà e impegno a cambiare lo stato di cose presenti, a fare memoria con l’intento di contribuire ad elevare il livello di conoscenza e di consapevolezza civile e politica. Considerò Antonio Gramsci: “E se scrivere storia significa fare storia del presente, è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive”. (Scritti sul Risorgimento).
Nella mia opera, dalla narrazione delle tristi condizioni del proletariato rurale emergono anche quei connotati di separatezza tra classi colte e dominanti e popolo, che in forme diverse perdurano nonostante la conquista della forma repubblicana dello Stato e di una Costituzione tra le più avanzate e progressive del mondo. Anche le classi colte, e in particolare quelle che avrebbero dovuto contribuire maggiormente all’emancipazione delle “masse popolari” e al progresso generale della società, si sono dimostrate e si dimostrano inadeguate ed impreparate. E, nei momenti difficili, diventano sfacciatamente servili nei confronti dei poteri economici e politici, e si chiudono in torri eburnee a difendere i loro interessi e privilegi.
Colpevolizzandolo, si tiene il popolo, in particolare le componenti più povere ed emarginate di esso, lontano dalle istituzioni e dalle decisioni. Ovviamente ci furono e ci sono minoranze di intellettuali e di gruppi dirigenti ed organizzazioni mobilitati in permanenza contro i poteri dominanti e contro lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” e per una società migliore, più giusta e più libera ed eguale. Queste minoranze potranno continuare a svolgere il loro ruolo di guida e di costruttori di futuro nella misura in cui si tengono sempre aperti i canali di comunicazione e di collaborazione con le persone in carne ed ossa, con la cittadinanza attiva e consapevole che a sua volta dovrebbe provare a diventare classe dirigente.

Studiare con rigore scientifico e spirito critico le origini della formazione del nostro Stato unitario significa acquisire la consapevolezza dei limiti e degli insuccessi delle classi “colte” e “dirigenti”, in particolare delle componenti democratiche (Mazzini, Garibaldi, Partito d’Azione, repubblicani ecc.) che non seppero rappresentare il popolo povero e proletario e finirono così col piegarsi all’egemonia dei moderati e della monarchia sabauda. Comunque, moderati e democratici portano la responsabilità sia del fallimento dei moti del 1848-49 che della forzatura conquistatrice e centralistica da parte della monarchia sabauda dell’unificazione italiana. Ancora Gramsci, con sferzante lucidità: “Essi dicevano di proporsi la creazione dello Stato moderno in Italia e produssero un qualcosa di bastardo; si proponevano di suscitare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di inserire il popolo nel quadro statale e non ci riuscirono.” (Ibidem). Si può definire “bastardo” anche il tipo di evoluzione della struttura economica segnata da un capitalismo arretrato e familistico, con incorporata, e vitale, la persistenza di rendita fondiaria parassitaria e di elementi di latifondismo feudale. Bastardo e retrivo. Non a caso, quando i lavoratori e le masse diseredate si organizzano in “società di mutuo soccorso”, in sindacati e partiti, e conquistano significative rappresentanze nelle istituzioni; e quando queste ultime si aprono alle istanze della “società reale”, da parte dei poteri economici e dei governanti si scatena la reazione: all’interno brutale sfruttamento dei lavoratori, emigrazione di massa e repressione sociale; verso l’esterno aggressione colonialistica, con partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale, regime e dittatura fascista e seconda guerra mondiale. Dai gruppi di antifascisti che lottano clandestinamente durante il ventennio e dalla tragedia della seconda guerra mondiale, scaturisce il movimento di resistenza e liberazione dal nazifascismo che porta all’abolizione della monarchia e alla nascita della Repubblica, regolata da una Costituzione fondata sui diritti umani sociali e civili. Costituzione progressiva e antifascista, che, per la prima volta nella nostra storia, sanziona solennemente la convergenza tra popolo e classe dirigente, tra governanti e governati.

Parte dal Sud, dove stanno sbarcando le truppe alleate, l’avvio del movimento di Liberazione. In Basilicata, a Matera, il 21 settembre 1943 scoppia il primo episodio di resistenza e di insurrezione armata contro l’esercito tedesco occupante. In cinque anni cruciali (1943 -1948), il popolo italiano e, principalmente, gli operai e i contadini, i braccianti e i proletari, i politici e gli intellettuali migliori e le loro organizzazioni diventano protagonisti della lotta di liberazione, del riscatto e della dignità, della creazione di un sistema democratico e partecipativo, che – si può affermare – realizzano il vero Risorgimento italiano. In quegli anni e in quelli successivi, dal 1949 agli anni ’60, in cui dilagano le lotte operaie e contadine, le occupazioni dei latifondi abbandonati e improduttivi e delle terre demaniali, e poi con l’entrata in scena dei movimenti degli studenti e delle donne, il popolo riprende in mano il proprio destino e prova ad essere “sovrano”.

