Ricordo di Franco Tagliafierro
di Ennio Abate
Quando c’incontrammo la prima volta? A Cologno Monzese. Venne con Pino Collura, un suo ex studente per farmi leggere «Strategia per una guerra corta», il suo secondo romanzo appena pubblicato. Era il 1999. Lo lessi nell’ottobre di quell’anno. Poi ci fu la presentazione alla Libreria Tikkun di Ermanno Tritto. Tanta gente, molti suoi ex suoi colleghi del VII ITIS e ex studenti.
Allora Franco abitava nell’appartamento di via Salieri a Milano, vicino alla stazione di Lambrate. Ricordo che non c’era ascensore e nell’appartamento di un condominio accanto al suo viveva una vecchia signora malata cronica che si lamentava – mi disse – tutto il giorno. Lì, a casa sua, facemmo i primi incontri per costruire un gruppo di ricerca. Volevamo che non andasse smarrita una storia di impegno culturale e politico che pareva ancora accomunarci. C’era Alberto Panaro e quel prof del De Nicola di Sesto, che poi non ho più incontrato. Il nome? Maledizione. Mi sfugge. So che aveva una memoria prodigiosa e capacità logiche eccezionali: tu gli dicevi una frase e lui te la ripeteva un attimo dopo pronunciandola con le lettere all’incontrario. Giuliano Accordi, ecco!
Il gruppo non sorse. Io e Franco, però, continuammo a incontrarci e a confrontarci sull’esigenza di fare gruppo. Accettò di entrare nella redazione milanese della rivista Inoltre (qui). Tirai dentro ancora lui e Giuliano Accordi nell’altra nascente redazione de Il Monte Analogo (qui) ma, annusato il clima competitivo e litigioso, se la svignarono elegantemente. Franco accettò pure, assieme a Lelio Scanavini, Paolo Rabissi e Adam Vaccaro, di darmi una mano nel gruppo dell’Inchiesta 2005 sui moltinpoesia (qui), benché critico sul mio discorso della moltitudine poetante. E a me andava anche bene. Almeno si discute, si cerca, mi dicevo. Ma a Milano e dintorni erano – per me mugugnante, per lui realistico – gli ultimi fuochi fatui della cultura di Sinistra, declinante e imbambolata – dicevo o credevo allora- tra esodo e rifondazione. Rimase solo Poliscritture, che dal 2005 va come una zattera alla deriva. E Franco ci è salito su di tanto in tanto, pur mandandomi segnali di fraterna attenzione.
Così, finimmo per ritrovarci in uno spazio di discussione a parte. Da vecchi e per noi due soli. Scrivendoci mail e incontrandoci soltanto quando tornava a Milano da Madrid per brevi periodi con Elisa Sanchez-Casa, che aveva sposato. Parlavamo spesso del passato politico degli anni ’70, del caso Moro, della fine – altro che rifondazione o esodo! – della Sinistra. E poi delle somiglianze e differenze delle nostre esperienze d’infanzia o della nostra formazione di liceali. Anche suo padre era stato maresciallo dei carabinieri come il mio. Io il militare non l’avevo fatto. Franco sì. E sotto la sferza del famigerato Gianadelio Maletti (qui). Lui, quasi subito e già da ragazzo, fuori dai vincoli dell’educazione cattolica. E non marchiato come me dalla Vocazzione (qui). Come mi raccontò nell’unica conversazione registrata che, vincendo le sue resistenze, gli strappai il 27 maggio 2022:
Lui che nella sua ricerca di narratore non sentiva il bisogno di partire, come invece facevo e faccio io, dal diario. Mi disse che un diario l’aveva tenuto per pochi anni, quand’era giovane. Poi l’aveva distrutto. Ed aveva abbandonato anche la poesia, che da giovane aveva praticato con passione, leggendo invece molta narrativa. Più di me.
Negli ultimi incontri parlammo di questioni che si pongono verso la fine della vita, riconoscendo entrambi la strana e amara coincidenza tra invecchiamento delle nostre esistenze e declino della politica ma anche della nostra passione per la letteratura. Senza più illusioni di un futuro né per le nostre scritture né per qualsiasi investimento in azione pubblica o politica. Al di là delle differenze dei nostri percorsi – io ex militante di Avanguardia Operaia fino al 1976, lui negli stessi anni vicino al PCI – non vedevamo più fondamenta su cui poter poggiare i nostri ragionamenti. O collaborare.
Franco mi disse che non riusciva neppure più a scrivere e a completare un suo romanzo pur abbozzato. Faticava anche leggere.
Senza dirlo, con la sua serenità sorniona e garbata, è venuto da Madrid un’ultima volta a Milano per sistemare le sue cose. E si è preparato alla morte. Che – pur annunciata, pur essendone lui consapevole, pur avendo deciso di non sottoporsi più alla chemio, pur avendo predisposto con serenità il suo addio – è arrivata lo stesso come un colpo cupo e improvviso. Ha dovuto di nuovo farsi ricoverare in ospedale e i medici hanno constatato l’aggressività e la velocità del male.
Che stretta dolorosa rileggere gli ultimi scarni messaggi whatsapp tra noi.
