Il problema della violenza nella storia (irrisolto? irrisolvibile in termini assoluti?) si ripropose nell’Italia degli anni ’70 del Novecento in termini di “falsa guerra civile” (Fortini)? Il principio pacifista avrebbe potuto suggerire pratiche che avrebbero evitato morti, sofferenze e il “tramonto della politica” (Tronti)? In “Aperte lettere” (2023) di Rossana Rossanda, di cui pubblicherò uno stralcio nei commenti, si legge una recensione ad “Extrema ratio”, libro di Fortini pubblicato nel 1990, dove la questione dei “giovani delle lotte armate italiane” degli anni ’70, di cui torniamo a discutere in Poliscritture, è posta nei termini in cui io pure credo di averla posta. E che Lorenzo Galbiati non condivide e contesta. Forse nelle mie e nelle sue parole – lui nato nel 1970, io che sono del 1941 – ricompare uno scarto di cultura politica generazionale sul quale è bene riflettere. [E. A.]
di Lorenzo Galbiati
Raccolgo qui, schematicamente, alcuni pensieri spero ben ordinati che mi sono sorti leggendo l’articolo “Anni’70. Sconfitti sì, pentiti no.” (qui) e la lunga risposta a punti, sempre di Ennio Abate (qui), a un mio primo, improvvisato e soggettivo commento (qui).
1) Il tema del leninismo.
Condivido la posizione della Rossanda: le BR nascono dall’album di famiglia del comunismo, oltre che dalle fabbriche (e sbagliava il Pci a disconoscerlo) ma, allo stesso tempo, come dice in faccia a Moretti, riportato nel suo libro-intervista1, avevano ben poco di leninista, mischiando il comunismo al guevarismo e ai guerriglieri metropolitani tupamaros in un modo personale e tutto italiano. Personalmente, credo che la loro preparazione teorica marxista fosse molto approssimativa e dilettantesca, infarcita di una lunga serie di distorsioni.
2) Il tema della violenza.
Riprendo quanto riportato da Abate:
“Quei “lottarmatisti” finiti in carcere sostenevano ora che fosse stato un errore aver fatto «uso della violenza» e la sentivano come una colpa morale. Toccò proprio a Fortini ricordargli che, cancellando essi stessi la dimensione politica della loro azione, abbassavano la loro rivolta al livello dell’azione di «una banda di assassini o [di] un’associazione di indemoniati». No – gli replicava severamente – l’errore non era stato questo, non era stato morale. Era nato – e ben prima degli atti di violenza poi compiuti – da una cattiva «lettura e valutazione dei fattori politici che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui [il Partito Armato] era una parte». E aggiungeva che il loro errore politico era stato ben più grave di quello morale: quest’ultimo riguardava l’individuo, mentre quello politico si era trasformato «in sofferenze e rovina per gli altri».”
La tesi portante di Fortini e di chi ha partecipato alle formazioni extraparlamentari è che i lottarmatisti hanno sbagliato lettura della realtà, hanno applicato la violenza rivoluzionaria a una realtà che non era pre-rivoluzionaria. Hanno anticipato i tempi, insomma. Quindi, l’errore è stato, a livello collettivo, di valutazione politica e, a livello personale, di coscienza (morale). Vale a dire: quella stessa violenza avrebbe potuto essere “inevitabile” (per quanto non “giustificata”) in un tempo dove la rivoluzione fosse davvero alle porte. Capisco bene? Spero di sì.
Credo che il ragionamento sia in gran parte valido. Ma non mi soddisfa del tutto. Provo a spiegare perché. E per farlo mi collego ai dissociati. Prendo in esame Buonavita, Franceschini, Morucci e Bonisoli. Nessuno di loro pentito a livello giudiziario, ma di fatto pentiti a livello umano e politico – deduco io. Buonavita nel 1981, nella sua lettera aperta a tutti i proletari pubblicata dall’Espresso2, afferma che la lotta armata brigatista ha perso ogni contatto con la lotta di classe e si è trasformata in terrorismo che ha disseminato di morti l’Italia, andando contro gli interessi dei proletari e provocando la repressione statale con tanto di carceri speciali3. Ora, al di là del chi ha cominciato prima con la violenza (Stato o lottarmatisti?), fattore rilevante in effetti ma a mio parere non dirimente4, è evidente la distanza tra Buonavita da una parte e Curcio, Moretti e Balzerani dall’altra. Questi ultimi, infatti, nel 19885 dichiararono finita l’esperienza delle BR proclamando la loro estraneità dal terrorismo, individuato soltanto nelle stragi di Stato. La loro richiesta di discussione su quanto avvenuto in quegli anni non lasciava grande spazio all’autocritica, il loro “prendersi in solido tutte le responsabilità” a me suona falso, perché alla fine addebitava la “colpa” di ogni azione brigatista al “conflitto sociale” in atto.
Franceschini e Morucci invece sono nella sostanza sulla stessa linea di Buonavita. E cosa li ha portati verso questa analisi?
Franceschini ha spesso evidenziato che lui e Curcio parlavano di “propaganda armata” e non di “lotta armata”6. Non avevano mai pianificato un omicidio o una gambizzazione, non avevano mai considerato un’azione violenta a sangue freddo – la consideravano solo nel pieno dell’azione. Per loro non era ancora il tempo della rivoluzione, era tempo di propaganda politica fatta con la coercizione delle armi. I loro obiettivi erano politici, come fa presente Buonavita: per Sossi avevano sì preso in considerazione anche l’eventuale uccisione dell’ostaggio ma forse solo in modo astratto, di fatto per liberarlo si sono accontentati (specie Franceschini, che ha deciso il tutto) di segnali politici. C’era una remora verso il dare la morte. Remora politica o etica? Non credo si possano scindere i due piani. Dal 1976 in poi, con l’omicidio di Coco, favorito anche dall’uccisione della Cagol, la remora viene meno, le BR passano alla guerriglia, che si trasforma via via in terrorismo. Buonavita è il primo ad accorgersi, perché rifiuta di far parte di un gruppo che dà la morte in modo così scriteriato, diffuso e senza più alcun legame con i proletari. Si rifiuta di avallare un piano di evasione che avrebbe portato, secondo lui, a molti morti. Entra in gioco, quindi, un fattore personale, di “umanità”, legato all’agire politico.
Franceschini dal carcere, dopo aver sentito parlare di una rapina di finanziamento finita con l’uccisione, non necessaria, di due agenti, sviluppa un rifiuto verso questi brigatisti che rapinano – come faceva lui in passato – e poi uccidono solo per finire sui giornali. E da lì inizia il suo percorso di dissociazione, poiché dice che cominciò a sentirsi un terrorista. Scrisse un documento che sottopose a Curcio ricavando accuse pesanti di essere diventato un controrivoluzionario (forse il preludio alla eliminazione dei vecchi compagni che dissentono se si fosse raggiunto il potere?).
Morucci7 è probabilmente rimasto segnato dall’aver ucciso nell’agguato di via Fani i due carabinieri che trasportavano Aldo Moro. Si è poi opposto all’uccisione di Moro perché si chiedeva: Come possiamo reclamare delle condizioni carcerarie dei nostri compagni e poi uccidere il nostro prigioniero? Dopo quel 9 maggio 1978 è uscito dalle BR con Faranda fuggendo di soppiatto (temeva li avrebbero uccisi) e pur continuando la lotta armata, si è dato un limite chiaro: lui e il suo gruppo non avrebbero più ucciso, schifato dalla lunga scia di sangue che avevano lasciato le BR e Prima Linea. Anche lui ha arretrato di fronte alle molte uccisioni.
Io credo che l’omicidio mirato NON sia un atto rivoluzionario, bensì terroristico, specie se di un civile (e per civile intendo anche giudici e militanti politici).
Negli anni Settanta non era in corso una guerra civile, come dice giustamente Fortini, né tanto meno una guerra con un esercito invasore che nel nord Italia uccideva, arruolava forzatamente nell’esercito repubblichino, mandava gli uomini ai lavori forzati in Germania con rastrellamenti nelle città.
Nel mio paese dell’hinterland milanese, Carugate, nel 1944 i nazifascisti rastrellarono una cinquantina di giovani e li spedirono per un anno ai lavori forzati. Uno dei miei nonni, il mugnaio del paese, era costretto a dare la farina ai tedeschi, l’altro, più giovane, si era nascosto nei campi per evitare di essere deportato. I partigiani uccidevano militari tedeschi o repubblichini con il fine di riprendersi la propria terra. Quando uccidevano spie o traditori, si trattava di soldati oppressori – quando uccidevano preti o altri civili perché fascisti, commettevano atti di terrorismo.
Minacciare di morte chi usciva dalle BR, o uccidere il fratello dell’”infame” Patrizio Peci sulla base di semplici sospetti è stato un abominio: posso capire che all’epoca i brigatisti condivisero la scelta, ma è un grande limite, oggi, non dire che fu un atto di terrorismo mafioso.
In definitiva, pur condividendo l’obiezione iniziale di Fortini, le mie conclusioni sui dissociati sono opposte alle sue (forse perché ci riferiamo a persone diverse?): a mancare di analisi politica non sono Buonavita, Franceschini e Morucci, bensì Curcio, Moretti e Balzerani. Sono questi ultimi a non riconoscere che la loro idea di rivoluzione poggiava su analisi politiche inadeguate(ciò che Fortini chiama “lettura e valutazione dei fattori politici”) della realtà italiana.
Al ragionamento di Fortini aggiungo questo: anche ammesso (ma non concesso, da parte mia) che la violenza rivoluzionaria sia inevitabile, la forma che ha preso quella delle varie formazioni armate era sbagliata (eticamente, politicamente) a prescindere da qualsiasi situazione storica e politica, perché si è via via configurata come terrorismo (più che come criminalità comune, cui la associa Claudio Cereda (qui), di cui comunque condivido gran parte del discorso). Ricordo che anche Toni Negri era contrario agli omicidi mirati e ha parlato delle BR davanti a Zavoli come di una “classica formazione terroristica” verso cui era molto distante. In altre parole, se ci fossero state delle condizioni pre-rivoluzionarie, la violenza “inevitabile” di cui parla Fortini si sarebbe prodotta in forme molto diverse, per esempio in una insurrezione armata (preparata nel segreto, d’accordo, ma poi messa in atto alla luce del sole)8.
3) Il tema del personale e del politico.
Sono d’accordo con Abate sul fatto che il personale abbia dei risvolti politici, a patto che non si arrivi a dire che Niente è personale e tutto è politico, conclusione a cui mi pare si giunga dicendo guevarianamente che Ognuno di noi da solo non conta niente. Il rifiuto dell’individuo a favore del NOI è un rischio reale in chi abbraccia l’ideologia marxista in modo rigido (e forse anche altre ideologie totalizzanti). La violenza politica brigatista su cosa poggiava? Come dice Bonisoli9, sulla negazione dell’individuo: per le BR non c’erano persone da uccidere, c’erano solo simboli del potere da abbattere. Reificazione dell’individuo. E alienazione dal proprio vissuto di individuo: Praticando la violenza io mi disumanizzavo, dice sempre Bonisoli. Peci, il pentito per eccellenza (che a differenza dei dissociati ha denunciato i suoi compagni), ha detto che era diventato come un sicario, uno che uccideva o gambizzava per mestiere, senza provare nulla per la vittima, tanto che, quando questa con qualche gesto risvegliava in lui un sentimento di umana compassione, andava in crisi, perché riscopriva l’umanità da cui si era alienato. È presumibile che i dissociati di cui parla Fortini, nel chiamare “sbagliato” l’uso della violenza testimoniassero la disumanizzazione cui si erano sottoposti quando l’avevano agita.
Se considero il rifiuto di ogni violenza come strumento di cambiamento della società, ossia la posizione – radicalmente pacifista – che ha assunto oggi Bonisoli, non vedo perché dovrei pensare che rinneghi il suo passato, il suo trascorso ideologico: lo giudica un errore perché oggi sposa una prassi (non solo morale ma anche) politica diversa – condivisibile o meno, ma legittima, non si tratta di una scelta religiosa irrazionale.
