Conflitto israelo-palestinese. Rileggersi

di Ennio Abate

Stralcio da “Su una mia critica a Israele mediante slogan”, 2014 (qui)

Domanda: «Quale idea di una soluzione del conflitto tra Israele e arabi palestinesi (perché ce l’avrai pure una tua idea di soluzione) devo aspettarmi da quello slogan?».

Risposta: Questa domanda è difficile e quasi me ne ritraggo. Quando una situazione di conflitto è da tempo tragica e senza vie d’uscita come quella in Palestina, le soluzioni ragionevoli – “per noi”  o sulla carta – sono respinte dai contendenti e manca un ‘noi’ riconoscibile e autorevole – fosse pure l’Onu! -, io m’impongo di vedere le cose in maniera politicamente elementare; e cioè di ragionare – solo in apparenza “cambiando discorso” o “allungando il brodo” – sullo Stato, sugli Stati. Sarò schematico o rozzo, ma continuo a diffidare  e non riuscirò mai ad identificarmi in pieno con uno Stato, neppure con quello italiano di cui sono cittadino. E non tanto perché tra le sue prerogative ci sono quelle di condannare, uccidere, incarcerare, fare guerra, ma perché convinto che le eserciti non contro i prepotenti ma soprattutto sui meno potenti. Non ho mai creduto alla sua imparzialità, alla sua obbiettività. È per questo che mi sono ritrovato con convinzione nell’analisi marxista dello Stato e ho accolto l’ipotesi comunista di un superamento dello Stato. Ed è per questo che sono ostile allo Stato di Israele che esercita un predominio spietato soprattutto contro i palestinesi; e pure agli altri Stati, che lo spalleggiano o ne tollerano le continue, “necessarie” prepotenze. Data l’esistenza di Stati – macchine predisposte alla difesa dei prepotenti (o dei dominanti, delle élites, delle lobby) -, in politica non sono mai riuscito ad accettare il pacifismo. Lo considero un atteggiamento ambivalente. Da una parte induce a comportamenti realistici: quando lo strapotere è estremo, fingersi pacifici è una via quasi obbligatoria. D’altra parte, se il pacifismo diventa ideologia, “visione del mondo”, fede nel valore astratto della Pace, spinge di solito alla rinuncia – motivata spesso da fattori religiosi o anche laico-umanistici -; o alla rassegnazione nei confronti dei prepotenti, all’accettazione di conviverci assieme (lasciandoli prepotenti!); oppure al godimento spicciolo di vantaggi a volte non trascurabili. Non per questo mi sono mai sentito di sbeffeggiare il pacifismo attivo. (Nell’aprile del 2011, commentando l’uccisione di Vittorio Arrigoni, ribadii che «contro l’orrore della guerra e contro le miserie locali è necessario costruire ed usare tutti gli strumenti di volta in volta necessari per contrastarla: in situazione di estrema debolezza solo la parola, la testimonianza da profeti disarmati (come faceva a Gaza Arrigoni); in situazioni di sperabile maggior forza con tutti gli strumenti di cui si riuscisse a disporre.». Questa convinzione – che pacifismo e “lottarmatismo” siano strumenti da usare a seconda le circostanze, più favorevoli o più sfavorevoli (li usano entrambi i prepotenti, perché non dovrebbero  usarli i meno potenti?)- la devo al marxismo. Questo se si vuole realizzare un Progetto che miri a mutare i rapporti sociali di dominio (di prepotenza e violenza legalizzate) tra una parte degli uomini (le élites economiche, politiche, militari, culturali) e i restanti. Fino agli anni Novanta del Novecento mi pareva che tale Progetto potesse essere ancora il comunismo. Oggi non mi sento di indicare più con questo nome il Progetto. Che comunque mi pare da perseguire. Guardandomi attorno o guardando alla Palestina, non posso dire che questo Progetto sia  rappresentato per me da Hamas. E tuttavia devo riconoscere oggi ad Hamas che, opponendosi allo Stato d’Israele, tiene aperta in qualche modo una prospettiva diversa da quella dell’occidentalismo mondializzato a egemonia statunitense.  In modo giusto o sbagliato? Sbagliato “per me”. Perché lo fa ricorrendo alla religione, che per chi pensa laicamente è una regressione rispetto alla prospettiva  illuminista e poi marxista o paramarxista. Ed è chiaro che Hamas è la negazione del marxismo o dell’opposizione laica allo Stato d’Israele. Certo, ho tanti dubbi che andrebbero meglio indagati.  Dovrei – visto il liquefarsi di un pensiero marxista – apprezzare l’ideologia religiosa islamica solo perché oggi è l’unica che incoraggia ad opporsi nei fatti – pacificamente e/o con le armi –  allo Stato d’Israele (e ai suoi alleati)? Come non vedere che al fanatismo religioso del Likud si oppone altro fanatismo religioso? Posso non badare a che cosa verrebbe da una eventuale (ma improbabile) vittoria di Hamas su Israele? Non ricordo forse gli equivoci in cui incappò Foucault invaghitosi della rivoluzione iraniana di Khomeyni? Posso non tener conto della razionalità della geopolitica, che, come detto, in alcune sue correnti considera semmai la Russia di Putin la più importante antagonista degli ancora strapotenti e ultraviolenti USA e quindi ritiene che è da lì che potrebbero “riaprirsi i giochi” e forse delinearsi i tratti di un “altro” Progetto?

