Su Il palazzo dei vecchi guerrieri di Franco Tagliafierro
di Ennio Abate
Questa mia lettura del romanzo di Franco Tagliafierro porta la data del 12 dicembre 2010. La ripubblico oggi, dopo la sua morte e mentre riordino il carteggio avuto con lui, perché, comparsa allora sul sito di Poliscritture dismesso, non è più recuperabile on line.
1. Un romanzo amarissimo
Il palazzo dei vecchi guerrieri è per me un romanzo amarissimo. Perché, vecchio quasi quanto i personaggi protagonisti, vi riconosco senza fatica, pagina dopo pagina, gli echi disastrosi e deprimenti della storia politica italiana del secondo Novecento. E perciò, malgrado le sapienti e garbate velature ironiche (e autoironiche) del narratore, non esito a collocarlo nel filone pessimistico del romanzo italiano. Magari unicamente per la scelta finale del protagonista, Macario Bentivegna (nome di comico e cognome augurale di speranza), di fare da solo tabula rasa – e per «legittima difesa», e con l’esplosivo – del Palazzo a cui era così affezionato. Gesto che l’avvicina all’anonimo protagonista de La vita agra di Bianciardi, il quale voleva far saltare in modi simili il «torracchione»; e prima ancora al protagonista de La coscienza di Zeno di Svevo, che s’attendeva la guarigione dell’umanità malata da «una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni».
2. Allegoria politica dell’imputridimento dell’Italia
Il Palazzo. Ah, quale simbolo! Alcuni lettori (vecchi, eh!) potranno pensare al Palazzo d’inverno conquistato nel 1917 da Lenin e dai suoi e poi col tempo crepatosi, sgretolatosi e a fine Novecento imploso assieme all’Urss. Ma non sarà difficile anche ai giovani vedere l’Italia odierna come un putridero (termine spagnolo che indica la cella dove i cadaveri imputridiscono «a loro agio», pag. 11) o come un condominio nei cui sotterranei, democraticamente vietati ai cittadini, fermentano misteriosi e infidi intrighi.
Il romanzo di Tagliafierro è per me un’allegoria politica dell’imputridimento dell’Italia contemporanea; paese dove «i misteri di oggi si accumulano sugli ex misteri di ieri» (pag. 8); paese, come tanti altri, in mano a mafie e a lobby di banditi collegate a multinazionali tipo la Multiconfort, che aggira e sottomette ai suoi scopi gli Stati-nazione.
Moltissimi (quasi ad ogni pagina) sono i riferimenti a personaggi d’oggi, che hanno agevolato il «passaggio dalla barbarie spregiudicata a quella iperbolica» e impediscono ogni «distinzione tra comportamento legittimo e quello predatorio» (pag. 8). E a cogliere lucidamente (e garbatamente) questo decadimento non può essere che la voce orgogliosa di un vecchio professore, che conosce la storia (anche non ufficiale) di questo Paese, che ha abbandonato il mito americano sognato da giovane, che ha in gran sospetto la globalizzazione ed è ancora in grado di reagire al generale degrado culturale («io non ho messo mai di accorgermi delle schifezze e degli orrori quotidiani», pag. 14).
3. Amabilità e scetticismo
I protagonisti del romanzo – il suddetto Bentivegna, e i suoi amici «lillipuziani» (i pensionati che s’improvvisano investigatori per svelare cosa succede nei sotterranei del palazzo) – le tentano tutte per contrastare l’eliminazione del proprio mondo, ma il progetto di distruggere il putridero («Lo stato borghese s’abbatte, non si cambia!»), pur all’inizio sostenuto dalla collettività guidata da un’improvvisata avanguardia “condominiale” quasi paraleninista, non regge. Malgrado la tenacia pedagogica di Bentivegna e dei suoi più fidi aiutanti, i pensionati – ancora «guerrieri», ancora con tratti e tic da sessantottini irriducibili, ancora pesci guizzanti nel residuo stagno ideologico da “popolo di sinistra” – alla fine devono cedere.
