Intervista di Ennio Abate a Giancarlo Majorino (2006)
Alla rilettura d’oggi (2024) due cose colpiscono: – l’affermazione amarissima di Giancarlo Majorino: «il comunismo dovunque arretrato /non il terrorismo!» (p.75); la sua speranza (ancora blochiana) che “la torcia”, esprimente una distruttività crescente (essendo, allegoricamente, una torcia, può tuttavia tanto disgregare e annientare, quanto rischiarare). [E. A.]
Perché questo titolo ambiguo, che fa pensare sia a una “profezia” sia – come si dice nel risvolto di copertina – ad un anticipo del [tuo] poema? [1]
Il titolo nasce dall’idea stessa del libro e ha ormai parecchi anni. Avendo il poema, iniziato nel 1969, una trama probabilmente (uso dubitativi, perché vi si intrecciano parecchi andamenti) incentrata sulla combinazione o addirittura compenetrazione tra elementi del vissuto e fattori di comunanza storicoesistenziale “chiamati da un modostile variato per generi e tipi di restituzioni/invenzioni, il problema era quello di non attendere l’uscita del poema (aprile 2008) per poter raccogliere e pubblicare scritture, perlopiù di versi, inerenti a questi ultimi anni, soprattutto al presente – futuro (un uso, tra l’altro frequentissimo in altri ambiti, un film, una manifestazione ecc.).
I “molti” con un faccione schematico e mesto replicato serialmente si affacciano sulla co pertina di Prossimamente. L’hai scelta tu? Vi attribuisci un significato particolare?
La copertina è la seconda che mi è stata proposta. La prima, suggestiva, era la riproduzione di un noto pittore, ma si riferiva alla piazza del Duomo. Sentendomi un po’ stretto nella sottolineatura mi lanese (e così, se lombarda, ecc.), ho chiesto una copertina richiamante crucialmente la molteplicità, il gremito che abitiamo. Hanno trovato questa, che mi pare assai pertinente. E non mi sembrano del tutto “mesti” … o forse sì, non so.
Ho individuato questi temi dagli stralci: una matriarca (p. 18), un duello verbale fra un dirigente e un lavoratore (p. 20); la figura di un Reduce del fascismo (p. 25); una corsa in auto verso l’Olimpico assieme a un politico (p. 27); il ritratto dell’amico Viviano (p. 29); un coito di gruppo di immigrati in Germania (p. 30); la figura dell’«eroe scrivente» (p. 36); il sogno di un tentato suicidio (p. 39); la figura del padrone vampiro (p. 41); una scena di lavoro di fabbrica (p. 44); scontri di piazza (p. 46); un salotto di ricchi (p. 47); folla nella metropolitana (p. 56); l’evocazione delle Casalinghe Chiacchieranti (p. 62); il quotidiano da boom economico (p. 66); il racconto di un’assemblea studentesca (p. 71); un’evocazione del tempo imperiale (il «bel tempo statunitense»)(p. 74); un’evocazione della figura del Critico e, per contrasto, della giovane donna (p. 76); flash di una corriera che fa il percorso Milano-Crema (p. 92); figure umane della metropoli (p. 98); sogno di smarrimento (p. 105); stralci autobiografici (p. 106); frammenti di vissuto metropolitano (p. 109); la figura di una giovane donna, Costanza e del Proff (p. 116); considerazioni su Costanza e il proff (p. 119); scena erotica animalesca (p. 120); una serie di frammenti che fissano un’analogia tra la corsa di una corriera e lo scorrere della scrittura del poema (p. 123); considerazioni sulla mattina (p. 127); im magini di maschi aggressivi e viriloidi (p. 130); una coppia di giovani violentata da «due Vecchioni» (p. 140). Sono temi del periodo che va dal dopoguerra ad oggi e spesso hanno fondamento autobiografico. Hanno un ordine? O hanno un “disordine” voluto e significativo? Se sì, di cosa? Che funzione svolgono nel libro le parti non in corsivo che, come dici, «hanno una datazione più ristretta, dal 1990 circa»? Di cornice, di riflessione metanarrativa? Ci saranno anche nel poema?