Le considerazioni di Curcio, Moretti e Balzerani sul caso Moro, sul dare la morte ecc. non tengono in minima considerazione il lato umano e personale degli uccisori e degli uccisi, lo negano, lo fagocitano con le loro elucubrazioni politiche10 e questo gli impedisce di vedere la realtà terroristica dell’agire brigatistico, di fare i conti davvero con il passato. Non mi sogno di chiedere agli ex BR “irriducibili” pentimenti, che riguardano la sfera emotiva personale, ma constato la mancanza di una precisa e approfondita autocritica politica sulla loro storia e sulle ragioni della loro sconfitta. Insomma, non è solo lo Stato, a non aver fatto i conti con il proprio passato terroristico, sono anche molti ex brigatisti, gli stessi che chiedevano (forse come rivalsa all’ammissione della propria sconfitta) una discussione politica collettiva su quanto avvenuto negli anni della lotta armata.
4) Il tema Né con lo Stato né con le BR.
La posizione di Lotta Continua sull’agguato di via Fani, sul ricercare la trattativa (con tanto di appello firmato anche da cristiani per me punto di riferimento come Heinrich Böll, David Maria Turoldo ed Ernesto Balducci) e sull’uccisione di Aldo Moro (verso cui erano contrari anche quelli di Prima Linea) ritengo fosse molto ragionevole, vista da uno come me nato nel 1970. Così come ritengo illuminata quella di Craxi e Signorile. Al contrario, ottusa è stata quella del PCI e politicamente colpevole quella della DC, che con Cossiga e Andreotti ha favorito l’esecuzione della condanna a morte di Moro. Tuttavia, la formula Né con le BR né con lo Stato non è del tutto appropriata perché le BR erano diventate una formazione terroristica di cui non si potevano più condividere né mezzi né fini, mentre lo Stato seppur colpevole di atti di terrorismo tramite suoi settori deviati, oltre che di una legislazione repressiva antidemocratica (legge Reale, carceri speciali ecc.), resta comunque un contenitore vuoto, che viene riempito dai partiti e dalle persone (Leone pare sicuro volesse graziare un terrorista, ma non fece in tempo). Lo Stato insomma era anche Craxi e Signorile, era anche i radicali, forse i più illuminati sulla questione all’epoca. Per cui sarei semmai propenso a dire Né con le BR né con il blocco della fermezza.
In conclusione, il mio giudizio politico sul tweet poi cancellato di Di Cesare è negativo, lo ritengo fuorviante, poiché non è possibile ridurre le differenze tra lei e Balzerani ai mezzi usati per raggiungere un (presunto stesso) fine. Questa affermazione manca del dato personale (la sofferenza delle vittime di quello che si è palesato come terrorismo) ed è una semplificazione carente a livello di analisi politica. Ma a livello personale, ritengo legittimo che lei scriva quel che vuole ed esprima vicinanza a una donna che da poco ci ha lasciati e la cui vita non è riducibile a pochi anni di lotta armata.
NOTE
- Mario Moretti: “Brigate Rosse – una storia italiana”, Mondadori, 1993
- https://www.inventati.org/cope/wp/wp-content/uploads/2015/12/29_Espresso14_6_1981_letteraDi_AlfredoBuonavita.pdf
- Per certi versi, alcuni contenuti della lettera non sono così distanti da quello che scrive Curcio negli stralci riportati da Cereda; però, Buonavita parla espressamente di terrorismo, che Curcio nega: “In conclusione, la lotta armata è andata caratterizzandosi come terrorismo; è uno strumento contrario all’interesse dei proletari.”
- Come sostiene anche Mario Capanna, le prime violenze di piazza sono da attribuire allo Stato: i morti di Avola (1968) precedono di un anno la strage di piazza Fontana, percepita dal movimento studentesco e operaio come un fatto di svolta. Allo stesso tempo, sono gli stessi brigatisti (Franceschini, Gallinari e Morucci di sicuro) a dire che piazza Fontana e i morti di piazza del ‘68 sono stati sì un catalizzatore, ma non il movente della lotta armata, che era ideologico. In altre parole, secondo molti ex BR la lotta armata era già in incubazione e si sarebbe sviluppata anche senza piazza Fontana.
- https://www.youtube.com/watch?v=6qMuaDf2llM&t=511s
- Mi baso sul suo libro “Mara, Renato e io”, Mondadori, 1988.
- Mi baso sul suo libro “La peggio gioventù”, Rizzoli, 2004.
- Il tempo della rivoluzione armata, forse, poteva essere quello della Resistenza partigiana, quando molti garibaldini avrebbero voluto continuare la Resistenza fino all’instaurazione di una repubblica comunista – la questione della “Resistenza tradita” a cui si sono ispirati Feltrinelli e molti brigatisti emiliani.
- Mi baso sulle conferenze di giustizia riparativa che tiene da anni insieme ai familiari delle vittime del terrorismo, a cui ho assistito.
- Nella già citata intervista, Curcio si limita a dire che “Noi non possiamo dire nulla [ai familiari delle vittime] perché il dolore di quelle persone non ammette, non è consolato da una mia parola, la mia è una parola politica”.o
o
APPENDICE
F. Fortini, Non è solo a voi che sto parlando, 1988 ( da “Disobbedienze II, pagg. 35-39)
SEGNALAZIONE
«Viene sempre il momento in cui Fortini è censurato […] Ma ha provato di persona qual è la soglia che non è permesso varcare, e come non essere dunque dalla parte di chi vi si è scontrato con più asprezza e forse disperazione? Anche se ha rovinosamente sbagliato nei mezzi e nelle previsioni come appunto i giovani delle lotte armate italiane.
Mai indulgente con loro, Fortini a naturalmente percepito l’oceano di ipocrisia che sta nelle virtuose maledizioni contro di loro scagliate, e il suo primo movimento è stato di cercarli in carcere per un dialogo. Presto chiuso nella constatazione paralizzante per chiunque l’abbia provata della disparità di parole fra chi è dentro e chi è fuori, che conduce a una doppia deformazione – impossibile per chi è dentro dire tutto, e non solo per difesa ma per solidarietà con gli altri che sono dietro e accanto a lui, e possono non essere giunti alle sue conclusioni; impossibilità per chi è fuori di dimenticare che ogni sua parola può parer troppo facile o aggravare la condizione del recluso in sé barbara.
E per un pezzo quindi ha scelto il silenzio, o, nella esplosione di angoscia al tornare in luce del caso Ramelli – il ragazzo fascista ammazzato a Milano a colpi di spranga – ha parlato per ridire quanto falsa sia l’apparente vastità del dilemma tra morale e politica, se appena la morale sia assieme imperativa e radicata dell’onda lunga della storia.
Ma quando coloro che hanno sparato, facendosi diritto della vita e morte del nemico o di chi lo simboleggiava, hanno cominciato a dire che c’era stato un errore, non sul tipo di scontro, non sui mezzi o le regole, non sugli esiti previsti, ma nell’aver creduto che un nemico ci fossem tutti gli uomini essendo uomini, per cui falso sarebbe ogni scontro politico e la politica in sé corrompitrice, Fortini è tornato a parlare.
E in una serata al Pier Lombardo a Milano, dove con buona intenzione si celebrava quella sorta di conversione, ha mandato un testo impietoso, perché fra uomini e donne ci si deve rispetto prima che pietà. Il senso ne era: siete dei vinti soltanto ora che introiettate il comando di chi vi ha sconfitto. Ora che odiate di voi stessi non gli errori, ma la radice di verità per la quale li avete commessi.
Non è facile dirlo e infatti molti – restati sul terreno in quell’incrociarsi di sparatorie – tacciono. Non avevano consentito, non aggiungono la loro voce al coro di condanna. Fortini sente stridere la sua voce quando deve dire: come non vi accorgete che vi vogliono canaglie o vittime. Ma va detto. […] A costo di non essere capito né dagli uni né dagli altri.
Però bisogna dire. Ci sono momenti, lunghi momenti nei quali non si può cambiare lo stato delle cose. Bisogna riconoscere che non si è riusciti, per errori o ragioni che occorre indagare con occhio freddo non essendo perdonabile cavarsela con la commiserazione di sé o la cancellazione del problema. Questo è il dovere che, “extrema ratio”, rimane, e casomai qualche volta, per ingenuità o speranza, si è venuti meno ad esso per non prevaricare davanti a quel che, essendo nuovo, poteva non essere inteso in da una strumentazione culturale nata in altre situazioni. Non dice Fortini stesso che, nelle rovine tra le quali ci muoviamo, altri soggetti, altre lotte avranno la parola che agisce e cambia?
Ma questo non esime nessuno dal testimoniare di quel che sa, o crede di aver appreso – non si può fare onestamente altro ma non si può fare onestamente meno di questo. A costo di sentire su di sé l’attrito con i tempi, con i giovani, con il dubbio che non può non cogliere sul proprio vissuto e pensato e questo Fortini fa, anche nelle pagine di diario che completano il volume. Sempre di questo si tratta. Batti ma ascolta.»
(Rossana Rossanda, “Aperte lettere”, pagg. 229-234, nottetempo 2023)
Lorenzo Galbiati fa un ragionamento che in buona parte condivido. Se però una parte delle BR si riferì alla Resistenza, bisogna domandarsi se alcune caratteristiche, che l’autore riferisce solo alle BR, non siano riferibili ad alcuni gruppi o comandanti Partigiani. In genere se si trattò di una linea presente nel movimento rivoluzionario, si veda dibattito “uomo – massa”, ad esempio.
In Friuli ciò è noto, con uccisioni anche tra partigiani, per sconfinamenti o sospetti senza processo. Alcuni portarono con sé nella tomba le informazioni su questi fatti. Così succede anche con le mezze verità delle BR. A volte anche la lotta al collaborazionismo, in Italia e nella vicina Slovenia, ebbe una durezza a volte “reificante”. Difficile la discussione a proposito (“davvero viviamo in tempi bui!”) ma certamente c’è una linea presente e precedente le BR.
Il tuo ragionamento finisce in una distretta irresolubile: “la violenza che uccide è sbagliata sempre” oppure “la violenza che uccide, anche in casi necessitati, è comunque arbitraria”.
Quindi: intorno alla violenza omicidiaria non c’è razionalità (umana). Come nelle guerre.
Dico semplicemente che la violenza reificante non è una deviazione delle BR, ma è un aspetto che bisogna riconoscere e tenere sotto controllo in ogni lotta. A Taliercio non si diede da mangiare per giorni, lo si malmenò e lo si uccise mettendolo in una cassa e sparando attraverso essa. Poteva anche essere ucciso, per decisione delle BR, ma la modalità è indicativa.
Rispondendo a Furio:
hai certamente ragione nel dire che in ogni guerra ci può essere la violenza reificante. Dipende dal grado di avvelenamento politico della situazione, dalla rigidità dell’ideologia politica o religiosa che spinge i gruppi militari.
Indubbiamente i partigiani hanno avuto degli eccessi, di fatto hanno commesso anche dei crimini, sia contro i civili sia tra di loro e verso i presunti collaborazionisti.
Confesso però di non aver mai approfondito la questione (e mi guardo bene dal leggere i libri di Pansa).
Sono propenso a pensare che, dopo il criminale ventennio fascista e la guerra, combattuta nel peggiore dei modi (italiani mandati a morire di freddo in Russia, per esempio il fratello di quel mio nonno che si nascondeva nei campi) e con la peggiore compagnia possibile, un certo grado di eccessi e di crimini dei partigiani in zone di frontiera, dovuti anche alla confusione politica, fosse inevitabile e tendo a giudicarlo politicamente molto comprensibile.
Resta la condanna dal punto di vista del diritto, certo, ma io credo ci siano molte attenuanti da considerare, attenuanti che non vedo per niente in relazione all’operato delle BR dal 1976 in poi – con macabre accelerazioni dopo il sequestro di via Fani e soprattutto con l’arrivo di Senzani, che per me rappresenta la totale degenerazione delle BR di Curcio e Franceschini.
Punto di vista del diritto? Attenuanti? Non è questo l’ambito del discorso. L’ambito è la Storia, l’ambito sono le storie.
Ho conosciuto di persona due brigatist*, uno di essi ha scontato la pena senza “pentirsi”, l’altro si è “pentito” senza effettivamente pentirsi. Finito il loro “sogno” e nostro incubo qualcuno ha preferito sottoscrivere l’abiura: l’ha fatto anche Galileo. Qualcuno no. Non necessariamente l’abiura è stata fatta nell’animo, per cui tutto questo discorso sulla “coscienza” lo trovo ambiguo.