Bentivegna stesso, il pignolo «cronista» degli avvenimenti, insisterà sui grotteschi comportamenti degli acciaccati «guerrieri». La sua amabilità nei loro confronti cederà sempre più alla battuta cattiva, al distanziamento, allo scetticismo verso la lotta intrapresa: «come se la nostra dimensione sociale fosse quella della passività totale di fronte ai putrideri, sia quelli gestiti dai mafiosi che quelli istituzionali» (pag. 23). Sempre più egli assomiglierà a un Ettore che continuerà la lotta, ma già sapendo che Troia va incontro alla sconfitta; e sarà costretto a trasformarsi suo malgrado nel solito, classico eroe, tragicamente solitario (vecchio per giunta), che col suo sacrificio surroga un popolo o una classe che non esiste più. La sua fede nell’Utopia, che egli con realismo machiavelliano ancora aveva contrapposto agli ingenui pacifisti durante una eccitante, ma inutile manifestazione contro la guerra di Bush (pag. 208 e segg.), assumerà alla fine i colori, mortuari comunque, del gesto suicida esemplare.
4. Vecchiezza e E(r)os
Nell’introduzione al suo recente «Stile tardo»1 Luca Lenzini, esaminando la vecchiaia di vari poeti in vista del Novecento, ha scritto:
Non è un processo lineare né una conoscenza indolore, bensì una ricerca inquieta, inappagata: «l’orgoglio e la sete di libertà degli spiriti individuali» che per Nietzsche è prerogativa dello spirito della giovinezza sembra insomma essere, paradossalmente, l’eredità della grande arte della vecchiaia. Invece dell’indurimento, della canonizzazione e del rifugiarsi, in essa si esprime una tensione al superamento, un moto iconoclasta e prometeico, persino una rivolta. In quanto luogo elettivo di un’indagine volta al limite ed insieme alle origini dell’esperienza, l’arte dei grandi vegliardi può aprirsi, infatti, ad un gesto radicale ed estremo; tale da rompere non solo con la tradizione ma con le strade fino ad allora seguite dal medesimo artista, che altre ne percorre, imprevedibili e sorprendenti, «persino imbarazzanti» (con le parole di Momigliano) e talora con un tratto irridente verso il proprio stesso “stile”.2
Riporto questa citazione, perché non mi pare casuale questa convergenza da più parti (trascuro le analisi sociologiche o antropologiche) sul tema della vecchiezza; e non solo in Italia, ma in Occidente. Tanto più che nel romanzo di Tagliafierro il punto di vista privilegiato è proprio quello di un vecchio, mentre l’ultima sua parte è una meditazione, sempre narrativamente sciolta, sulla morte. Della vecchiezza poi egli tesse una sottile apologia, pur senza mai nasconderne gli aspetti fastidiosi o persino repellenti.
Avvicinando politica e vecchiaia proprio grazie all’elemento erotico, l’allegorismo del romanzo non resta freddo e astratto. (Del resto lo scontro tra strategie di dominio e tensioni alla cooperazione sono presenti sia nella politica che nell’amore). Sul collo di questi vecchi, ma soprattutto del Bentivegna, alita, dunque, sia il fiato pesante della multinazionale Multiconfort sia quello di Thanatos. Ma anche quello “femminile” di Moira, un alter ego femminile che suggerisce e provoca in continuazione. E però, direttamente destinata al vecchio professor Bentivegna, giunge la sorpresa della sensualità (e sessualità) finalmente sbloccata di Eos, una giovane manager super specializzata, quasi un emblema dei cosiddetti «lavoratori della conoscenza», che potrebbero (non si sa mai) sostituire i vecchi pensionati (della sinistra) nella lotta contro i nuovi Superpoteri.
Thanatos ed Eos, dunque? La Morte e l’Aurora! Il narratore libera alcuni dei suoi personaggi (il professor Bentivegna, Eos, il pittore Febelli, Moira) almeno dai ceppi del pessimismo ascetico e delle nevrosi colpevolizzanti. È il vecchio professore, in particolare, che risveglia il proprio assopoto vigore e asseconda sia la maturazione erotica di Eos sia lo spostamento del desiderio di lei verso un oggetto d’amore più giovane, il pittore Febelli. Rispetto a precedenti modelli “borghesi”, in cui vecchiezza e giovinezza (meglio ancora maschio vecchio e giovane donna bella) entravano in un attrito irreparabile e tragico,3 nel rapporto tra il professore Bentivegna ed Eos lo schema di dominio tra i sessi viene aggirato e si ha un addolcimento dei tormenti un po’ lugubri, in cui Svevo lasciò avviluppato il protagonista di una sua novella paradigmantica: quella de Il buon vecchio e la bella fanciulla. Non viene, però, aggirata né evitata la coazione al sacrificio di Bentivegna impegnato nella senile lotta politica condominiale. È come se in questo campo non ci sia possibilità di sottrarre i buoni, i giusti, alla dialettica distruttiva amico-nemico. Per cui, resi inoffensivi tutti gli strumenti di “resistenza democratica”, al terrorismo calcolato della Multiconfort si può (si deve), anche da parte di un vecchio, rispondere soltanto con la logica tremenda dei kamikaze.