Circa i quesiti che enumeri, una prima chiarificazione generale penso possa emergere dalla strutturazione in parti e zone intitolate; le parti, due: “premeva dire dove siamo” e “musica felice di parlare”. La prima è una sorta di fenomenologia del presente, seppur con qualche flashback (sottintende la necessità, non solo per un poeta, di mai celare la propria presenza, il suo co-esserci, neppure all’interno di testi tendenzialmente “oggettivi”). Si divide in tre zone: “la torcia”, esprimente una distruttività crescente (essendo, allegoricamente, una torcia, può tuttavia tanto disgregare e annientare, quanto rischiarare); “la forbice” (tra chi ha, quindi è, e chi non ha, e quindi non è), altra allegoria, che dovrebbe nitidamente stagliarsi, si apre con una poesia-chiave, che mi è costata parecchia fatica perché volevo dicesse, nell’inevitabile ambiguità e polivalenze tipiche dei versi ciò che sentivo necessario, il rapporto tra il continuo incremento delle distruzioni in ogni ambito e la causa principale, economicosociale, di ciò, un insieme per me abbastanza chiaro. La novità (che è però mia da sempre) è la terza zona, non a caso denominata “elementi affabili”, elencante la situazione tutto sommato decente o addirittura fortunata di chi abiti e scriva e pensi ed eventualmente agisca in un paese a medioalto livello di sviluppo come l’Italia. Questa parte mi sembra poter ambire a un’espressione profonda e non ingannevole del tempo che stiamo vivendo/patendo. La seconda parte (che pure dovrebbe essere analizzata nella sua suddivisione in tre zone) ha più direttamente a che fare con il poema, la sua scrittura, le ipotetiche relazioni con lo stato della cultura, dell’estetica, dalla letteratura (italiana, in particolare). Circa la domanda successiva che poni: penso che la compresenza di pezzi o momenti in corsivo e non si riferisca semplicemente alla loro differente genesi, i primi appartengono al poema e sono perlopiù precedenti al 1990 circa; le seconde sono di data successiva (può darsi che ciò apra ulteriori problemi o potenziali aperture – per ora, non li avverto, pur se proprio la compiutezza del poema in corso deve misurarsi a fondo anche con ciò). Come ti dicevo penso utile l’appropriazione di questi dati di struttura e di metodo (ne dovrebbe uscire, mi auguro, quasi un facsimile dialettico tra presente-passato e presente-futuro … ma, come è detto in Prossimamente, «l’opera grande ha più muse e più scale»).
Perché proprio il ’69 è anno ”periodizzante”?
Vi sono ragioni e irragioni. Di certo, una crisi profonda, parzialmente riflessa in una raccolta stesa in undici anni, “Provvisorio”. Una crisi dovuta essenzialmente ad una prolungata disgrazia familiare; insieme, a mutamenti di ordine generale, dai moti del ‘68, e dal riflusso di essi, all’improvviso caricarsi di complicatorietà e di gremito del mondo: da ciò, e da non so che altro, una trasformazione della scrittura, sempre più abbandonante la linearità e la maggiore comunicatività stilistiche precedenti. Così, una sera di fine ‘69, si è avviato il poema.
Che differenza vedi tra le tue precedenti raccolte e il poema?
A me pare di scorgere un forte allegorismo dantesco nelle figure emblema come la Torcia e la Forbice. Non so dire quanto esso fosse presente prima. Mi pare un’osservazione esatta. La presenza di figure emblematiche specificatamente nasce qui e tornerà, con più forza, nel poema. Tra le motivazioni, emerge quella di avvalersi di soccorsi, di varia anche illustre provenienza (Dante è da sempre, ma in quest’ultima impresa ancor più accanitamente, la Guida; ma il registro delle apparizioni è ampio).
È anche più esplicitamente indicato il lavoro della memoria che rimugina cose passate. In queste parti la sintassi è meno frantumata e ci sono andamenti più narrativi (pp. 91, 93) e riflessivi (es. sogno di p. 83). Ci sono anche brani di autoanalisi dell’attività dello scrittore (p. 85) o della propria immagine (p. 90), descrizioni del vissuto quotidiano (p. 103) ed espansioni liriche attorno alla figura di Enrica [2] (pp. 114, 138). Che tipo di memoria è la tua? Proustiana e involontaria?
Entrambi i tipi – naturalmente, l’involontaria non è predisponibile.
Prossimamente m’impressiona per l’accento fortissimo posto sulla scrittura e un Poliscritture/Letture d’autore Pag. «eroe scrivente», che sembra andare a testa bassa contro un’arroganza massmediale svalutatrice della scrittura e alla quale parrebbe imporre una funzione marginale (Ferroni e altri hanno parlato di letteratura «postuma»). In che senso lo «scrivente» può essere considerato davvero un «eroe»? Nel contesto così minaccioso della globalizzazione è fondato il compito così importante che attribuisci alla scrittura?
