Nevio Gambula – Io sono Artaud

 

di Lorenzo Galbiati

Verona, venerdì 16 febbraio, ore 21. Teatro Modus. Sono seduto in ultima fila di fianco al mixer, dove è presente il tecnico del suono. Al momento c’è buio e silenzio. Tra poco andrà in scena Nevio Gambula in “Io sono Artaud – o dell’insurrezione di un corpo”. Testo di Gambula ispirato a scritti di Antonin Artaud e alla tragedia “Penthesilea” di Heinrich von Kleist. Regia e suoni di Gambula.

Buio quasi totale. Intravedo una sagoma bianca. Arriva un suono al contempo grave e stridulo: “Linnnnnnnngua!” è ciò che percepisco faticosamente. Una parola, una dichiarazione d’intenti. Una parola pronunciata stiracchiandone le sillabe, rendendola puro suono dall’umore minaccioso.
Scorgo un Gambula-Artaud seduto e vestito con una tuta bianca. É un lamento il suo, un’invettiva, un’insurrezione (l’insurrezione di un corpo) espressa – più che narrata – con uno straniante uso della voce che rimanda al teatro di Carmelo Bene. È l’insurrezione dell’Artaud internato in un ospedale psichiatrico che rivendica la propria libertà di pensiero di fronte ai medici che vogliono entrare nella sua mente. L’insurrezione dell’uomo isolato dal mondo nella sua disperazione, nella sua irriducibile verità, unica ancora di salvezza da un reale insensato cui non si vuole uniformare. E in questo reale non manca il presente, non manca la guerra, con tanto di evocazione della carneficina di Gaza – del resto avvenuta dopo l’insurrezione armata di un popolo senza futuro.
Gambula nel suo monologo sprofonda in una vocalità cavernosa e grottesca, poi si inerpica in una vocalità acuta e quasi isterica, per poi tornare alla voce sonora più usuale. La progressione delle vocalità è assecondata da un sottofondo musicale noise minimalista che presenta ciclicamente delle brusche impennate, delle rasoiate elettroniche che vanno di pari passo con l’esasperazione vocale.
La scena regala ogni tanto squarci di sereno, ma è una pace non pacificata, come quella della “Ballata degli Impiccati” di De André, cantata dall’attore con voce monocorde.
L’occhio si è abituato alla penombra e ora vedo distintamente che l’uomo Artaud è seduto su una sedia a rotelle, simbolo dell’imprigionamento fisico. Tutta la gestualità del corpo è concentrata nelle braccia, nel volto e nella voce – il resto è proprietà dell’ospedale psichiatrico.
A un certo punto arriva la luce, a scindere la prima dalla seconda parte dell’atto scenico. Il protagonista, sempre seduto, si posiziona dietro a un leggio pieno di fogli, davanti a sé ha due microfoni modulati con effetti sonori diversi. Inizia una lettura recitata di alcune scene della tragedia “Penthesilea”. Il ritmo è molto più incalzante rispetto alla prima parte, vedo l’attore cambiare continuamente microfono e gettare platealmente i fogli del testo alle sue spalle. È la foga della battaglia tra le Amazzoni guidate da Penthesilea e le truppe greche di Achille, foga intervallata da due ballate acustiche guidate dagli arpeggi della chitarra (una è di Leonard Cohen, ma cantata da una voce femminile).
Il recitante è sempre Gambula-Artaud, lo capisco dal roboante tono della voce, dai continui richiami a sé stesso (“Io sono Artaud!), dall’esacerbante affastellarsi di immagini, dialoghi e riflessioni che rincorrono un senso disperante del vivere.
La conclusione avviene naturalmente, quasi per un esaurimento dell’energia scenica condiviso dallo spettatore, che al pari dell’attore ha vissuto l’estenuante percorso dipanato sul palco.
In controtendenza rispetto ai tanti monologhi teatrali finalizzati alla narrazione di una storia, il monologo di Gambula a cui ho assistito è imperniato sulla lingua, o meglio, sulla voce che scandisce, disarticola, esaspera, deforma il suono della lingua.
Lo spettatore si trova perciò di fronte a un teatro che non cede ad alcun compromesso, non cerca di accattivarsi il suo favore con gli abusati trucchi del mestiere. In linea con il teatro della crudeltà teorizzato da Artaud, il regista-attore si cimenta in un’arte scenica impegnativa, la cui ricezione può risultare a tratti disturbante – nel mio caso un inebriante disturbo.
Non si tratta però di un puro esercizio di stile, perché la trama non manca, Gambula procede a strappi, con resistenze e reticenze nell’esibire l’angoscia esistenziale di Artaud che, imprigionato nel suo corpo, tenta di insorgere, di esprimere l’inesprimibile, il senso di isolamento e frustrazione di chi emette un grido inintelligibile al mondo. Il suo lamento è lo stesso che pervade la tragica storia di amore tra Penthesilea e Achille, segnata da una veemente follia che si placa solo laddove la morte ferma l’insensatezza di un rito feroce e sacro, quello della battaglia fino alla vittoria con in premio l’amore del vinto – che sa tanto di stupro del suo corpo.
Il teatro come sprofondamento negli abissi dell’insensato – sprofondamento e tragica insurrezione.
Prendere o lasciare.

 

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