Hanno anche provato a reclutarmi (non nelle BR ma in un gruppo vicino).
Senzani, Curcio o Franceschini o altri che fossero li ho rifiutati con decisione, non in nome della non-violenza, ma in nome della violenza che buona parte della nuova sinistra (con alcuni riferimenti piuttosto vecchi) attribuiva pertinente ad un ambito collettivo e cosciente dei movimenti. Così era per me.
Ho anche conosciuto dei partigiani. Mi soffermo su due. Uno era stato tra i primo fondatori della “Osoppo” in Friuli, poi candidato in Democrazia Proletaria. Un altro ha operato in città, del PCI.
So che il Friuli Venezia Giulia è una zona di frontiera “difficile”. Quando il CLN decise: adesso lottiamo con il IX Corpus Iugoslavo, di frontiere parleremo dopo, non fece altro che creare confusione. C’è ancora qualcuno che crede che la resistenza “è rossa”, ma non fu così, neppure da noi. Quella decisione acuì le divisioni. “La” Resistenza era fatta da nuclei armati comandati da teste molto diverse tra loro, ed ognuno interpretava il suo dovere in modo diverso. C’era chi combatteva per il Comunismo e chi lo faceva per l’Italia, anche perché parte del mio territorio era direttamente governato dai tedeschi.
Non mi soffermerò su quello che alcuni conoscono come “eccidio di Porzûs”, avvenuto a pochi mesi dalla fine della guerra (appunto il momento in cui le “frontiere” si incominciavamo a definire, come dimostrò la “corsa per Trieste”, mentre mancò un’analoga “corsa per Lubiana”).
Ci furono altri momenti in cui gli sconfinamenti anche di singoli partigiani furono puniti con la morte da altri partigiani.
“Abbiamo fatto cose brutte” mi confessò un partigiano. Non abiurò, ma non precisò: lasciò nell’ombra le vicende, vicende di cui di conseguenza sappiamo ben poco. Su di esse quindi non abbiamo modo di dare giudizi.
Esistono testimonianze sul problema dei collaborazionisti veri, costretti o che cercavano di salvare capra e cavoli. Chi mai vorrebbe che in un paese qualcuno collabori con il nemico? Come fare a dare una stretta?
Non c’è in me alcun giudizio morale, che eventualmente tengo per me, c’è invece una stretta considerazione politica e militare. Sociale, anche.
Voi conoscete Giovanni Pesce. Di persone così ne avevamo anche da noi. “Avevo due pistole, mi dicevano chi dovevo ammazzare, lo seguivo e lo ammazzavo” disse un partigiano a un mio amico. Era un partigiano famoso da noi, e una persona – che ho conosciuto – splendida e sempre rivolta al sociale.
Ero “soldato democratico” a Savona e frequentavo una Casa del Popolo vicino alla caserma. “Abbiamo le armi, e sono sempre bene oliate”, ci diceva un compagno del PCI. Il doppio binario!
Ma prima a Trieste dovevamo svicolare tra gli inseguimenti dei neofascisti, i pestaggi, i fronte-a-fronte. A un caro amico bruciarono la macchina e scrissero sul muro che l’avrebbero ucciso. Se ne andò da Trieste grazie all’aiuto di Avanguardia Operaia.
Armi e violenza non mi / ci sono state estranee quindi questo discorso sulle Brigate Rosse non mi affascina,
La violenza ci ha accompagnato nella vita: chi di noi questa vita non era disposto a perderla?
Ma non a causa di questi brigatisti, dei quali mi interessa poco o niente che siano stati nel mio stesso album di famiglia. Sapiens e Neanderthal stanno nello stesso album di famiglia, e allora?
No, Fortini non mi convince, né mi convincono pentimenti veri, presunti o mancati. L’errore dei brigatisti non è un errore. E’ un’altra cosa.
Se permetti, vorrei approfittare per farti delle precisazioni e soprattutto delle domande:
Punto di vista del diritto? Attenuanti? Non è questo l’ambito del discorso. L’ambito è la Storia, l’ambito sono le storie.
<<Ho usato un linguaggio giuridico ma credo si capisca il senso.
Finito il loro “sogno” e nostro incubo qualcuno ha preferito sottoscrivere l’abiura: l’ha fatto anche Galileo.
<<Cosa intende con abiura, la dissociazione? Ho scritto sotto in cosa consisteva prendendo il caso di Franceschini: perché sarebbe un'abiura? Chiedo perché a me non sembra per nulla una abiura, fermo restando che non considero la malafede (chi si è dissociato dalle BR prima dell'entrata in gioco della legge sulla dissociazione del 1987, come potrebbe esser in malafede?)
Hanno anche provato a reclutarmi (non nelle BR ma in un gruppo vicino).
Senzani, Curcio o Franceschini o altri che fossero li ho rifiutati con decisione, non in nome della non-violenza, ma in nome della violenza che buona parte della nuova sinistra (con alcuni riferimenti piuttosto vecchi) attribuiva pertinente ad un ambito collettivo e cosciente dei movimenti. Così era per me.
<<Ecco questo mi interessa molto, significa che la violenza delle BR, come sostengo io, che "la forma che ha preso quella delle varie formazioni armate era sbagliata (eticamente, politicamente) a prescindere da qualsiasi situazione storica e politica, perché si è via via configurata come terrorismo? E in quali termini poteva essere una violenza rivoluzionaria "pertinente ad un ambito collettivo"?
No, Fortini non mi convince, né mi convincono pentimenti veri, presunti o mancati. L’errore dei brigatisti non è un errore. E’ un’altra cosa.
<<Ecco, però non mi è chiaro cosa pensi del testo di Fortini e soprattutto delle BR.
Caro Lorenzo, grazie per le domande. Dare risposte sarebbe un po’ “fare il punto”, ma non saprei farlo, al massimo posso individuare delle linee, a volte appena accennate.
Mi soffermo solo su un punto, ricordando una mia condivisione di massima sul testo iniziale del tuo discorso.
<>
Per chiarire. Se parliamo di BR parliamo soprattutto di violenza rivolta nei confronti di individui e di tipo invalidante o mortale.
Un omicidio diretto non rivendicato delle BR può essere quello di Calabresi. Questo omicidio è stato attribuito a Lotta Continua “per allusioni” bocca a bocca da parte degli stessi militanti di Lotta Continua. Non conosco altri casi attribuibili alla “Nuova Sinistra”.
Parlando di Ramelli, Rossanda non sa cosa dice. L’obiettivo non era uccidere né invalidare, ma fare molto, molto male. I giovani di Avanguardia Operaia se ne intendevano di medicina, avevano studiato i colpi anche su sé stessi in modo che facessero male senza creare danni permanenti, avevano usato una chiave inglese meno pesante di quella dei “Katanga”. Non avevano pensato però che nessuno resta fermo a prendersele, che nella fuga si può inciampare e si può battere la testa. La morte è sempre una possibile conseguenza di pestaggi, mirati o meno, quindi doveva essere messa in conto.
Quest’ultimo fatto non apparteneva del tutto ad un “ambito collettivo” ma faceva parte di un clima che vedeva più di tre atti di violenza politica al giorno, come si può leggere in https://www.memoria.san.beniculturali.it/it/web/memoria/w/venti-anni-di-violenza-politica-in-italia-1969-1988-a-cura-di-isodarco-1992-
Il mito fondante della violenza “pertinente all’ambito collettivo” post ’68 fu Valle Giulia, esempio luminoso lotta di massa per la libertà di manifestazione.
Attenzione però alla gestione della violenza, che se trasformata in rivolta non si sa come possa finire: può finire come Piazza Statuto nel 1962, come il quartiere Traiano nel 1969, ma anche come Avola nel 1968.
Avola, che ricordiamo con amore e pianto, e che tanto infiammò i nostri cuori, deriva da una gestione della violenza irrazionale: se circondi piccoli gruppi di poliziotti, questi spareranno, è logico, come è sempre successo. Non importa se i poliziotti storicamente spararono anche contro persone che non li minacciavano. In quel caso, di rivolta non guidata, spareranno. Abbiamo anche casi più recenti in mente.
Anche le BR all’inizio cercarono di “manovrare i cortei” e gli scontri. Altri riuscirono a controllare i cortei meglio di loro.
Personalmente ricordo un caso di deviazione di cortei dopo la strage di Brescia: dalla manifestazione ufficiale – a Trieste – ci staccammo, seguiti anche dai portuali del PCI e guidati da LC assediando la locale sede del Fronte della Gioventù. Un gruppetto si staccò e salì al terzo piano lanciando due molotov. Il palazzo non si incendiò, per fortuna. Cosa sarebbe successo se ciò fosse avvenuto? Ecco perché dico che la violenza di massa non ammette di non essere guidata con intelligenza. La violenza è collettiva, ma non di tipo rivoltoso, né con punte che fanno quel cavolo che vogliono, compromettendo tutti.
L’orribile frase “la rivoluzione non è un pranzo di gala” ha spesso fatto passare come irrilevante il discorso sulla violenza. A volte violenza era esaltata (Se vedi un punto nero spara a vista…, Foibe, foibe!, Piazzale Loreto c’è ancora tanto posto!…) a volte era sofferta (il “Davvero viviamo in tempi bui” di Brecht). Gli slogan, si sa, sono solo manifestazioni muscolari volte a intimidire chi non si fa affatto intimidire, ma sono anche tarli nella mente dei militanti.
Come dici tu, non fu secondario l’esempio sudamericano, molto più di quello vietnamita. Leggevo – negli anni ’70 – sul diritto a ribellarsi anche con la violenza sulle riviste dei gesuiti milanesi, immaginiamoci altrove!
In sintesi, quello della violenza, quando, come, da parte di chi è un problema che non ha soluzioni assolute.
Non credo che la differenza tra “noi” e le BR consistesse solo in una differente valutazione sulla fase, prerivoluzionaria per loro e pre-prerivoluzionaria per noi. Non vado a vedere i “se”, “se fossimo stati in una fase prerivoluzionaria cosa avremmo fatto?”. Chi può saperlo? Avevamo molte componenti nei movimenti, e avremmo dovuto fare i conti con i movimenti reali, non quelli immaginari.
La Grecia, il Cile ci insegnavano che i rapporti di forza non potevano essere solo politici, ma saremmo comunque stati impreparati ad affrontare militarmente una decisa azione di Golpe. Forse per questa nostra debolezza contavamo sul numero. Fu anche un vantaggio culturale: la crescita della consapevolezza di voler contare da parte dei movimenti.
Ti ringrazio Furio per il link, a cui ho cominciato a dare un’occhiata.
Mi ha interessato il tuo ragionamento sulla violenza agita collettivamente in massa, la differenza tra quella guidata e non guidata, e la possibile degenerazione in rivolta.
E’ la prima volta che mi trovo a circoscrivere la violenza politica secondo le sue caratteristiche. Stiamo parlando comunque di una violenza collettiva di piazza, senza lo scopo premeditato di colpire precise persone in modo invalidante o mortale, ed è in effetti ciò che la rende radicalmente diversa da quella brigatista.
Io parlando di insurrezione armata mi riferivo in fondo a un tipo di violenza simile, soltanto più organizzato e in scala maggiore.
I documenti pdf ISODARCO, Venti anni di violenza politica in Italia (1969-1988), 1992 si leggono bene?
La parte del primo volume relativa alle BR, redatta da Alessandro Sìlj nel Novembre 1989 (dalla pagina 39 alla 84) pur essendo vecchia di trentacinque anni andrebbe letta: dice molte cose che qui non diciamo.
Sono passati tanti anni, ma le varie memorie, ricerche e documentazioni successive smentiscono questa impostazione o la mantengono possibile?
