Ra e mane e zi Luigia ae mane re mierece

Narratorio 10

di Ennio Abate

Dopo aver corso quel rischio di morte all’inizio della sua vita e dopo l’incidente del dito – l’unghia saltata non ricrebbe più e la punta del dito rimase deforme [1] – l’infanzia di Chiero fu punteggiata da vari malanni e  un serio incidente. Il Narratore perché dovrebbe saltarli?
Nel passaggio da Casebbarone a Salierne gli  venne l’uocchie sinistre strabbicheun occhio era rimasto a Casebbarone e l’altro era attirato da Salierne? – e per qualche tempo dovette portare gli occhiali corretivi. E i coetanei – terribili! –  sfottevano: o quatruocchie!

Tu e’ sufferte assaie. L’uocchie sinistre certi vvote o girave proprie tutte quante. E ie riceve a Nannine: Puortale addo nu specialiste, falle vedè! Parete, invecie, penzave ca ie ere esaggerate. Nun vuleve caccia sorde. Ere state sempe accussi. E po nun vuleve vedè mierece. Era na malatie. Ma ie ngio ddiceve sempe nfaccie: Tu nunn’ire omme e te nzurà! Cull’arte ch’aie fatte nun saie trattà e bambine. Puozze sta bbuone, ma che te crire ca so pure lore carabbinieri? Tu si state o figlie ca chiù ne risentive. Lui nunn’o capive. E, appene succedeve quacch’e cose, dave certe urle e subite a dì: o ill’oche, oì! o ill’oche! Nunn’ere maie cuntente. Pe mè, ere troppe volgare. Na mugliere cumm’a Nannine nun za mmeritava. Chella ere na ricamatrice. Faceve e parate de liette re spuse pe l’Americhe. A famiglie e mamma toie nunn’ere miche na famiglie “e terre”.

Chiero fu per tutta l’infanzia magrissimo. E i coetanei terribili sfottevano:  mo arrive o stuzzicariente! Un anno gli spuntarono pustole sul craniocumm’ao Zelluse? [2]  – e Nannìne e Mìneche a curargliele – per quel che sapevano o avevano visto fare ai parenti con impacchi di semi di lino scaldato e con Mìneche che le schiacciava per far uscire il pus.
Quando poi, dopo aver imparato si e no a fare le asticelle dalla maestra privata di Casebbarone, lui e Eggidie iniziarono a Salierne le elementari dalle monache del Bambin Gesù, la pancia di Chiero cominciò ad andare spesso in subbuglio. Soffriva di continue diarree che lo perseguitarono per anni.
Consigliarono a Nannìne – chi? – di farlo “mangiare in bianco”. E così, al mattino, non poté più sedere a tavola con Eggidie davanti alla tazza di latte fumante né inzupparvi i mascuotti.  Niente pasta asciutta a mezzogiorno. Cibo fisso quotidiano solo per lui: riso in bianco. Né dolci alle feste. E, quando,  da Casalbarone o Antessano, zii o zie arrivavano con i canestri di fichi, di gelsi o di ciliegie, Nannìne gli imponeva solo piccoli assaggi. 
Chiero, però, era continuamente in allarme e in preda alla paura. Gli attacchi improvvisi di diarrea potevano venirgli dovunque: quando si trovava a scuola o quando giocava o in parrocchia, quando cominciò a frequentarla assieme agli altri ragazzi. Da un momento all’altro si aspettava di sentire l’impulso incontenibile nelle visceri di quella schiuma sporca che voleva uscire. E cosa avrebbe fatto se succedeva a scuola durante la lezione? Che vergogna chiedere – alle monache prima, ai maestri poi, quando passò alle scuole statali – il permesso di correre in gabinetto. E, a volte, i crampi alla pancia gli capitarono d’improvviso per strada.

Tenev’a sciorde! N’at’a vote! Cumm’a quann’e ere chiù piccirille, ca erene ra poche arrivate ra Casebbarone rint’a a casa nova e Via Sichelgaite. E ca na vote, mente turnavene saglienne tranquille pe chella vie – isse, Mìneche e Eggidie – aveve sentite stu rulore dint’a panze. Ca senteve ca s’aveva scaricà. E subbite. Ma nunn’o puteve fa miezz’a vie. E allore s’ere misse a correre. P’arrivà chiù prieste ca puteva a case, saglienne i gradine  re scale a doie a doie. Pe bussà, chiamanne a Nannìne. Ca arapresse prieste a porte. Ca nun ‘ng’a faceve chiù.