Franco: Incertezza sui giorni che restano Sono stufo. Ennio: Franco, puoi parlare? Ti chiamo? Franco: Fra qualche giorno. Ora sto ancora in ospedale. Ennio: D’accordo. Ti abbraccio e ti sto vicino. A un mese dalla sua morte lo ricordo pubblicando questo scambio di mail.
1 APRILE 2019
Franco Tagliafierro a Ennio Abate
Caro Ennio,
era un po’ di tempo che non aprivo Poliscritture, e non è una questione di pigrizia o di disinteresse, semmai una sensazione prolungata di inappartenenza, da collegare con i vuoti di memoria, ancora perdonabili, e un tran tran senza progetti.
Il tuo racconto (qui) mi ha svegliato le sinapsi, contrariamente ai libri che doverosamente continuo a leggere, e senza pormi tante domande mi sono sentito proiettare nell’ambito del protorealismo magico, quello di Bontempelli, per intenderci, e poi di Buzzati., dove la realtà è tanto più concreta in termini di personaggi e di comportamenti, quanto più si sottrae al principio di causa ed effetto, alla logica della necessità e alla verisimiglianza. E al tempo stesso non ho potuto evitare la rievocazione di quell’uomo di campagna che nella parabola kafkiana aspetta tutta la vita davanti al portone della legge per apprendere inutilmente, in punto di morte, che l’ingresso era destinato soltanto a lui. La magia è quella energia che viene trasferita dalla materia all’antimateria, quindi senza prescindere dalla esistenza reale della materia, ma trasformandola in qualcosa che la contraddice. che appartiene alla legge di una diversa necessità, legge che contempla l’inutilità, l’insensatezza, la misteriosità e l’imprevedibilità come punti fermi della sua ragione d’essere nell’ambito di una geometria non euclidea.
Se il tuo racconto mi ha fatto pensare tutto ciò, è evidente che mi è sembrato compiuto nella sua originalità e nella sua apertura ai significati che possano far comodo ai lettori, né più né meno della parabola di Kafka. Lo “spiazzamento”, o straniamento che dir si voglia, comincia con il Prof Samizdat che si alza da tavola anzitempo per pagare il conto di tutti, e termina con un manubrio che stranamente sostituisce il volante. Niente accade come ci si aspetta che accada, la mia curiosità di lettore rimbalzava da un periodo all’altro, ciò mi ha procurato divertimento e la voglia di dirti che hai scritto un bel racconto.
Un caro saluto
Franco
Ennio Abate a Franco Tagliafierro
Caro Franco,
sì, ci voleva proprio volante al posto di manubrio. E ho corretto. Alcune mie imprecisioni lessicali non sono casuali e mi danno sempre da riflettere. Per me ci sono termini più familiari e emotivamente carichi ed altri meno, perché acquisiti più tardi e sicuramente con minori o diverse risonanze emotive: manubrio lo è, perché immediatamente si collega alla bicicletta per grandi, che i miei cugini di Baronissi mi insegnarono a guidare da piccolo infilando la gamba destra di traverso sotto la canna centrale; volante lo collego soltanto mia esperienza di guidatore d’auto cominciata tardi e solo qui al Nord.
Queste imprecisioni dipendono anche dai buchi veri e propri della mia contorta educazione linguistica. Non esito a riconoscerlo. Mi sono accorto che a lungo – (fino agli anni ’80, credo) – ho scritto pò al posto di po’. E, fino agli anni ’90, ho usato a volte accappottato – nel senso di intabarrato, di ben avvolto dal cappotto – che sul dizionario d’italiano non si trova; e non so neppure se sia termine dialettale campano.
La prima bozza del racconto risale al 1982 e l’ho rielaborata e sistemata adesso, ritrovandola tra le carte (diario e appunti sparsi a volte manoscritti). Assieme ad altri che non so se hai avuto modo di vedere (Unio: qui) ha a che fare con la rielaborazione di sogni. E riconosco l’influsso indiretto di Kafka. Non so se di Bontempelli e Buzzati, perché non li ho mai letti veramente.
Quanta roba ho scritto convulsamente dal ‘76 circa ad oggi! E come sarebbe necessario riordinare, ripulire, buttar via! Lo faccio quando trovo il tempo. Ci vorrebbe un curatore capace di mettere in ordine (cronologico e tematico) e interpretare il materiale senza moralismi. Ma non ci conto più.
Gli amici hanno le loro cose da sbrigare. E rispetto al lascito di amici morti di recente (Lucini, Del Giudice, Grandinetti), pur sentendo il dovere di ricordare il loro lavoro, non posso caricarmelo addosso tutto io. (Meno male che le carte di Attilio Mangano sono riuscito a farle depositare all’Archivio Marco Pezzi di Bologna (qui).