Il discorso complessivo per me tiene.
https://www.memoria.san.beniculturali.it/documents/37629/51240/tomo+1+-+parte+prima.pdf/448ea79d-cb1a-6e71-7cb3-602cbe2908d6#page=23
Credo sia giusto che dal piano ‘morale’ dell’uccidere ci si sposti sul contesto più ampio del perchè nel quadro politico di allora. Ma non è sufficiente, chè manca ancora un altro piano, accennato nelle citazioni della resistenza partigiana. Ma non è Pansa che va letto, chè la guerra partigiana era guerra e aveva due fronti: l’uno relativamente semplice della montagna, dove a ondate alterne si avanzava e ci si ritirava ma senza mettere veramente in discussione il territorio nemico -nè dall’una nè dall’altra parte. E l’altro che è quello invece sul confine e nelle città, dei Gap (anche nel dopoguerra) e dei gruppi similari come quelli della ‘Sega di Hitler’ di Genova. E qui la guerra non è un reciproco tiro al bersaglio ma cosa assai più critica e sporca, basata sul controllo del territorio e sul massimo danno da apportare al nemico, quindi anche sull’eliminazione di tutte le spie -reali o potenziali. Situazioni certo presenti anche sui monti ma come fatti marginali, come un Bocca che troppo spesso inciampava lasciando partire un colpo quando aveva prigionieri tedeschi.
È di questo secondo aspetto che le BR in certi momenti si sentono eredi, come anche vendicatori dei milioni di oppressi uccisi senza scampo dal capitale nelle colonie ma anche nelle città.
Ritengo giusta quindi la posizione di Ennio, Fortini, Rossanda: non è sbagliato il fatto in sè, ma il contesto in cui avviene, troppo lontano dalla guerra vera per poterne usare i connotati; e nel contesto includo anche l’inadeguatezza dei protagonisti.
Per comprendere appieno la posizione di Fortini, di certo mi mancano delle tessere di mosaico – non so chi ha incontrato in prigione, che cosa si son detti, quale il contesto storico preciso.
Per esempio, a cosa si riferisce la frase:
“E in una serata al Pier Lombardo a Milano, dove con buona intenzione si celebrava quella sorta di conversione, ha mandato un testo impietoso ecc.” ?
Capisco solo che quando “hanno cominciato a dire che c’era stato un errore, non sul tipo di scontro, non sui mezzi o le regole, non sugli esiti previsti, ma nell’aver creduto che un nemico ci fossem tutti gli uomini essendo uomini, per cui falso sarebbe ogni scontro politico e la politica in sé corrompitrice”, Fortini è tornato a parlare per dire che “siete dei vinti soltanto ora che introiettate il comando di chi vi ha sconfitto. Ora che odiate di voi stessi non gli errori, ma la radice di verità per la quale li avete commessi”.
Intuisco che questi ex brigatisti hanno criticato non solo mezzi ed esiti del loro agire ma l’esistenza dello scontro politico che li ha portati ad usare le armi, da lì il monito di Fortini che, semplificando, potrebbe essere:
– la radice che vi ha mosso era degna, non dovete disconoscerla, non dovete odiarvi per averla percorsa, seppure con mezzi ed esiti fallaci – non dovete sottomettervi al volere dello Stato.
Tutto comprensibile, finché rimane sul teorico.
Non riesco però ad applicarlo ai dissociati di cui ho parlato.
Se considero la dichiarazione di dissociazione firmata da Franceschini, posta a conclusione del suo libro, io leggo:
“Il sottoscritto ….. dichiara:
– di aver definitivamente abbandonato ogni organizzazione o movimento di carattere terroristico od eversivo;
– di esser disposto ad ammettere le attività effettivamente svolte nell’ambito terroristico od eversivo;
– di ripudiare la violenza come metodo di lotta politica;
– di voler sottoporre al vaglio delle autorità competenti il proprio comportamento, ritenendolo oggettivamente ed inequivocabilmente incompatibile col permanere di qualunque vincolo associativo di carattere terroristico o sovversivo;
– di essere dunque dissociato dal terrorismo ai sensi dell’art. 1 della legge… della quale chiederà per sé l’applicazione ai Giudici competenti..
E non trovo in questa dichiarazione nulla che io possa chiamare rinnegare/abiurare/umiliare/introiettare il comando di chi vi ha sconfitto/odiare di voi stessi non gli errori, ma la radice di verità per la quale li avete commessi.
Penso che Franceschini l’abbia firmata senza particolari problemi, perché – stando a quel che scrive nel suo libro, e che dice nei vari video che si trovano online – rappresentava bene il suo percorso e quel che era arrivato a credere nel 1987 .
@ Lorenzo Galbiati
Ho ora aggiunto nel testo dell’articolo in Appendice l’articolo di Fortini sulla serata al Pier Lombardo di Milano.
Scopro online che l’iniziativa teatrale di questi ex BR è stata pubblicata,
per esempio qui:
http://www.spirali.it/libro/8877702222/labirinto/
E leggendo la quarta di copertina riportata, credo che siano le stesse parole
scritte sul “cartoncino di invito sottoscritte dal gruppo degli autori” di cui parla Fortini (ci sono infatti le frasi da lui virgolettate):
“Nel tempo e nello spazio di una prigione è la genesi di questo testo teatrale. Gli autori sono un gruppo di detenuti politici, in carcere da tanto di quel tempo che la memoria stenta a abbracciarlo. Quale senso può avere, per noi troppo spesso menzionati a sproposito, lo scrivere di teatro? Anzitutto, vorremmo che ciò non fosse a senso unico, poiché il senso dovrebbe sempre essere un’opera almeno a due. Poi, questo testo teatrale è un tentativo di liberarci da qualche stereotipo, tra i molti che ci hanno costruito addosso. Nessuno è la propria immagine.
Non siamo animati da alcun intento pedagogico, in questa trama di personaggi che vivono e di storie che si raccontano dalla prospettiva di una prigione. In fondo, le parole stentano a comunicare un’esperienza, giacché questa sempre esige di essere scritta sulla propria pelle.
La storia, quella non ufficiale, è scritta su una pergamena di pelle umana, tutto quello che infine resta dei sogni della gioventù. In qualcosa, ogni generazione vuole tornare all’origine, sorta di reincarnazione del mito di Eva e di Adamo alle prese con l’albero della conoscenza del bene e del male. E certo è che nella vita ogni generazione troverà labirinti, giardini e serpi. Questo è il teatro nel quale si troverà a vivere. Ogni generazione vuole trovarsi e ritrovarsi, anche se i più finiranno con il ritrovarsi soli…
Un fatto, fra tanti eventi inesplicabili, ci pare limpido: se qualcosa in noi ha retto ai decenni di prigione non è la coscienza politica, questo specchio di illusioni presto infranto dalle delusioni. Quel qualcosa che non si è spezzato è l’essere, l’essere umano che dovrebbe abitare ciascuno. Seppure tra mille e una notte di sogni e di incubi, per quello in cui credevamo abbiamo consumato la nostra gioventù nelle galere.
Ma, nonostante le brutture, le carceri e le violenze, non abbiamo smesso di essere uomini.
(Gli autori)”
Ora si sta focalizzando bene il contesto: le sette conversazioni in carcere tra Fortini e questo gruppo di ex brigatisti (di cui conosciamo solo il suo resoconto), il cartoncino di invito di questo gruppo e il commento di Fortini, focalizzato su alcuni punti precisi.
Il dissenso tra Fortini e i brigatisti (dissociati o pentiti) mi pare frontale. Lo riassumo mettendo a confronto il suo nucleo. Che si esprime nel contrasto tra A. umano sciolto dalla “scorza” o “maschera” della coscienza politica e B. politico o “azione politica comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza”, senza la quale ci si riduce a canaglie o vittime. A me pare che nelle guerre che si vanno moltiplicando ci sia una conferma tremenda della asserzione di Fortini ( ma anche del discorso che faceva Tronti sul “tramonto della politica”). Le canaglie guerrafondaie continuano a crescere. E le vittime – (noi tutti che non riusciamo più a opporci alla guerra) – reali o potenziali sono milioni.
A.
«Un fatto, fra tanti eventi inesplicabili, ci pare limpido: se qualcosa in noi ha retto ai decenni di prigione non è la coscienza politica, questo specchio di illusioni presto infranto dalle delusioni. Quel qualcosa che non si è spezzato è l’essere, l’essere umano che dovrebbe abitare ciascuno. Un fatto, fra tanti eventi inesplicabili, ci pare limpido: se qualcosa in noi ha retto ai decenni di prigione non è la coscienza politica, questo specchio di illusioni presto infranto dalle delusioni. Quel qualcosa che non si è spezzato è l’essere, l’essere umano che dovrebbe abitare ciascuno. »
(http://www.spirali.it/libro/8877702222/labirinto/)
B
Più tardi (35, II), quando incontrò a San Vittore vari detenuti per terrorismo o partecipazione a banda armata, fu forse uno dei pochi ad avere il coraggio di criticare da un punto di vista coerentemente marxista l’“illusione” di molti di loro – pentiti o dissociati – che ormai si appellavano soltanto alla “coscienza umana” o all’«essere umano che dovrebbe abitare in ciascuno» (38, II). Era un’affermazione per lui inaccettabile: «Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale?». E aggiungeva : «deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?» .
( da E.A., Le disobbediente dimenticate di Franco Fortini, https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/)
“Sono severo con la dissociazione perché rinnega una storia, distrugge una identità collettiva, fugge dalle responsabilità politiche per racimolare benefici giudiziari individuali. E il più grave è che avviene quando sarebbe stato possibile chiudere collettivamente.”
(Moretti a Carla Mosca e Rossana Rossanda, 1993)
“Forse Moretti fa un po’ confusione sui tempi. Il primo atto pubblico di dissociazione di ex appartenenti a bande armate è del 1982, letto in aula al primo processo Moro:
– La lotta armata, ovvero la conquista dello Stato da parte delle classi proletarie attraverso l’uso delle armi, ha trovato da un pezzo esauriti i suoi presupposti. La parabola della lotta armata, in Italia e in Occidente, ha messo in scena la rappresentazione estrema della crisi dei miti della sinistra o, se si vuole, il mito della Grande Rivoluzione Proletaria. Il suo prodotto ultimo, il terrorismo, ideologia e religione, ha accentuato e accelerato la contraddittorietà di questa strategia; esso non può che distruggere per attendere la palingenesi.
Certo, la lotta armata è stata evocata dall’arrocco istituzionale e dall’immobilismo politico che ha inutilmente ricattato per decenni la crescita della società, ma si è sviluppata nell’appiattimento militarista della tensione sociale alla costruzione di rapporti alternativi di produzione. Contrapponendo il proprio potere formale a quello altrettanto formale dello Stato, entrambi tanto più univocamente violenti quanto più avulsi dalle dinamiche reali della trasformazione sociale. Così oggi la sua “irriducibilità” denuncia il vuoto e la rinuncia all’azione politica come fare sociale; diventa moralismo, retorica. Ma qui ormai la rottura è radicale, storica.
Perché si chiude, si consuma un ciclo generazionale in cui, nel prevalere di un radicato ideologismo politico sulla rivoluzione culturale del ’68, si sono avvitati l’arricchimento dello scambio sociale e le lunghe marce, la democrazia sociale delle assemblee e il fascino giacobino del partito d’acciaio. Si chiude ora, nei fatti, la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e del Welfare State.
Ma si chiude in un quadro spietato di logica di guerra, di revanscismi e di ristrutturazioni e oppressioni che rende ancora più brucianti gli errori e spingerebbe al resistenzialismo. Senonché sarebbe proprio questo a farsi immobilismo e amplificazione della sconfitta. Si tratta invece di accettare la sfida dei tempi, delle mutazioni della società; si tratta di non viversi e morirsi come superfetazione al negativo della memoria degli anni Sessanta e Settanta; si tratta di esprimersi su dieci anni di lotte sovversive in Italia proprio per impedirne una loro riscrittura farisea; si tratta di difendere le ragioni della nostra opposizione con la stessa severità con cui ne critichiamo le follie, i miti, i peccati, gli errori; si tratta di ricollocare le speranze e il bisogno di trasformazione; si tratta di impedire il totalitarismo meccanico delle istituzioni; si tratta, nella critica della rappresentanza politica, di intrecciarsi a forze e dinamiche di opposizione, di conflitto, di libertà. –
Alle BR non è mai fregato nulla della identità collettiva ….
Noi abbiamo cercato di ridare una identità collettiva alle migliaia di militanti che la lotta armata avevano attraversato. O ne erano stati attraversati, dipende. Una identità fondata sulla giustezza della spinta che ci aveva mosso e sull’errore di averci messo sopra una ideologia, e la sua violenta strumentazione, inadeguata e alfine contraria ai motivi di quella spinta….