Credo che la scrittura utilizzante a fondo tutte le risorse del linguaggio intensifichi, possa addirittura dare forma all’ignoto (mai cedendo alle possibilità del richiestissimo dar forma condivisibile all’ignoto-del noto, favorito da chi punti alla vendita, al successo ecc.); la parola “eroe” piace poco anche a me e non corrisponde – altrettanto la parola “postumo”: siamo singoli di molti tra singoli di molti nell’unica vita e i còmpiti degni sono ancora parecchi: l’artista non può che dare il massimo di sé anche agli altri.
Perché i pezzi iniziano (tranne che alle pp. 20, 41, 62, 71, 77, 83, 85, 93, 96, 103, 106,) senza l’iniziale maiuscola?
Sono sempre attratto dal sentire l’insieme: le minuscole in apertura danno più l’idea di un continuo, appunto.
Perché «versi, righe, rigaversi» sono accorpati stroficamente in modi estremamente variegati o perlopiù sono allineati a sinistra, mentre altre volte rientrano di poco o di molto e altre volte contengono al loro interno degli spazi “supplementari” o “in più”? Quale il senso di tante audaci e ricercate scelte lessicali?
È, ancora, il ricavo dalla pienezza posseduta delle potenzialità linguistiche (e retoriche; e semiotiche – non dimenticare che da più di vent’anni insegno, e quindi ristudio, tali materie).
Ti devo confessare le mie difficoltà nella decifrazione dei significati. E quando dici che il cuore emblematico di queste pagine è il «presente» e dici pure che questo presente non è più leggibile se non per frammenti e va letto solo in questo modo, ho un’obiezione: puoi chiamare ‘poema’ quello che hai prodotto in questi decenni? Possono ancora essere indicati come ‘canti’ questi raggruppamenti di «versi, righe, rigaversi»? Non è il ‘poema’ una forma irrimediabilmente legata ad una “realtà” più unitaria o almeno meno frammentata di questa presente?
Circa il problema – che torna – dei significati, mi pare tu abbia già risposto eccellentemente nella seconda parte di questa stessa domanda, semmai rinforzabile con quanto detto all’inizio del nostro dialogare (accetterei persino il termine “nostalgia”, per me non puramente rivolto al passato; aggiungerei, piuttosto, che la frammentarietà presente nel prossimamente è nei nove libri poematici non abolita ma certo perlomeno temperata dai “tempi lunghi” dell’opera. Vi è anche da tener presente che nel poema agiscono più di quaranta personaggi con le loro vicende, inevitabilmente portatori di continuità, aderenze molteplici al vissuto eccetera).
Nella seconda di copertina si parla di un «continuum» e tu pure a p. 145 rifiuti di parlare di «Chiusura», perché «qui niente si chiude, niente termina». In effetti molte cose si sono chiuse nel Novecento. Tu stesso scrivi «il comunismo dovunque arretrato /non il terrorismo!» (p.75). E se chi opprimeva opprime ancora di più, non c’è da preoccuparsi per questo «continuum»?
Guai a chi non si preoccupa! Può darsi che la scrittura-me, da sempre innervata anche da tale preoccupazione, ancor più profondamente lo sia nel sistema che chiamo “poema” …
Nota 1 [E.A.]. Questa intervista, molto più ampia e colloquiale, è qui resa pubblica in forma abbreviata. Ne escono ridimensionate forse dialogicità e divagazioni a volte illuminanti, ma averle sacrificate non dispiace. In attesa di tempi più distesi, la concentrazione (non la fretta) è compito urgente e pienamente accettabile da chi oggi non scrive per gioco.
Nota 2 del 14.10. 2006 [G.M.]. Caro Ennio, ti ringrazio intanto per il lavoro puntuale che hai compiuto (getta luce – e “buio” – anche proprio per me, che sono più o meno al termine dell’impresa poematica, 8/9 mesi circa, poi la consegna del tutto perché dovrebbe uscire nell’aprile 2008). Pure l’idea di un dialogare interpretativo è interessante e adottabile. Dopo gli elogi, una riserva: scindi troppo drasticamente contenuti e forme, con propensione netta per i primi, così isolati. Rischi, così, di amputare l’integrità e la complessità del valore estetico. Un saluto. Giancarlo.
* Questa intervista fu pubblicata sul n. 2 cartaceo di POLISCRITTURE febbraio 2007
Note 2024
[1] Si tratta del poema Viaggio nella presenza del tempo. Ne scrissi ampiamente il 18 novembre 2009 (qui)
[2] E’ Enrica Vilain, compagna e moglie di Giancarlo Majorino.