Ammetto (ma senza sconforto) di brancolare nel buio. Anche se non si potesse più arrivare, come abbiamo sognato da giovani, al superamento totale dei contrasti dell’individuo e delle società, al “Mondo nuovo”, alla “Società senza classi”; e non si potesse eliminare del tutto la prepotenza, tagliarle le unghie, limitarla mi pare ancora un buon Progetto. E di fronte al dilemma tragico della storia umana, intuito e ben formulato da Manzoni in quel suo «non resta che far torto o patirlo», ho sempre scelto, per quel poco che mi è stato possibile, di tentare di far torto ai dominatori, che lo fanno sistematicamente ai dominati, ai più deboli di loro, a chi osa ribellarsi. Questi, per ora, i miei dubbi e il mio contributo a chiarire quelle che anche tu ancora chiami le «verità da proteggere per il futuro».

6 pensieri su “Conflitto israelo-palestinese. Rileggersi

  1. La parola “pacifismo” ha una sua storia, che risale a un momento preciso di inizio Novecento. Se riesco a trovare la documentazione, la posto.

    Gandhi non la usava, forse anche perché in India non era conosciuta: le preferiva la parola di nonviolenza, che deriva dal termine ahimsa, poi rielaborata in satyagraha, che è un neologismo creato da Gandhi (“insistenza per la verità”, più o meno) dovuto al fatto che la parola nonviolenza rischiava di essere interpretata in termini passivi.
    In italiano ahimsa prima si traduceva in non-violenza, poi si è sdoganata la versione senza trattino: nonviolenza.
    Da allora, il pacifismo si confonde spesso con la nonviolenza, ma non sono la stessa cosa e in realtà si sono elaborate varie accezioni di pacifismo (c’è anche chi parla di pacifismo nonviolento).

    La questione violenza sì / violenza no credo vada storicizzata, così come quella della guerra.

    Marx è venuto prima di Gandhi e dell’era atomica.
    Alcuni preti cattolici hanno dato un contributo alla cultura della pace e della nonviolenza partendo da presupposti laici. Per esempio, Lorenzo Milani e Ernesto Balducci non erano contrari a priori a ogni tipo di guerra, ma valutavano l’era atomica (1945, Hiroshima) come uno spartiacque dopo il quale la guerra non poteva più essere presa in considerazione poiché da allora si è trasformata in massacro di civili – e Gaza mi pare rappresenti un esempio eclatante.

    Dal punto di vista delle lotte sociali e politiche, oltre all’opzione della lotta armata, sono arrivate con Gandhi altre opzioni come la disobbedienza civile e il boicottaggio.

    E nel caso di Israele, il boicottaggio sarebbe l’arma più efficace, come del resto lo è stato per il Sud Africa, solo che l’Europa essendo complice sta quasi tentando di renderlo fuorilegge – con la solita arma dell’antisemitismo: Italia e Germania stanno cercando di approvare una legge in tal senso.