Moretti lamenta che i risultati di quella dissociazione furono la chiusura di ogni possibilità di ripensamento collettivo. Lamenta cioè che non ci sono state le BR, perché tutti gli altri ci sono stati…Ma le BR non c’erano per loro scelta, non nostra. E se invece avessero voluto starci nei termini da lui riproposti, a quel punto sì gli avremmo chiuso la porta in faccia. Noi avevamo rifiutato la politica e la sua logica, le BR, per come ne parla lui addirittura nel 1993, ci stavano ancora con tutte le scarpe. E poi chi è che avremmo “tradito”? Chi “tagliato fuori”?
Abbiamo tagliato fuori una organizzazione che continuava a uccidere. Che se ne fregava di essersi avvitata completamente nell’essere una macchina di morte. Se ne fregava che tutti gli altri dicessero basta, anzi ne traeva maggiore sprone perché erano tutti “traditori”. A mucchi. E i brigatisti in carcere erano ben felici che fuori succedesse quello che succedeva e che gli ergastoli venissero giù a grappoli. A nessuno di loro era consentito difendersi, accettare le regole della “giustizia borghese”…. Più ergastoli più gloria. E non paghi di questo…. passavano le giornate ammazzando i loro “traditori” e terrorizzando e pestando chiunque fosse solo in odore di dissociazione. Le aree della dissociazione costituite nelle carceri sono state anche un asilo. Un asilo per la fuga dall’orrore.
Chi poteva tentare di invertire quella tendenza? Esternare i suoi pensieri solitari per tentare di inserire anche le BR nel ripensamento? Lui. Non l’ha fatto. Un buon generale… quando capisce che tutto è perduto può impedire che continui una inutile mattanza. Ma Moretti se ne è restato nel suo cantuccio osservando contrito lo sfacelo che proseguiva. Tacendo. Poi in un estremo, quanto postumo, atto di coraggio ha pubblicamente dichiarata chiusa nel 1987 [insieme a Curcio e Balzerani, al processo Moro Ter] una battaglia che si stava chiudendo da sola.”
A scrivere queste righe è Valerio Morucci, nel suo La peggio gioventù del 1994.
Sono un atto di accusa preciso all’immobilismo di Moretti ma anche di Curcio e Balzerani, che solo nel 1987, l’anno del terzo processo Moro e dell’approvazione della legge sulla dissociazione, dicono chiusa l’esperienza delle BR. Per poi prendersela con i dissociati come Morucci, già tacciato di essere pentito e traditore (senza il suo memoriale, avremmo mai saputo come sono andate le cose nell’agguato di via Fani?), e dare ai dissociati la colpa della perdita della identità collettiva e dell’impossibilità di chiudere la storia delle BR con un ripensamento politico collettivo.
Morucci, che dalle BR si era già dissociato nel 1979 uscendone, rammenta il suo documento del 1982, al primo processo Moro. Ricorda, in altre parti del libro, che il fenomeno dei dissociati non è stato marginale, come vorrebbe Moretti, ma ha investito la maggioranza degli ex BR e quasi tutti i militanti di Prima Linea e di altre formazioni armate. Sono insomma gli ex BR non dissociati ad essere stati zitti mentre imperversavano gli omicidi del Partito guerriglia di Senzani, ormai sganciati da ogni senso di lotta sociale o politica. E la riflessione politica collettiva che compie Morucci sin dal 1982, rivendica le ragioni del loro agire, pur ammettendo la fallacia dei mezzi e degli esiti.
Pur avendo qualche passaggio oscuro (“avevamo rifiutato la politica e la sua logica”, che credo si riferisca a una logica omicida), Morucci afferma chiaramente la “giustezza della spinta che ci aveva mosso”, che ricalca quanto scrive Fortini, ora non trovo il punto, quando rimprovera il gruppo di ex BR con cui dialoga di perdere la “verità” che c’era nel loro agire.
Non vedo in Morucci il rifiuto della violenza in nome dell’umanità, non vedo il rifiuto della coscienza politica in nome dell’individuo, o il rinnegare la spinta iniziale in quel che ha fatto. Cioè quel che Fortini rimprovera al gruppo di ex BR di san Vittore (su cui devo tornare).
Lo stesso Morucci afferma in una intervista, 2001:
Hai detto: «Sicuramente abbiamo sbagliato i mezzi ma rivendico le cose che dicevamo».
«Non posso rivendicare le conseguenze, perché sono state aberranti. L’intento con cui eravamo partiti era difendere la vita, non ammazzare la gente. Ma rivendico la spinta che ci ha portato a fare quello che abbiamo fatto».
https://interviste.sabellifioretti.it/?p=696
“Sono passati tanti anni, ma le varie memorie, ricerche e documentazioni successive smentiscono questa impostazione o la mantengono possibile?
Il discorso complessivo per me tiene.” (Petrossi)
Ho dato una prima occhiata e al momento non mi sento di dare nessun giudizio. Credo che ci voglia del tempo per una lettura critica attenta del materiale proposto e della interpretazione che ne viene data dagli autori.
Infine, la lettera di Fortini, a tratti razionale e a tratti tumultuosa, sembra rivelare – se capisco bene l’inizio – un dissidio personale tra il considerare “amici o avversari” gli ex BR dopo il lavoro che hanno scritto e presentato al Pier Lombardo.
Fortini vorrebbe considerarli amici, istintivamente, col cuore, ma la ragione politica, l’ideologia, gli rende “meno chiara” la scelta.
Quale la loro colpa?
Intanto l’opinione pubblica vuole stigmatizzare il terrorismo rosso per colpire il movimento extraparlamentare che ne sarebbe “causa”, e quindi Fortini ha già il dente avvelenato perché così si perde la “verità” di quel movimento.
E qui la prima annotazione mia è che Fortini usa il termine terrorismo senza farvi un ragionamento sopra, perché poi al suo posto fa un ragionamento sulla violenza in generale, come se non contasse fare alcuna distinzione tra i vari tipi di violenza: per me, per esempio, la parola terrorismo implica una degenerazione della violenza rivoluzionaria, che non può essere giustificabile in alcun modo – al contrario di altri tipi di violenza, quanto meno politicamente.
Poi arriva il punto, già discusso, sulla violenza intesa come “colpa morale”, che Fortini contesta – nota però che alcuni di questi ex BR non scordano le condizioni sociali e politiche entro cui questa violenza è maturata, però faticano a parlarne per paura di essere accusati di volerla giustificare.
Ma la parte che più gli risulta intollerabile è la frase:
“se qualcosa in noi ha retto ai decenni di prigione non è la coscienza politica, questo specchio di illusioni presto infranto dalle delusioni. Quel qualcosa che non si è spezzato è l’essere, l’essere umano che dovrebbe abitare ciascuno.”
Eh, già. Chissà che effetto può fare a chi ha vissuto le ideologie totalizzanti degli anni Sessanta e Settanta leggere che la coscienza politica non ha retto. Coscienza politica per di più produttrice di illusioni.
La frase pare anche a me molto infelice. Sembra che quei detenuti abbiano perso la propria coscienza politica – e da questo arrivano i successivi strali di Fortini: cosa resta di un uomo senza azione politica, ridotto solo a interiorità morale?
I toni si infervorano, non si può accettare un uomo privo di dimensione collettiva.
Quei detenuti non hanno fatto come Morucci (si veda il mio commento sopra), non hanno rivendicato la “giustezza della loro spinta”, le ragioni che li hanno mossi, quella “verità” che secondo Fortini resta ancora valida.
La critica di Fortini, nel merito, è condivisibile, il punto che coglie è ineccepibile e glielo riconosco.
Ma io tenderei a non assolutizzare.
Fortini forse non empatizza al punto da capire che quegli uomini hanno bisogno, in quel momento in cui hanno compreso l’efferatezza dei loro crimini (che sono stati appunto terrorismo politico, non semplice violenza privata o violenza rivoluzionaria), e hanno passato anche il calvario delle carceri speciali, di .dire a se stessi e al mondo che “nonostante le brutture, le carceri e le violenze, non abbiamo smesso di essere uomini”.
Solo da lì, si può ripartire, se non avessero conservato la propria umanità – certo è un’iperbole – non potrebbero nemmeno proporsi a livello collettivo.
Ascoltando Bonisoli, che ancora oggi nei suoi incontri proclama: “A noi non importava solo il nostro orticello, volevamo cambiare il mondo, reagire a ogni ingiustizia, anche quella che avveniva dal Vietnam e a questa causa salvifica abbiamo dedicato totalmente la vita, fino a essere disposti a perderla” non penso che abbia perso la sua coscienza politica, non penso che abbia dimenticato la verità che c’era nella sua spinta.
E mi chiedo cosa direbbe oggi Fortini se potesse vedere uno degli incontri di giustizia riparativa che mettono a confronto, come amici, Bonisoli e Faranda con Agnese Moro.
Per inciso: il discorso di Fortini non verte, in alcun passaggio, sul tema dissociazione o pentitismo, non generalizzerei quindi il suo giudizio, che è riferito solo a quel che afferma quel gruppo di ex BR – a meno che altrove si scagli contro la dissociazione tout court.
Per Furio Petrossi:
Ti rispondo sinceramente: la prima parte di De Lutiis mi sembra sorpassata dal tempo.
E’ del 1989, non si conosceva ancora Germano Maccari e non avevano ancora parlato Moretti, Balzerani, Braghetti. Poco dopo c’è stata La notte della Repubblica di Zavoli, che già inizia a far chiarezza su alcuni punti.
Per uno come me, cresciuto sentendo sempre politici e giornalisti parlare di misteri sul caso Moro:
– la motocicletta che sparerebbe ai passanti (falso, non ha sparato su nessuno, il testimone si è pure ricreduto)
– il presunto superkiller mafioso che avrebbe sparato 49 colpi in modo portentoso (falso, i periti si son contraddetti, possono essere stati in due, e comunque era facilissimo sparare 49 colpi a due metri di distanza su persone inermi disarmate)
– il coinvolgimento dei Servizi segreti che sapevano tutto (prove? nessuna)
– i tanti covi delle BR per tenere Moro (prove? nessuna, ragione logistica? inesistente)
e potrei continuare,
è stato un vero smacco scoprire, approfondendo, che questa vicenda presunta aperta e piena di misteri è invece molto chiara nei dati essenziali, ma non la si vuole accettare.
Difficile oggi per me dare credito a chi parla in modo disinvolto del ruolo dei Servizi segreti, come Giorgio Galli, senza presentare il minimo, ma dico il minimo documento probatorio (ho letto parte del suo libro Piombo rosso).
L’unico mistero del caso Moro è il comunicato della Duchessa – di cui peraltro Steve Pieczenik si è assunto la paternità, consigliandolo a Cossiga.
Non credo che i Servizi segreti sapessero tutto e abbiamo manovrato o lasciare andare la storia con stop-and-go. Forse sapevano dei dettagli.
Sono convinto che l’agguato di via Fani e l’uccisione di Moro siano andati esattamente come dicono praticamente tutti gli ex BR.
Che i politici al governo, spinti da Usa e P2, abbiano facilitato con la cosiddetta fermezza l’uccisione di Moro per garantire una presunta stabilità allo stato, non soccombere al terrorismo e soprattutto impedire l’ascesa al governo del PCI, quello sì, mi sembra plausibile.
Trovo molto più interessante la seconda parte di Silj, che ripercorre la storia iniziale delle BR con degli spunti interessanti – anche lì, da prendere con le pinze Franceschini e ogni idea di Galli.
Gli spunti per me, sono più che altro di ricostruzione del contesto storico, quello sì mi interessa.
Devo dire che sentendo parlare di quel periodo da chi l’ha ricostruito dalle memorie provo un senso di smarrimento; simile a quello che coglierebbe un uovo caduto a terra che cerca di reimmaginarsi intero.
Ed è meccanismo comune a tutte le ricostruzioni, chè accadimenti e scelte che al momento sembravano chiari od obbligate visti all’indietro appaiono spesso inestricabimente confusi.
O si fa come Braudel, che ricostruiva ab initio, dalle radici lontane, la necessità degli accadimenti e delle scelte; o in qualche modo si ricostruiscono i cammini e le scelte di percorso dalle memorie e dai resoconti sì, ma depurati di ogni componente morale od ideale: non perchè non ci fossero. ma perchè nei ricordi di chi parla e nelle aspettative di chi sente assumono un peso sproporzionato, che falsa tutta la prospettiva. E insisterei a guardare particolari dei sentieri percorsi che ne accentuino la materialità e la necessità.