5. Il narratore
Tagliafierro tratta i suoi due temi di fondo – quello epico-politico della resistenza dei vecchi pensionati contro lo strapotere multinazionale della Multiconfort e quello erotico-esistenziale che ruota attorno alla «bellezza anomala» di Eos – zigzagando da maestro tra diversi generi popolari: noir, giallo, horror, erotico. Che a Il palazzo dei vecchi guerrieri si adatti la definizione di «cocktail di fantascienza, fantaeconomia e fantapolitica», espressione da lui usata a pag. 189? Perché no. Pur affascinato dalle «strategie economico-finanziarie globali» e in genere dalla politica come scienza, Tagliafierro è un narratore e non un romanziere a tesi. Della politica e dei suoi aspetti a volte paranoici si serve per attirare il lettore nelle sue maglie narrative. Ed è questa sua vocazione narrativa, questo suo costante sforzo di parlare a un pubblico di profani, che forse rende così teatrale il suo personaggio centrale, Bentivegna.
Tagliafierro-Bentivegna ama, infatti, narrare per costoro. Si lascia tentare dalla battuta burlona e ad effetto. Allunga i tempi del racconto. Tiene sulle spine i lettori. Ritma le vicende in un’architettura complessa di capitoli (tutti intitolati, però, e conclusi in sé). Attizza la loro curiosità, seminando enigmi ad ogni passo (la Sconosciuta ad es.), che poi riprende e scioglie nel finale. Spiega il romanzo nel suo farsi, ma si concede numerose digressioni a sfondo filosofico. Espone con rigore logico le ipotesi investigative, ma per captare l’attenzione ricorre con facilità all’iperbole, all’elencazione anaforica. Seduce, dunque, continuamente i suoi preferiti, i lettori “comuni”, coi riferimenti ad eventi e oggetti dell’attualità, proprio per restare sempre in contatto diretto con loro e con la loro visione delle cose. (E si potrebbe cavare un campionario significativo del linguaggio massmediale di fino Novecento da questo libro). Li strapazza anche, però. E, direi, li sfianca persino con innumerevoli citazioni colte (un’enciclopedia da erudito con una genuina attenzione alla storia e alla filologia) e con un lessico che a tratti si fa ricercato, veramente professorale.
Consapevole dei rischi di questa teatralità e professoralità, Tagliafierro s’è premunito, affiancando al suo professor Bentivegna, il sobrio Malapata: un doppio, un supplente, uno specialista in «pene d’amore», coadiuvante e concorrente al tempo stesso del primo (pag. 227).
Sta a Malapata correggere, integrare, bloccare l’enfasi di Bentivegna. E in modi più pacati, diversi da quelli stizziti di Moira – altra funzionaria che ha il compito di fustigatrice femminile dei pensieri più audaci o bizzarri di Bentivegna. E gli interventi di Malapata sono sempre incisivi, anche quando dà conto della sua “verità” metanarrativa nell’ultimo capitolo, niente affatto da «non leggere» o dovuto soltanto a «pignoleria di testimone», come il narratore insinua. Tra i due la complicità è quasi perfetta. E non è un caso che Bentivegna s’accosti allo stile di Malapata quando parla della tragica fine di suo cugino partigiano (p.167 e segg.) e che Malapata tocchi punte persino liriche (che Bentivegna “teatrale” sbeffeggerebbe) nel flash back che rievoca la nascita drammatica di Eos (p.275 e segg.). Che al prossimo romanzo tocchi a Malapata il ruolo da protagonista?
12 dicembre 2010 (anniversario della strage di Piazza Fontana)