  2. Del resto c’è una violenza, anche estrema, che è sempre più difficile da vedere: sono le sanzioni economiche, la gestione della finanza ad uso di dominio che sono da parecchi decenni arma degli USA (e dei loro amici e alleati) contro i nemici ma non solo: usati come ricatti e minacce contro tutti quelli che si vogliono docili e schiavi, dall’Africa all’America latina. E le conseguenze sono milioni di morti anonimi, che cadono in silenzio nei paesi colpiti, da Cuba al Congo, dalla Jugoslavia alla Grecia.
    Ricordiamo che la ‘guerra al terrore’ ha provocato 2 milioni di morti e 30 milioni di sfollati.
    Fare noi boicottaggio di fronte a questa massa di fuoco mi sembra uno squittio in una tempesta.

  3. Paolo
    Stai mischiando pratiche condannate dal diritto internazionale come l’embargo a Cuba con pratiche di consumo critico legittimo.

    E’ chiaro che le sanzioni possono essere usate in modo da produrre oppressione nel mondo, del resto ogni strumento nonviolento può essere usato anche in modo “violento” o con intenti non proprio edificanti (i radicali che digiunavano per avere più spazio mediatico, ossia a scopo egoistico sono un bell’esempio di uso perverso di uno strumento nonviolento).

    Però non vedo come questo debba far concludere che il boicottaggio non serva. In realtà, il boicottaggio verso Israele è attualmente uno squittio solo perché attuato da associazioni indipendenti, oltre che dai singoli. Ma se fosse esteso all’Ue, farebbe molto male, è l’unica cosa di cui Israele ha veramente paura, infatti si è mosso per fare in modo che venga stigmatizzato come antisemita e possibilmente proibito per legge.

  4. Sul Foglio Giuliano Ferrara commenta, in modo direi entusiasta, la strategia di Netanhyau, resa esplicita dallo stesso Netanhyau sul Wall Street Journal.
    Per Ferrare si tratta di una “posizione etica inattaccabile”.