Faccio solo un esempio per capirsi: a un certo punto del mio cammino mi vennero a trovare a casa dei personaggi che sapevo essere brigatisti, e volevano sapere come erano nati i comitati operai che avevamo messo su nelle fabbriche milanesi come Alfa, Innocenti, Carlo Erba..e non vollero credere a quello che gli raccontavo perchè non corrispondeva all’idea che s’erano fatta (una conferma ante-epoca delle ipotesi Bayesiane sulla coscienza); non potevano credere che all’Alfa fosse nato tutto non da una massa di diseredati del Sud che nel trapianto in fabbrica s’erano destati coscienti di classe ma da un isolato ex Gap che faceva l’operaio specializzato; e similmente per le altre…. E posso difficilmente immaginare cosa possa diventare quel colloqui in una ricostruzione odierna degli stessi personaggi…
E ancor di più per le scelte cruente.
La ricostruzione dei fatti, da parte di Sìlj è certamente datata, meno quella delle storie personali e, come dici tu, del contesto.
Teniamo conto che Silj è tra i primi a indagare sul fenomeno con un’analisi dei “punti di vista” delle diverse parti.
La prima parte del suo libro del 1977 “«mai più senza fucile!» alle origini dei NAPe delle BR” ha un’introduzione di Pio Bandelli quasi dal piglio “catechistico” per le domande e le risposte che vengono elencate. Il resto del libro è dedicato ai “profili” di alcune persone (Ognibene, Franceschini, Curcio, Mara per le BR ed altri per i NAP).
L’ultima parte affronta alcuni snodi (Vecchi involucri e nuove istanze, La sinistra rivoluzionaria e il problema della lotta armata, Violenza come norma, violenza delle istituzioni, La clandestinità, La « matrice cattolica » )
Vengono riportate anche alcune parti di documenti di Avanguardia Operaia decisamente contrari alle BR, a volte quasi irridenti e offensivi nei confronti del brigatisti.
“Radicalmente opposta è invece la posizione da cui parte la critica di «Avanguardia operaia », che non condivide la tesi dell’attualità delle posizioni « offensivistiche ». In un articolo intitolato Lotta di classe e forme di lotta e in un documento di lavoro intitolato Violenza proletaria: Lenin o Sorel? si distingue tra, a. violenza borghese (sia nella versione legale, polizia, ecc. che extra legale, fascisti, ecc.); b. violenza proletaria; c. violenza piccolo-borghese. Il documento di Ao (5) attacca quei « gruppi e gruppetti che… ricalcano le orme fallimentari dei loro predecessori piccolo-borghesi » e soprattutto del blanquismo e del sorelismo, e che non hanno fatto che accumulare sconfìtte provocando, a volte, danni non piccoli alla causa del proletariato”
“Respinti dal proletariato, organicamente incapaci di organizzare le forze operaie e di farle crescere nella lotta contro lo sfruttamento, gli odierni seguaci di Sorel sperano che la cosiddetta « azione esemplare » oppure la cosiddetta «militarizzazione » di qualche studente (una vera pulcinellata che serve solo alla Ps per imbastire montature e provocazioni) realizzi il miracolo: i proletari all’improvviso dovrebbero capire quanto bravi sono questi piccolo-borghesi, quanta paura mettano alla borghesia con i loro metodi e, di colpo, le masse popolari manderebbero al diavolo i revisionisti per porsi il problema del potere”
Per essere una che era nata nel 1945, dopo la guerra, di famiglia piccolo borghese, che aveva potuto studiare e immaginare una vita qualunque, colta e informata, ma in cui il conflitto di classe era mediato dalla crescente democrazia (vedi Tronti): quelli che si riportavano -psicologicamente- al conflitto guerriero e politico da poco passato erano per me dei vaneggianti.
Li incontravo in università e mi stupivo delle loro fissazioni: il tempo non era più quello. Non che lotte non ci fossero, nè ingiustizie, ma erano dell’oggi non di venti anni prima.
Solo ideologia, tanto mi pareva animarli.
Infatti.
Eppure -e si spiega la serie di post che Poliscritture vi dedica- troppi parteciparono a una rivolta diffusa politico/militare.
Credo che sia necessario, oggi, comprendere umanamente i percorsi, di autocritica o no, di tanti che hanno partecipato a quelle azioni. Sono individue segnate/segnati.
Ma ragionamenti sull’oggi -e appena ieri- e sulla posizione italo/europea nel mondo forse multipolare, ecco: ragionamenti e azioni sull’oggi, da lì, dai lottarmatisti, non vengono.
…sono titubante a scriverne perchè in quegli anni c’ero, sono nata nel dopoguerra, ma ero talmente coinvolta in problemi in qualche modo di sopravvivenza che mi guardavo attorno…come? non era indifferenza, piuttosto un verificare “siamo messi tutti puittosto male!”. Ero una donna in difficoltà, ne rappresentavo diverse altre, e a mio modo ero coraggiosa, anche se un po’ bambina…D’altra parte vivevo ancora a Lodi, dove tutto arrivava in sordina…anche tra gli amici di DP…
Certo già allora se pensavo ai singoli prescelti dai gruppi armati, vedi BR, come rappresentanti di nemici di classe, nei vari settori decisionali della società, politica, magistratura per le loro azioni “punitive”…,qualcosa non mi convinceva…il nemico, chiamiamolo pure cosi’, disarmato spesso rapito, sottoposto a processo, a torture, infine giustiziato…No, non c’era senso…pensavano davvero con tali azioni di promuovere una convinta risposta collettiva, una rivoluzione? Al contrario, si profilo’ una generale presa di distanza da tali episodi,e , dal governo, decisamente e, con soddisfazione, reazionaria…D’altra parte penso che le verità, di giustizia sociale, di solidarietà, a cui si riferisce F. Fortini, promosse e difese dai movimenti studentesco e operaio fossero presenti anche nel pensiero nei giovani dei gruppi armati…NOn si arrivo’ certamente all’azione senza incontri, discussioni di gruppo riflessioni, anche rabbiose, sulla società di ieri che purtroppo è ancora di oggi, cosi’ violenta sui poveri, gli oppresi di sempre…ma i mezzi, le modalità, come i fini concreti, nel senso di parziali, da raggiungere, erano del tutto errati sia per l’etica che per la politica…Con questo non mi ritrovo nell’esigere da chi ha commesso tali reati in nome di sacrosante verità il pentitismo …Una parola per me troppo confessionale, che sottintende colpe e penitenze…Sappiamo infatti che se è solo una delle parti a spargersi il capo di cenere, mootissimi altri, dalle colpe ben peggiori e centuplicate all’ennesima potenza, se ne guarderanno bene dal fare altrettanto, ingigantenndo in avidità, potere e razzismo…Spiace per l’enorme strascico di sofferenze e incomprensioni…
Prof Samizdat
mappe per autoironici archeologi
Il mio undicesimo figlio è delicato, dei figli miei è di sicuro il più debole. Ma la sua debolezza è ingannatrice. A volte egli può infatti essere forte e risoluto; eppure, anche in quei casi, la debolezza è in qualche modo determinante. Non però si tratta di una debolezza che faccia vergogna ma di qualcosa che solo appare debolezza in questo mondo.
(F. Kafka, Undici figli )
– Prof Samizdat
Oscenamente divino e affascinante il tuo sguardo! Quando riconobbi i tuoi occhi sotto il passamontagna, morte morte ti trascinava. Ti trattenni, mi buttasti a terra, poi spari, spari tanti; e una lastra di sangue sull’asfalto.
Oh, in quale olimpo geometrico – in alto tu, in basso noi, passanti che dovevamo sciamare nei flussi di cristallo da te approntati – hai preparato la tua e la nostra fine!
Non quasi signore contro antichi signori ti pensavo, ma tenace, ancora a noi accanto, nel solco di comuni speranze a costruire nei riquadri d’ombra.
E tu, invece, a squarciarli, ad accecarci con lampi distruggitori, mostrando osceni brandelli di un comunismo da tempo, in silenzio e senza brividi, squartato in menti da camposanto.
– Guerriero
Per un attimo sentii che t’afferrasti, ma al mio fantasma giustiziere e terribile, non al mio corpo materiale e combattente. Rinnegandomi, non potevi fermarci.
A stento, assieme, nelle città di allora, concentrammo pulviscoli d’esistenze nuove; e intessemmo i rapporti possibili, un disegno operaio di rivoluzione.
Furono attimi. Decidemmo solo in parte e come e dove lottare. Perciò ci separammo.
Di quel progetto luciferino, ora inerte, non accusare solo noi, i demoni; né vantare una tua innocente cecità contro la nostra superbia.
Inzuppate di sangue abbiamo le care, ma già stracciate, carte di libertà; e dato, con fragili armi, assalti nei cieli alla morte, per classi intere nel mondo e non per pochi soltanto predisposta.
Perciò del corpo a corpo, che ci ha fuso coi nemici, non chiedere i resoconti a noi soltanto. Avessi fissato davvero i loro occhi, invece di abbassarli presto turbato, lo sguardo mio, a confronto, lo troveresti delicato e pieno di riguardi.
(da Prof Samizdat, versione marzo 2009)
“Per essere una che era nata nel 1945, dopo la guerra, di famiglia piccolo borghese, che aveva potuto studiare e immaginare una vita qualunque, colta e informata, ma in cui il conflitto di classe era mediato dalla crescente democrazia (vedi Tronti): quelli che si riportavano -psicologicamente- al conflitto guerriero e politico da poco passato erano per me dei vaneggianti.” (Fischer)
Sarà stato così per te e bisogna tenerne conto nella riflessione storico- politica che qui da varie angolature sembra avviarsi.
Ma il moto del ’68-’69 non aveva riguardato soltanto la “piccola borghesia” ed aveva fatto affacciare alla politica anche quanti stavano in strati più profondi della società italiana: operai sopratutto, donne certamente, carcerati, intellettuali operanti nelle varie istituzioni. E pure di questi si deve tener conto.
Come fa, sia pur da un punto di vista dichiaratemente ostile al lottarmatismo, lo storico Sergio Luzzatto in “Dolore e furore”, una ricerca meticolosa sulla figura del brigatista Riccardo Dura.
P.s.
Miei primi appunti di lettura:
Luzzatto , Dolore e furore
1. Comincio a leggere il prologo. Libro importante per il mio narratorio Prof Samizdat e per inquadrare meglio la militanza in AO e il tipo di fallimento diverso da quello delle BR, pur nel comune clima operaista.
2. Luzzatto parla (con rispetto ed è tanto per uno storico) di “sovversivi” e “gruppettari”. La sua è la tesi “democratica”: accetta le critiche di Rossanda, ma il caso Dura è diverso: a Genova “le parole [di intellettuali come Faina, Adamoli, Fenzi] sono diventate pietre” (XLII)-
3. Pare consideri negativamente la posizione né con lo Stato né con le BR ( che fu la mia). O dei “compagni di strada” (tanti in effetti) che avevano condiviso “coi futuri terroristi le tappe originarie di un percorso di vita” (XLIV) cosa che sottolineai discutendo con Franco Calamida, ex dirigente di AO, criticando la tesi, allora dominante anche in AO, che fossero fascisti e del tutto staccati da “noi”.
Si occultava così la verità che Luzzatto riconosce: “ il fatto che i brigatisti rossi non erano cresciuti nel vuoto pneumatico delle loro idee ‘farneticanti’, come allora non si perdeva mai l’occasione di dire. Né i brigatisti avevano operato alla vigilia e agli esordi della lotta armata nel ‘terrificante isolamento’ al quale tanto si voleva far credere: una distorsione prospettica di cui finemente ragionava, già allora, Umberto Eco” (XLV)
4. Molto interessante che consideri la carriera scolastica del protagonista del libro, Riccardo Dura (XXXIII)
5. Metodo dello storico. Il suo è il modello di Franco Venturi: biografie dei protagonisti (XXXIX)
6. Il titolo del libro ‘ dolore e furore’ da Rossanda [XLIV]
7. “per raccontare Riccardo Dura, questo libro sceglie di raccontare soprattutto il mondo intorno a lui. O meglio, al plurale: i mondi intorno a lui. In particolare, le tre diverse comunità di cui Dura fece parte nelle tre fasi cruciali della sua vita. La comunità ristretta del riformatorio, con gli allievi coatti della nave-scuola Garaventa. La comunità ampia e liberamente scelta del movimento extraparlamentare, co i militanti di Lotta Continua. La comunità scelta, ma cogente – per molti veris, nuovamente coatta – del gruppo clandestino, con i terroristi delle Brigate Rosse” (XXVII)
Caro Ennio
“discutendo con Franco Calamida, ex dirigente di AO, criticando la tesi, allora dominante anche in AO, che fossero fascisti e del tutto staccati da “noi”.”