Per mesi Nannine cercò di rimediare ai malanni del figlio con spremute di limone o latte di mandorle, che preparava lei stessa pestandole in un panno e mescolando la pappetta con acqua. Ma questi rimedi furono vani. E alla fine, dopo mesi, si decisero a portarlo da un medico molto apprezzato nella Salerno di allora, il dottor Guglielmo Pepe. Aveva lo studio al primo piano di una palazzina di mattoni rosso pompeiano che affacciava su un’ampia piazzetta. Era vicino a via Arce. Zona mutilatini. E la sua voce era gorgogliante e metallica per l’apparecchio che, quando parlava, accostava alla gola – (O aveva qualcosa in gola? Un laringectomizzato che usava un laringofono?) –  che all’esterno appariva come scorticata.  Perché colpito da qualche tumore? Chiero ripensandoci anni dopo aveva immaginato – o forse l’avevo sentito dire da qualcuno? – che fosse in quelle condizioni – puveriell’ nun
tene manc’ a forza’ e parla! –   per una ferita di guerra.
Il dottor Pepe ordinò delle pastiglie di enterovioformio. Che ebbero effetto e tranquillizzarono tutti. Prescrisse anche delle “cure ricostituenti”: cucchiai di olio di fegato di merluzzo dopo ogni pasto. E Nannìne preparava una fettina di mela per alleviare quel sapore disgustoso. E poi cicli di iniezioni di vitamina B12.

La signora Vuolo,  vestita di nero – anche lei per qualche lutto di guerra? –  e che abitava più su del 48 di via Sichelgaita, faceva l’infermiera in ospedale e – Chiero lo seppe dopo – era anche  conosciuta per la sua  bravura nel “fare gli occhi” [3], veniva a casa a ”fare le siringhe” a Chiero. Bussava alla porta.  E ogni mattina per una quindicina di giorni era un dramma. Chiero ne era terrorizzato.

Chiero, però,  restava sempre nervuse e Nannine e Mìneche non sapevano più che fare. Su insistenza di zi Rina lo portarono da uno psichiatra a Napoli, che per cura ordinò bagni d’acqua quasi bollente da fare nella vasca di casa. Nannìne solo una volta ci provò a riempire la vasca portando una dopo l’altra due o tre bagnarole d’acqua scaldata sul fuoco a carbonella. Ma Chiero, appena mise un piede nell’acqua calda, cominciò a gridare così forte che Nannìne non ci provò mai più. E se lo tenne così.

Aveva 9 anni quando gli fu imposto un altro inaspettato isolamento. Stavolta dentro casa. Un medico gli aveva diagnosticato un tifo e ordinato che Chiero stesse per  almeno una settimana nella  sua stanzetta senza uscire. Da solo. Entrava solo Nannìne per portargli da mangiare e aiutarlo a fare i suoi bisogni. Eggidie fu mandato a dormire dai Cosimato in Via Pio XI. Finché un giovane medico appena laureato, figlio della vicina signora Buonomo, s’accorse che quella diagnosi era sbagliata e lo liberò dalla prigionia. 

E, infine a dodici anni, all’inizio della seconda media l’infortunio sul Lungomare.

Quella volta finisti al Pronto soccorso degli  Ospedali Riuniti,  su un’auto strombettante che ti aveva raccolto. Risvegliato tra le braccia  di un vigile. E poi su una  brandina.  E  Mineche  che arrivò di corsa lasciando il magazzino di Salentino.  Un colpo  al cranio e un colpo  alla caviglia. Tutto dalla parte destra. Travolto da una Topolino, per fortuna. A lungomare. Bella giornata.  Bel sole. Accecante. Una certa stanchezza. Eravate appena usciti dalla sala buia del cinema Augusteo. Un film ambientato in India. Parlava di  Kim.  Ti aveva impressionato la scena dei macigni bianchi che rotolavano giù da una montagna  Addosso a chi? E tu attraversavi la strada con altri compagni di classe.

Lo ricoverarono per  due fratture per fortuna non gravi alla testa e al  malleolo. E dovette stare per una quindicina di giorni in un camerone con adulti.  Nel letto accanto al suo un anziano contadino gli mostrò il polpaccio squarciato da un colpo di falce che stentava a guarire.  E un giovane in un letto  più lontano  di notte si lamentava per il dolore gridando: Mamma mie, Maronna mie!