Conservo ancora, ad esempio, due romanzoni del bidello scrittore Armando Tagliavento (qui), dattiloscritti col la sua vecchia Olivetti ma pieni di errori di battitura. Anni fa chiesi a G. che insegna a…, se mi trovava uno studente per occuparsi dell’indispensabile editing. Nulla da fare. Chiesi aiuto anche a… e a…, dichiaratisi entusiasti di alcune poesie di Armando che avevo pubblicato sul blog “moltinpoesia” (qui). Si tirarono subito indietro. Ci vorrebbero dei giovani studiosi, ma questi oggi non ruotano certo attorno a Poliscritture. Diciamocelo: apparteniamo ad una generazione che non ha saputo organizzarsi. E, sconfitta politicamente, non sa neppure a chi lasciare le sue carte.
Un abbraccio
Ennio
“diciamocelo: apparteniamo ad una generazione che non ha saputo organizzarsi. E, sconfitta politicamente, non sa neppure a chi lasciare le sue carte”, ecco: politicamente Poliscritture cerca di scavare e portare alla luce, ma sempre parte di una generazione che non ha saputo “come” organizzarsi.
Forse perché fissata su un passato non rivivibile.
Forse perché non sapeva pensare il cambiamento.
Intanto, invece, la nuova generazioni viveva in un’altra dimensione: “dichiaratisi entusiasti di alcune poesie di Armando che avevo pubblicato sul blog “moltinpoesia”. Si tirarono subito indietro.”
E’ tutto da dimostrare che la nuova generazione sappia pensare il cambiamento che la vecchia non riusciva a pensare. Quelli che “si tirarono ubito indietro” nel caso del lavoro da fare sui romanzoni di Armando Tagliavento lo fecero solo per egoismo.
SEGNALAZIONE
Quanto di morte noi circonda ⥀
Intervista a Lanfranco Caminiti
https://www.argonline.it/quanto-morte-noi-circonda-intervista-lanfranco-caminiti/?fbclid=IwAR11YdVB8roxdHPZZnUou9AjVw9e7qJl3pKtw6yil8d19HjJEZ1YAZtaAaE_aem_ATVcWWCeWjX4GVUMyuQS1v_ty1vvPBMAxQV6q4AzFBxAKWscvIrSzHh7sJZcWGuzbQNS-D5ZzaxlgWMfPIEOfJeH
Stralcio:
Una tra le pagine più dure e più belle del tuo libro ci ricorda che la distanza che ci separa dal morente, per quanto nostro amato e per quanto da lui amati, a un certo punto diventa incolmabile: «Viaggiavi verso qualcosa di oscuro, io no. Eppure, tu eri arrivata da qualche parte. Senza ritorno. E io con te. La morte non è un’esperienza umana – viviamo un giorno alla volta. Ma quando domani non c’è giorno, non è già morire?».
Ci diresti qualche parola in più sul senso in cui la morte non può dirsi umana?
La morte non si può esperire – non è una discesa negli abissi o una scalata sulle cime più alte e dici: Cavolo, vediamo com’è. Ho visto la morte in faccia – è un’espressione comune, dopo un incidente o una malattia, ma alla fine non ti ha ghermito, sei rimasto di qua, e non sei mai andato di là. E quando si muore davvero per un incidente, non hai mai il tempo di elaborare la tua morte, di farla entrare a fianco della tua vita. Diversa, molto diversa è invece la consapevolezza di una vita a scadenza, o ormai scaduta – quando ti viene detto che forse ti rimangono mesi, se ti va bene. Credo sia persino diverso dal condannato a morte che può sperare fino all’ultimo minuto nella telefonata del governatore, in un qualche ricorso del proprio avvocato, che fermi tutto – una cosa ancora nelle possibilità e nelle pratiche e nelle procedure umane, non un miracolo. È impossibile nell’esuberanza e nel tran-tran delle nostre vite quotidiane capire questa forma di vita, questo oltrepassamento della vita, questa lenta familiarizzazione con la morte. Con la propria morte – non con la morte degli altri, cosa che ti accade per un qualche mestiere di medicina. Non siamo esenti dalla morte nel corso della nostra vita – tutto ciò che vive, che vive o ha vissuto con noi non può che morire: un nostro animale domestico, i nostri nonni, i nostri genitori, qualche sfortunato amico, persino quella pianta o quell’albero che avevamo piantato in giardino sperando che diventassero rigogliosi. Ma tutto ciò ha a che fare ancora con la nostra umanità, con i nostri sentimenti – non con le fibre del nostro corpo, con il disfacimento del nostro corpo. È questo elemento orribile di consapevolezza, la differenza. Il nostro corpo ci lascia, non risponde ai nostri comandi, compie gesti opposti e contrari a quelli per i quali si è affinato in centinaia di migliaia di anni, per i quali i suoi organi, i suoi arti si sono progettati. Una sorta di regressione della biologia, che è una regressione dell’essere umani. Essere gettati fuori dalla vita. Dalla vita che sappiamo, dalla vita come la sappiamo. Dalla vita che avevamo vissuto, dalla vita che viene intanto vissuta dagli altri. E cos’altro è la non-più-vita se non già un avvicinarsi alla morte? Non è già un morire? Come è possibile vivere dentro la morte? Ogni giorno che passa, per l’animale morente, è uno stare con la morte. Ogni giorno che passa, per l’animale vivente, è uno stare con la vita.