Non bisogna prendere per oro colato le affermazioni di tattica politica che propgandisticamente volevano porre la massima distanza possibile tra BR ed AO.
Altri documenti, precedenti li definivano “piccolo borghesi” e “soreliani” (doppia offesa, sia per la tendenza di Sorel a trasformare la lotta da scientifica a “mitica” – e violenta – sia per l’ambiguità delle ultime vicende di Sorel di avvicinamento al fascismo).
Nei documenti si sovrappongono diversi strati di detto, non detto e interdetto.
Non solo, ma le posizioni sono variate nel tempo.
Il “vero” non c’è, lo si può approssimare scavando molto a fondo.
Non rispondi però alla mia osservazione finale nel commento, che: “ragionamenti e azioni sull’oggi, da lì, dai lottarmatisti, non vengono” e non vennero. E’ quello il limite politico di quei movimenti e raggruppamenti, per cui restarono minoritari.
@ Fischer
“Non rispondi però alla mia osservazione finale…”
Non ne vennero. Ma non mi pare che ne siano venuti poi da altri o da altre.
Si sta riflettendo su una sconfitta storica. E di tutta la Sinistra.
allora dirò così: che allora ci fu chi interpretò la continuità, dc e pci in primis ma anche il psi. In quegli anni – io ne avevo 30 e più- si incremento’ la “spregevole” partecipazione democratica. L’Italia 5 potenza industriale al mondo? La caduta fu successiva, alla fine degli ’80 e seguenti. Si puni’ Craxi? Cadde l’Urss, e poi si sa.
Una serie di considerazioni terra terra, fatte col senno di poi, a riguardo della sinistra estrema:
– Tra il 1967 e il 1969 nascono il Movimento Studentesco, Lotta Continua, Manifesto, Avanguardia Operaia e Potere operaio, 5 formazioni comuniste, quasi tutte leniniste e già in competizione se non in avversione tra loro.
– Tra il 1969 e metà anni Settanta nascono circa una ventina di formazioni armate (parlo delle principali), tutte comuniste. Si fa fatica a trovare dei nuovi nomi, quando ne sorge una. Tutte vogliono la rivoluzione proletaria, di solito in stile bolscevico. Ma appunto, sono una miriade di formazioni separate l’una dall’altra. Nemmeno sul fare la rivoluzione armata i comunisti si mettono insieme, restano super frammentati, e ci tengono a restare frammentati.
E così quando sorge nel 1976 la lista unitaria di Democrazia proletaria, unione delle formazioni extraparlamentari che hanno rifiutato la lotta armata, il risultato è deludente:
– è una lista elettorale di gruppi divisi al loro interno, con una loro identità
– ci sono tantissimi militanti, rispetto a chi vota la lista: un partito che ha più militanti attivi che votanti (è un’iperbole, ma non di tanto).
Insomma, son tutte cose che vediamo anche oggi.
Anni fa, quando sorse Potere al popolo, vari amici volevano convincermi che avrebbe superato il quorum vista la partecipazione nelle strade. Ci credevano. Ma io dicevo: più militanti che votanti – e dopo le elezioni, ecco le scissioni, le divisioni interne, i Cobas ecc.
Non è cambiato molto.
L’articolo è stato ripreso qui:
https://www.sinistrainrete.info/politica/27830-lorenzo-galbiati-anni-70-sulla-sconfitta-della-lotta-armata.html
Ci sono anche tre commenti (i primi due molto critici verso il sottoscritto)
‘Una ventina di formazioni armate tra 69 e metà settanta?
Fonti e nomi per favore…
E pensare che noi non ce n’eravamo accorti….
Pensa Paolo
che nello scrivere “una ventina di formazioni armate” ho voluto precisare, tra parentesi, che “parlo [solo] delle principali” perché in realtà sono molte di più.
Noto infatti nella Sinistra un voler rimarcare che in quegli anni c’era una sorta di guerra civile in atto, con militanti armati ovunque, con tante formazioni armate che colpivano ogni giorno – non vorrei tornare sul tema: da una parte c’è un aspetto di verità in questa visione, poiché è giusto inquadrare bene le dimensioni del fenomeno; d’altra parte c’è a mio parere una esagerazione poiché il numero dei militanti armati resta relativamente esiguo e la loro organizzazione non ascrivibile a una (presunta) guerra civile, concetto che i non-dissociati a mio parere intendono usare per voler giustificare i morti uccisi dal terrorismo in quanto vittime di un impersonale “conflitto sociale”.
Venendo ai dati,
le formazioni armate di sinistra tra gli anni Settanta e Ottanta si attestano sul centinaio, se si considerano anche quelle regionali, ora non trovo la pagina wikipedia da dove avevo preso il dato. Ma posso dartene un altro: stando al ministero, nel 1979 c’erano ben 269 formazioni armate “operanti” in Italia (non si contano quindi quelle già sciolte), di destra o sinistra. Dati ufficiali, diffusi da Curcio, che evidentemente ancora oggi ci tiene a ricordarlo, in un libro della sua “Sensibili alle foglie” ma anche da Nanni Balestrini e Toni Negri sul francese Liberation, e riportate dall’avvocato (già difensore di Cesare Battisti) Davide Steccanella nel suo libro “Gli anni della lotta armata – Cronologia di una rivoluzione mancata”, ed. Bietti, dove si legge anche: 36mila indagati, 6mila condannati, 7866 attentati compiuti, 4.290 azioni di violenza ai danni di persone – credo che gli ultimi dati però siano anche successivi al 1979.
Quindi, a cosa pensavo dicendo una ventina? Ho fatto un veloce ripasso a mente delle formazioni operanti dal 1969 al 1977 (ho poi scritto metà anni Settanta, approssimando),
e me ne sono sono venute in mente una quindicina:
Le prime due
1) Gap di Feltrinelli e
2) XXII Ottobre di Mario Rossi
Poi, dal CPM sono sorte
3) Brigate Rosse
4) Superclan di Simioni
Da Lotta Continua:
5) i NAP
Da Potere Operaio:
6) Lavoro Illegale, ossia il suo settore militare, con a capo il giovane Morucci, che commerciava in esplosivi e vedeva a Milano Franceschini e Moretti, in un incontro surreale molto godibile – che meriterebbe da solo un romanzo – di cui parlano sia Franceschini (che dà a Morucci del fascistello sanbabilino e ai compagni romani dei barboni) sia Morucci (che descrive Franceschini e Moretti come delle persone grigie, castigate, curve, stupite dai suoi Rayban), sia per sentito dire la Braghetti.
Ma dalla fine di Potere Operaio in poi, nasce l’area dell’Autonomia che, prima del congresso del 1977 esprime:
7) Le FCA, Formazioni comuniste armate sempre di Morucci
8) le UCC unità comuniste combattenti, che nascono dalle FCA
9) I CoCoRi; comitati comunisti rivoluzionari
10) I Collettivi Politici Veneti legati a Negri
Tutti questi nascono entro il 1975, a parte i CocoRi, che nascono nel 1976.
Ma se conti anche le formazioni più piccole, il numero sale, c’è un elenco qui:
https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazioni_armate_di_sinistra_in_Italia
Nel 1976, con incubazione in Lotta continua nel tardo 1975 nasce
11) Prima Linea, la seconda organizzazione dopo le BR per numero di morti
Nel 1977 nascono
12) le FCC di Alunni e Barbone, da qui la mia battuta: per il nome ormai mancavano le parole: Formazioni Comuniste Combattenti è quasi uguale a FCA e UCC
13) i Proletari Armati per il Comunismo, PAC, di Cesare Battisti, terza formazione per numero di vittime,
14) Autonomia milanese gravitante intorno a Rosso, a cui si deve la manifestazione del 14 maggio dove Ferrandi, del Collettivo Romana-Vittoria spara al brigadiere Custra.
Nel 1977 nascono altre formazioni armate tra cui l’anarchica Azione Rivoluzionaria.
SEGNALAZIONE
Dottorato di Ricerca in Studi Letterari, Linguistici e Filologici
Indirizzo: Letterature Comparate e Studi Culturali
Ciclo XXIV
Tesi di Dottorato
Terrorismo e conflitto generazionale
nel romanzo italiano
Relatore: Prof. Massimo Rizzante Dottorando
Coordinatore del Dottorato: Prof. Fulvio Ferrari Gabriele Vitello
anno accademico 2010-11
http://eprints-phd.biblio.unitn.it/707/1/TESI_DI_DOTTORATO_SUL_TERRORISMO.pdf
Stralcio:
La riscoperta di questa stagione storica da parte degli scrittori si è configurata, per usare un termine gramsciano, come una scoperta “passiva”, nel senso che la letteratura è intervenuta in ritardo rispetto al cinema, alla televisione e alla memorialistica degli ex-protagonisti di quegli anni, pagando un tributo molto pesante per ciò che concerne l’autonomia del proprio sguardo e della propria visione sul reale. La libertà romanzesca è stata così sacrificata dal credito offerto agli stereotipi più banali (il terrorismo come odio privato, follia, rivolta contro il perbenismo e l’ipocrisia borghese) e dal peso di giudizi moralistici. Sembra quasi che gli scrittori italiani si siano attenuti alla seguente regola non scritta: si può parlare di terrorismo ma a patto di censurarne la dimensione storico-politica, di farne quindi materia per una rappresentazione immune dai condizionamenti del tempo, una «favola metastorica» valida anche in altri contesti spaziali e temporali. Le storie familiari e generazionali prese in considerazione nella mia ricerca sono estremamente sintomatiche dell’imbarazzo provato dagli scrittori di fronte alla dimensione storica e sociale degli eventi, sui quali viene sovrapposto il filtro di immagini mitiche e schemi interpretativi poveri e semplificanti. La decisione di calare il terrorismo nella vita ordinaria delle persone comuni diventa pretesto per una sua banalizzazione e riduzione a mero ingrediente di un dramma sentimentale. L’enfasi posta sul privato a scapito del pubblico è l’effetto di una “soapizzazione” del terrorismo. Molti di questi testi sono delle vere e proprie soap operas, il genere televisivo destinato principalmente ad un pubblico femminile, la cui essenza risiede nella «riflessione sui problemi personali e l’enfasi è posta sul parlare e non sull’azione, sullo sviluppo lento piuttosto che sulla reazione immediata, sulla punizione ritardata piuttosto che sull’effetto istantaneo» . L’azione violenta e l’omicidio sono raccontati per lo più in modo indiretto e obliquo. La scelta quasi unanime di ambientare le vicende nel presente fa sì che gli anni di piombo vengano ridotti per lo più a mero ricordo. La trasposizione narrativa della violenza diffusa degli autonomi, gli omicidi delle Brigate Rosse e le stragi viene mediata spesso dai giornali e dalla televisione, prestandosi così ad una rievocazione nostalgica. Come ci ricorda Morreale, infatti, «una volta tramutata la memoria in memoria televisiva-spettacolare, è possibile la nostalgia di qualunque cosa», anche di un evento traumatico come la violenza-
Sono molti gli studi (specie all’estero) che hanno interpretato il terrorismo come un trauma collettivo. Del resto, come ha osservato Giglioli, «l’idea di trauma gode oggi di una fortuna senza precedenti»: Risuona ovunque: nella comunicazione corrente, nel linguaggio giornalistico, negli studi umanistici e nelle scienze sociali. Del trauma si occupano letterati, psicologi, sociologi, politologi e filosofi. Al trauma si intitolano riviste e convegni, monografie e dipartimenti universitari, e perfino una neonata disciplina come i Trauma Studies. Ma più ancora al trauma ricorre con frequenza ossessiva il linguaggio quotidiano quando vuole sottolineare l’intensità emotiva di una notizia, di un evento, di uno stato d’animo.