    -Netanyahu di pura logica: la deradicalizzazione palestinese può far iniziare una nuova storia
    GIULIANO FERRARA 27 DIC 2023
    Il premier israeliano ha consegnato al Wall Street Journal tre punti di etica e politica inattaccabile: distruggere Hamas, demilitarizzare Gaza, sconfiggere il radicalismo. Niente a che fare con l’immagine facilona dell’uomo nero. E poi l’Iran.
    Chiedete a chiunque un’opinione su Netanyahu. Risposta universale o quasi: uomo pessimo, uomo nero, ha imbarcato la peggiore destra nazionalista e suprematista al governo, agisce per salvare sé stesso se non il suo ego, se ne frega degli ostaggi, incoraggia i più estremisti tra i coloni della Cisgiordania, snatura la democrazia israeliana, ha lasciato indifeso Israele nel sud per perseguire un sogno di Realpolitik mostruoso, fondato sugli accordi di Abramo, la negazione della questione palestinese, il contenimento corrivo di Hamas a Gaza, e ora è un bombardiere e un massacratore di civili innocenti, oltre che un politico corrotto in attesa di giudizio. Può darsi. Lasciamo che le opinioni seppelliscano le opinioni, niente è più facile e consolante.
    Ma vediamo che cosa dice e fa Netanyahu esaminando parole e comportamenti come si desumono dai primi due mesi di guerra contro Hamas e dal suo manifesto politico pubblicato sul Wall Street Journal. La decisione e la lucidità impressionano, visto che Bibi fa il mestiere più difficile e ingrato del mondo nel momento peggiore. In paragone alle chiacchiere di un Blinken, alle remore di un Biden, che pure sono suoi solidi alleati, per non parlare dell’Onu e di certe posizioni europee, è un gigante di logica e di razionalità politica, dunque anche il titolare di una posizione etica inattaccabile. Lo si vede da come argomenta le cose che fa contro ogni riluttanza obliqua. Sarà travolto forse, quasi sicuro, da quel che accadrà dopo la fine delle ostilità a Gaza. Israele non gli perdonerà, al di là di tutto, la mancata protezione dei kibbutzim investiti dalla furia barbarica del 7 ottobre. Non è questione di destra o di sinistra, è questione di fiducia. Ma per il momento, come comandante in capo di un esercito di riservisti che svuota il paese nell’appello alla difesa della propria esistenza fisica e statuale rivolto a un’intera generazione di combattenti, per il momento la posizione di Netanyahu è chiaramente senza alternative.
    Primo: distruggere Hamas. Hanno giurato che lo rifaranno, sono devoti della scomparsa di Israele, sono nemici assoluti, efferati, privi di ogni scrupolo, fanatici della prima specie. Questa è l’unica risposta proporzionata a quel che è successo il 7 ottobre. Punto. Va fatto, e Israele per quanto possibile lo fa, rispettando la legge di guerra e umanitaria, cercando di evitare il carnaio dei civili.
    Non è facile perché Hamas punta al massacro dei civili, sua arma propagandistica maggiore. Avallare l’idea che Israele e non Hamas è responsabile delle vittime estranee ai combattimenti e delle sofferenze della popolazione intera vuol dire incoraggiare nuove strategie dello scudo umano e tattiche intese a disporre dei civili come oggetti di negoziato o di scontro, ciò che è estraneo alle regole di Israele ed è il cuore della filosofia e della pratica di Hamas.
    Secondo: demilitarizzare Gaza. La Striscia è un serbatoio di armi e miliziani terroristi, è un luogo di superficie e sotterraneo di organizzazione della violenza e di soppressione della libertà e dell’indipendenza dei vicini di oltreconfine, è la palestra del più abietto fenomeno di terrorismo che si ricordi. Hanno fatto qualcosa che non si vedeva dai tempi di Heydrich. Questa è la loro misura. Non possono pretendere, le alte autorità politiche e morali comprese quelle dalla parte di Israele, che Israele accetti nella Striscia una sovranità, men che meno armata, quale minaccia esistenziale alla sua vita e alla sua pace.
    Terzo: deradicalizzare i nemici di Israele. Germania e Giappone sono stati deradicalizzati dopo la loro sconfitta nella guerra mondiale, il fenomeno dura ancora e quelle due democrazie sono pilastri dell’occidente libero. Lo stesso deve accadere nella Cisgiordania, a Gaza. Ci vuole un’autorità politica e morale che oggi non esiste se non nei sogni umanitari più ottusi, non certo l’Autorità palestinese che non ha ancora trovato il modo di condannare il 7 ottobre e nelle cui scuole si insegna l’odio antiebraico e il progetto di distruzione dello stato di Israele. Quando la deradicalizzazione avrà cominciato a sortire i suoi primi e profondi e ravvisabili effetti, solo allora si potranno ricostruire vicinanza e pace tra Israele e i popoli che pretendevano un tempo di distruggerlo.
    Chi vuole ora si riveda la didascalia iniziale sull’uomo nero e ci rifletta sopra. Può essere che resti di quell’opinione e la disseppellisca. Può essere che capisca meglio come mai il premier nero è tutt’ora il capo di un paese in guerra, che fa drammatiche rinunce, che tenta di liberare sé stesso e gli ultimi ostaggi con la pressione bellica contro i predoni di Hamas, che ha incamerato nel gabinetto di guerra il generale e politico più rappresentativo dell’opposizione, che sta esaminando (è convinzione di chi scrive) se sia davvero evitabile l’estensione del conflitto al suo mandatario per castigare le sue ambizioni. E si parla dell’Iran e del suo asse della resistenza.

  5. @ Lorenzo Galbiati

    Siamo già depressi per quel che succede a Gaza (e in Ucraina). Non mi pare una buona idea somministrare una dose di pedagogia degli oppressori da parte di questo pennivendolo guerrafondaio.

  6. Al pennivendolo in questione ben si adatta questa amara riflessione di Sofsky, che citerò per un altro articolo ma voglio proprio riferire ad personam:

    “Da sempre invece gli uomini distruggono e uccidono volentieri e con naturalezza. La loro cultura li aiuta a dare forma e figura a questa potenzialità. Il problema non è dato dall’abisso fra le pulsioni più oscene e le promesse del mondo civile, bensì dalla corrispondenza fra violenza e cultura. La cultura non è affatto pacifista. Lei stessa è parte del male. In realtà gli uomini sono molto adatti alle loro culture che sono la loro immagine ed esprimono le loro inclinazioni. Se Freud fosse vissuto fino alla fine della Seconda guerra mondiale, difficilmente avrebbe potuto non domandarsi se mai un’altra volta un esperimento della cultura dovesse essere ripetuto”.

    ( Sofsky, Saggio sulla violenza, pagg. 194-195, Einaudi, Torino 1998.

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