di Ennio Abate
«Oggi la sua [della poesia ] complessità crescente e le sue criptiche, imprevedibili e disseminate tradizioni, ne fanno una straordinaria e incomprensibile coda di pavone che sempre meno esperti riescono a apprezzare, perché la tradizione non è più unica e condivisa, ma segmentata sempre più» (Tommaso Di Dio)
Ma perché, dai! Se è dagli anni 70 –
quando Berardinelli vide «l’astro esploso»
cadde da cavallo e si pentì passando poi al Foglio –
che si ciancia di «tradizioni moltiplicate
esponenzialmente, multimedializzate e ibridate,
in modo talmente vertiginoso e acritico che
nessuno può più pretendere di avere la Poesia»,
perché, perché
i poeti dovrebbero « compiere uno sforzo
di ritorno al testo, di stare sui testi»?
Che s’intestardiscano invece
nella «implacabile lotta per la vita».
Che abbandonino gli ermi colli
(se ci sono mai stati) e bivacchino tutti i giorni
«su social network, YouTube, smartphone ecc.».
Gettino la «carne umana e sociale»
della tramortita Poesia, se ancora respira
in questo Pozzo Nero di Liquami Mondiali.
Che i pavoni del cortile A
soddisfatti come assassini inconsapevoli
ruotino «la fenomenale bellezza delle loro ampie code»
e gridino ai pavoni del cortile B: narcisisti!
E quelli dal cortile B echeggino insistenti: narcisisti !
a quelli del cortile D. E via seguitando …
Che ciascuno sia frammento e continui a frammentarsi,
fondi clan, idioletti e micro-comunità.
Così, morta la Poesia, se ne farà finalmente un’altra.
Nota
Mio commento a Il fraintendimento del reale (QUI)