Ad un immaginario traumatico corrisponde però, in modo paradossale, una realtà del tutto anestetizzata (almeno apparentemente), poiché oggi le occasioni di trauma sono state respinte ai margini dell’esperienza quotidiana come mai prima nella storia della specie umana almeno per quanto riguarda le nostre opulente società dei consumi. Niente più guerre qui da noi, carestie, epidemie, conflitti religiosi. Ingentilimento dei costumi, diritti dell’uomo, stato sociale, compassione diffusa. Mai la vita umana è stata così protetta, tutelata, santificata a valore assoluto. Mai alla felicità e all’infelicità del singolo è stata data tanta importanza.
L’analogia tra terrorismo e trauma rischia tuttavia di apparire impropria poiché, come ha notato Donnarumma, se il trauma è ciò che non accede alla coscienza e non può essere raccontato, poiché recalcitra alla simbolizzazione, il terrorismo è invece una costellazione di eventi su cui da subito sono proliferati discorsi e letture simboliche. Solo che – e qui l’assimilazione può tornare ad avere valore – come il trauma genera i discorsi obliqui, frammentari e non comunicativi del sintomo, del sogno, del lapsus, così il terrorismo ha prodotto una serie di discorsi letterari che, mentre lo dicevano, insieme lo nascondevano: formazioni di compromesso, insomma, tra bisogno di raccontare, capire, giudicare e resistenza al racconto esteso, alla comprensione piena, al giudizio profondo. Al di là di queste riserve del tutto lecite, resta il fatto che la moda letteraria del terrorismo soddisfa il desiderio di restituire all’esperienza un valore e una pregnanza, conferendole una forma traumatica. Si può quindi a mio avviso parlare di un vero e proprio desiderio del trauma. In questo senso, possiamo legittimamente supporre che il ritorno delle Nuove Brigate Rosse con gli omicidi di Masssimo D’Antona (1999) e Marco Biagi (2002) abbia non solo risvegliato le nostre paure e riattivato vecchi incubi del passato, ma anche stimolato i nostri sogni più profondi e inconfessabili, riaccendendo la nostra speranza nella possibilità che la storia possa rimettersi in moto e salvarci dal “deserto di noia” del presente, strapparci, per dir così, dal nostro ruolo di meri spettatori televisivi ridandoci in mano un’altra carta da giocare.
La letteratura registra i sintomi di questi sentimenti ambivalenti. I romanzi più recenti, scritti nel corso degli anni Zero, costituiscono infatti delle formazioni di compromesso, nelle quali il peso dei giudizi moralistici compensa e nasconde la speranza inconfessata nell’avvento di un cambiamento radicale. Nell’immaginario narrativo confluiscono così la nostra insoddisfazione rispetto all’attuale torpore ideologico e la nostra volontà di ribellarci contro una realtà sociale ridotta a spettacolo e reality show . Ciononostante, il tentativo di riportare il trauma al centro della scena fallisce. Le storie di famiglia prese in esame in questo lavoro lo mostrano molto bene: il trauma ha un carattere del tutto fantasmatico; senza volerlo, gli scrittori raccontano il trauma dell’assenza di trauma. Il terrorismo viene de-traumatizzato immergendolo nello spazio ovattato della famiglia, al cui interno non c’è nessun nemico, e dunque nessun conflitto. La crisi del modello edipico e l’evaporazione delle figure paterne contribuiscono certamente a questo effetto, ma non dobbiamo dimenticare l’assenza in questi testi di figure antagonistiche come i rappresentanti delle istituzioni pubbliche (giudici, poliziotti, uomini politici).
La storia del terrorismo è raccontata esclusivamente attraverso figure di figli, padri, fratelli e coniugi, trasmettendo un’immagine consolatoria e rassicurante che nasconde l’inettitudine dei poteri pubblici. Mi pare significativo in questo contesto notare come nessuno scrittore abbia mai voluto cimentarsi in un romanzo giudiziario sugli anni di piombo, un romanzo in cui raccontare le vite di uomini pubblici coinvolti nel difficile processo di accertamento della verità. Se, com’è stato già osservato, la recente fiction dedicata al terrorismo e agli anni di piombo ha svolto una funzione compensatoria e suppletiva rispetto al vuoto giudiziario e storiografico, ciò è ancora più vero per molti romanzi scelti in questo lavoro. La centralità del rapporto genitori figli e di temi come la colpa e il perdono è la dimostrazione di come l’immaginario collettivo deleghi alla famiglia il compito di portare a termine quel processo di riconciliazione col passato che la politica e le istituzioni non sono capaci di svolgere. La scelta di raccontare un tema di portata civile e nazionale come una storia di famiglia è il sintomo più eloquente della sfiducia nelle istituzioni pubbliche della cultura italiana e conferma in qualche misura la ben nota tesi della storiografia anglosassone riguardante il cosiddetto familismo amorale degli italiani. Gli anni Settanta, riletti sub specie mitica, diventano così l’ennesimo capitolo dell’autobiografia della Repubblica, il mito di fondazione di un’identità collettiva nella nostra attuale epoca post-ideologica. Ad una stessa sorte sembra destinata, com’è noto, anche la memoria della Resistenza: penso all’equiparazione, avvalorata anche da autorevoli esponenti di sinistra, tra i partigiani e “i ragazzi di Salò”. Ma quale è, a questo punto, l’utilità simbolica dei romanzi esaminati in questo lavoro? La risposta in parte è stata già data. L’immagine della famiglia che traspare da questi romanzi ricorda molto da vicino la visione della società civile propugnata dalla sinistra negli ultimi anni: assenza di conflitti, unanimismo forzato, scomparsa del Padre. Se nella storia italiana gli anni Settanta sono il decennio delle più laceranti contrapposizioni ideologiche, la rimozione di quest’ultime si rivela funzionale ad un processo di pacificazione psicologica e unificazione ideologica portato avanti dalla cultura di sinistra, processo che può dirsi compiuto con la nascita del Partito Democratico e l’esclusione dei vecchi partiti di sinistra dal parlamento. Da questo punto di vista, i romanzi sugli anni di piombo non suppliscono la ricerca storica, poiché la loro funzione consiste appunto nel negare la storia stessa, proponendo una narrazione del passato più accettabile all’interno della costruzione di un nuovo soggetto politico che ha rimpiazzato l’ideologia e la politica con un solidarismo genericamente morale, e rinunciato ad ogni prospettiva utopica per volgere nostalgicamente il proprio sguardo verso il passato.
Non del tutto contrapposto, ma molto diverso il il pensiero di Demetrio Paolin che nel suo saggio
“Una tragedia negata – Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana”
sostiene una tesi tranchant: la letteratura italiana sul terrorismo espungerebbe dal suo immaginario, dalla sua riflessione, la tragedia della violenza, delle uccisioni di persone in carne e ossa da parte dei terroristi, i quali non sarebbero semplici soldatini al servizio di una (pretesa) rivoluzione leninista che stenta a decollare, bensì uomini con una storia personale unica, con nome e cognome.
Ne ho parlato qui:
https://www.carteggiletterari.it/2022/12/14/una-tragedia-negata-my-encounter-with-demetrio-paolin/
Segnalazione, nella prefazione, Filippo La Porta cita “Tornavamo dal mare” di Luca Doninelli come romanzo “più bello” sugli anni di piombo.
“la letteratura italiana sul terrorismo espungerebbe dal suo immaginario, dalla sua riflessione, la tragedia della violenza, delle uccisioni di persone in carne e ossa da parte dei terroristi” (Tesi di Paolin riportata da Galbiati)
Se si deve riflettere sulla “tragedia della violenza”, si abbia il coraggio e l’onestà di farlo a tutto tondo non riferendosi soltanto ai “terroristi” che paiono spuntare da chissà quale mondo estraneo e senza alcun motivo. Si parli della violenza nella storia umana, allora. E in tal senso potrebbe meglio orientare il discorso la lettura deil “Saggio sulla violenza” di W. Sofsky, che ho in varie occasioni suggerito.
Non vorrei essere frainteso: ciò che dice il dottorando nella tesi è molto interessante e corrisponde al giudizio (indiretto) che mi ero già fatto sulla letteratura italiana intorno alla lotta armata:
1) la difficoltà di dare una ragione politica a quanto accaduto:
“Se nella storia italiana gli anni Settanta sono il decennio delle più laceranti contrapposizioni ideologiche, la rimozione di quest’ultime si rivela funzionale ad un processo di pacificazione psicologica e unificazione ideologica portato avanti dalla cultura di sinistra”
2) il concentrarsi sugli aspetti familiari, privati, a discapito di quelli pubblici:
“La storia del terrorismo è raccontata esclusivamente attraverso figure di figli, padri, fratelli e coniugi, trasmettendo un’immagine consolatoria e rassicurante che nasconde l’inettitudine dei poteri pubblici.”
3) La rimozione del trauma, in definitiva anche della dimensione violenta e qui la tesi corrobora quel che dice Paolin, che vorrebbe una narrazione tragica. Questa frase potrebbe averla scritta lui:
“L’azione violenta e l’omicidio sono raccontati per lo più in modo indiretto e obliquo. La scelta quasi unanime di ambientare le vicende nel presente fa sì che gli anni di piombo vengano ridotti per lo più a mero ricordo. La trasposizione narrativa della violenza diffusa degli autonomi, gli omicidi delle Brigate Rosse e le stragi viene mediata spesso dai giornali e dalla televisione, prestandosi così ad una rievocazione nostalgica.”
Sia il dottorando sia Paolin mi appaiono unidimensionali, il primo vuole aprire una questione politica (arriva fino a dire che con il Partito democratico “si è chiuso quel processo di processo di pacificazione psicologica e unificazione ideologica portato avanti dalla cultura di sinistra”), il secondo vuole aprire una questione personale, privata delle violenza politica.
Tra i due discorsi, Ennio, mi sembra più importante, il primo, quello caldeggiato da Rizzante. Un’opera letteraria non deve avere per fine la condanna della violenza politica.
Noto però che mi sembrano moralistici entrambi gli approcci. Moralistici perché ben poco dialettici – come già detto, troppo unilaterali nell’approccio – e portati a cimentarsi in una sentenza che si porge come rimprovero – e perciò volta a edificare una narrazione con una più elevata morale.
Quel che mi sembra chiaro, è che nel panorama italiano manca un grande romanzo sulla lotta armata, IL romanzo sugli anni di piombo.
Ed essendo impegnato in questa impresa, ogni volta che leggo questi saggi critici mi chiedo come considerare l’opera che ho in cantiere – che spero possa veder la luce.
“il primo, quello caldeggiato da Rizzante” (Galbiati)
Per evitare equivoci e essere precisi: Massimo Rizzante è il relatore della tesi
Il dottorando autore della tesi è Gabriele Vitello
Sì, ho visto, Gabriele Vitello.
Non vedo altro suo in rete, a parte questo articolo sulla sua tesi (poi divenuta saggio)
https://www.leparoleelecose.it/?p=13578
con commenti anche tuoi e di Giulio Mozzi che, vedo ora,
analogamente a quel che ho fatto io, citava come accostamento il saggio del suo amico Demetrio Paolin.
Postilla:
Una domanda da porsi, se volessimo affrontare il tema, penso dovrebbe essere: il panorama letterario italiano sulla lotta armata ha assunto la tendenza descritta da Vitello per deliberata scelta degli scrittori o, piuttosto, per i condizionamenti imposti loro dagli editori? Io penso che entrambe le opzioni coesistano.
@ Lorenzo
Grazie. Non ricordavo. Comunque nel 2014 su LPLC eravamo ancora in diversi a commentare e polemizzare. Oggi è un mortorio.
Non riesco a capire tutto questo dramma sulla violenza che fa Galbiati: qualche morto per motivi di classe, reali o immaginari che siano, da parte di persone che si rifanno alla classe operaia: mentre le violenze dell’altra classe coi loro morti, milioni non dozzine, sono dati per scontati.
Ma perchè mai dovremmo continuare a farci la morale?chè poi finiamo come in quei film dove il protagonista (americano ovviamente) strilla ‘crepi il mondo ma salviamo mio figlio/moglie/amante/nonno…..’