Nel 2019, l’anno di Matera capitale europea della cultura, ricorre il 70° della morte del bracciante di Montescaglioso Giuseppe Novello, caduto il 14 dicembre 1949 sotto il piombo della polizia che il ministro degli Interni Scelba mobilitò per intimidire e reprimere il movimento bracciantile e contadino. Intere famiglie di braccianti e contadini, con alla testa le donne e i loro figli bambini, si muovono ed entrano nella storia: per la terra e il lavoro, contro la guerra e per la pace, per il pane e la dignità. Cantò il poeta Rocco Scotellaro (1923-1953), il più giovane sindaco d’Italia e leader del movimento contadino: “È caduto Novello sulla strada all’alba,/ a quel punto si domina la campagna,/ a quell’ora si è padroni del tempo che viene […]/ Cammina il paese tra le nubi, cammina/ sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,/ dall’alba quando rimonta sui rami/ la foglia perenne in primavera”.

Quel movimento è l’erede di quelle prime rivolte e lotte che si narrano nella mia ricostruzione storica; e di quelle successive tra fine ‘800 / inizio ‘900 quando un personaggio carismatico, Luigi Loperfido (1878- 1960) detto il Monaco Bianco, sempre a Matera, promuove (1901) la Lega di resistenza e fonda una Cooperativa di lavoro. Pur subendo battute d’arresto e sconfitte anche per i limiti dei gruppi dirigenti delle forze politiche socialiste e comuniste che lo sostenevano, questo movimento ha contribuito fortemente all’avanzamento democratico del nostro Paese e alla conquista di diritti fondamentali.

Fare memoria non solo è necessario, ma diventa oggi davvero indispensabile, proprio mentre, quasi travolti da una specie di diluvio quotidiano di narrazioni spesso fasulle e false ed ipocrite, rischiamo – come intera umanità – di perderci, bruciando le radici del passato, mettendo come gli struzzi la testa nella sabbia senza più comprendere il presente e precludendoci la visione e la costruzione di un futuro migliore. Ancora una volta, come in altre epoche della storia umana, ci troviamo oggi di fronte a classi dominanti di un’arretratezza culturale spaventosa e di un cinismo egoistico non più tollerabile. E, nell’era della comunicazione globale e onnipervasiva, si ripropone il problema della qualità delle classi dirigenti, seppure in termini diversi rispetto al passato. Dovrebbe essere compito fondamentale degli intellettuali riprendere in mano i fili della nostra storia e, nel contesto europeo e mondiale, individuare e conoscere i nodi che strozzano il processo di emancipazione e civilizzazione e di progresso autentico e sostenibile. In alleanza con quel ricco e variegato mondo della cittadinanza attiva e consapevole, plurale e creativa, impegnata e propositiva, chiamata anch’essa a prendere in mano il destino proprio e del proprio Paese. Ogni opera storica, oltre che essere costruita e narrata da sicura documentazione e rigore scientifico, dovrebbe essere animata da spirito di impegno civile ed etico/politico democratico e costituzionale. Ed è proprio la Costituzione della Repubblica Italiana, quella del 1948 a scanso di equivoci, la nostra bussola e la nostra àncora di salvezza nel mare in tempesta che agita i nostri giorni: attuarla in tutte le sue parti, a cominciare dalla prima, e smetterla di violarla manometterla e stravolgerla. Nelle sue Sei lezioni sulla storia Edward H. Carr riafferma, riecheggiando Gramsci, un concetto fondamentale da condividere: “Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere pienamente il presente unicamente alla luce del passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa è la duplice funzione della storia”. Espliciterei una terza funzione: la storia contribuisce a costruire il futuro, possibilmente senza gli errori del passato e le storture del presente. Ecco perché è da respingere decisamente ogni atto e tentativo di ridimensionare e di ridurre tempi e spazi all’insegnamento e all’apprendimento della Storia nella Scuola, nella Università e nella Ricerca.

(Giuseppe Natale, Milano, settembre – ottobre 2018

  • L’immagine   in copertina è stata disegnata da Nunzio Nicola Natale, figlio di Giuseppe

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