[Quando fu che Chiero spalancò una sua rappresentazione  teatrale di queste sue angosciose esperienze infantili? Quando anni dopo scrisse: «T’inseguo, madre. M’impongo in disparte di sognare il tuo sogno. Ma in assenza di te si scuote fragile il mio corpo sgorbietto – orlandino furioso». Sgorbietto si sentiva. Troppo magro, nervuse, scazzaregliuse.  E, dai, pure orlandino furioso.  Nomignolo che una volta Mìneche gli appioppiò per scherzo al posto di una sberla. Coglieva qualche stramberia nel figlio? E strambo non era stato anche lui da ragazzo? Scrisse e insistette sulle paure che Nannìne gli aveva passate: « – e l’animella mi si smaga per tornare in cieca corsa verso casa da te.». Ah, quella sera, che con Eggidie e Rosario erano tornati tardi  dalla parrocchia! S’era fatto già buio. Correvano più che potevano, Impauriti. Perciò, correvano più forte. «Sprofondo. Annullarmi, diventare buio mi sento come la sera, morire la morte buia e non più, sotto il tuo sguardo, attraversarla leggero e intatto in mezzo all’urlo feroce dei passanti». All’anima! Quando era solo, fuori o in casa, Chiero – ma anche Eggidie, anche Rosario – aveva terrore del buio. E, sì,  della morte. E la tentazione era di sfidarla. Come potessero ucciderla correndo. Chiero correva verso casa. Avrebbe riabbracciato Nannìne. E così non avrebbe più avuto paura. Né dei morsi dei cani liberi sulla strada. Né dei passanti che parevano – fantasmi minacciosi e occhi feroci – fissarlo dal buio.]

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Versione dei brani in dialetto

 

Tu hai sofferto parecchio. L’occhio sinistro a volte si storceva tutto. E io dicevo a Nannìne: Portalo da uno specialista, fagli controllare gli occhi! Tuo padre, invece, pensava che io esageravo. Non voleva sborsare soldi. Era stato sempre così. E poi non voleva andare dai medici. Era una fissazione. A io [quel che pensavo] glielo dicevo sempre in faccia: Tu non eri uomo adatto al matrimonio! Col mestiere [di carabiniere] che hai fatto non sai come trattare i bambini. Che u possa stare in salute, ma credi che sono anche loro carabinieri? Tu sei stato il figlio che [dei modi autoritari di ìneche] più hai subio le conseguenze. Lui non lo capiva. E, appena accadeva qualcosa [d’irregolare], s’infuriava e subio diceva: Eccolo qua! Eccolo! Non era ai contento. E, secondo me, era troppo rozzo. Una moglie come Nannìne non se la meritava. Quella era una ricamatrice. Faceva la biancheria da letto ricamata per gli sposi che andava nelle Americhe. La famiglia di tua mamma non era di origini contadine.

 

Aveva la diarrea! Un’altra volta! Come quando era piccolo ed erano da poco arrivati da Casalbarone nella nuova casa di Via Sichelgaita. E, una volta, mentre tornavano salendo tranquilli per quella strada – lui, Mìneche e Eggidie – aveva sentito questo dolore nella pancia. Sentiva che doveva scaricarsi. E subito. A non poteva farlo in mezzo alla strada. E allora si era messo a correre. Per arrivare più presto a casa, salendo i gradini delle scale a due a due. Per bussare [alla porta di casa], chiamando Nannìne. Par farsi aprire presto la porta. Perché non ce la faceva più.

 

Note

[1] Cfr. Narratorio 8 qui
[2] Cfr.  un accenno per ora in Narratorio 2 qui
[3] Togliere il malocchio. Credenza popolare. Cfr. qui  e qui

 

1 pensiero su “Ra e mane e zi Luigia ae mane re mierece

  1. SINTONIE/ PAUL AUSTER/MONTAIGNE

    “Chi parla, il Narratore, fa, infatti, del proprio vivere un campo di attenzione privilegiato, di vero e proprio recupero del sé, attraverso la letteratura:
    ‘Fra tutti gli scrittori che avevo letto, quello da cui traevo maggiore ispirazione era Montaigne. Come lui, cercavo anch’io di servirmi dell’esperienza fatta come base di ciò che scrivevo”

    (Dalla pagina Fb di Angela Scarparo: https://www.facebook.com/angela.scarparo/posts/pfbid02Zi7SJBjMELQjrdYsWMzrABLuTM5XQk4P7hcMhgJdLqiGzR9GYvk8qKbArQ8tuKBMl

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