Città greche dell’Asia Minore

di Eugenio Grandinetti

“Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco / verso il paese dov’è silenzio e gioia. / Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere / le mie spoglie mortali per il viaggio” scriveva nel 1924 Sergej Esenin in versi che mi tornano sempre in mente ogni volta che penso agli amici che se ne sono andati. Eugenio Grandinetti è uno di questi. Sto cercando di seguire la vicenda della prevista, ma purtroppo ritardata, pubblicazione di un’antologia delle sue poesie a cura di Luciano Aguzzi. Ho saputo che il 23 aprile scorso al Cenacolo Sant’Eustorgio di Milano sono state lette sue poesie per ricordarlo. E, grazie al paziente lavoro di Rosa De Meo, dispongo ora della trascrizione di alcuni testi manoscritti (per lo più bozze di poesie già edite) recuperati da Anna Maria, la sorella di Eugenio. Più avanti ne pubblicherò qualcuno. Oggi voglio ricordarne la figura ai lettori di Poliscritture con questa sua ampia poesia tutta immersa nel sogno di un’antica civiltà sepolta. [E. A.]

Queste città che un tempo erano 
			vive
di rumori e di voci
e di mercanti audaci
giunti su barche fragili da mari
lontani,
portando merci e doni di parole,
sogni d'acqua, riverberi fugaci,
luci d'albe tra fitti labirinti
d'isole e sole 
e silenzi di notti e canti arcani
appena emersi tra gli scogli e l'ombra
umida della sera

e mani agili traevano dai cesti
lini e broccati e brocche e balsamari,
fermagli d'ora penduli, conchiglie

	iridescenti ed ambre e filigrane;
	e già partiva il banditore a scuotere
	giorni impigriti, e la piazza
	s'affollava di nuovi sguardi.

E cavalli di spuma si sfrenavano
oltre il chino orizzonte, percuotevano
con code di delfino ampie le onde
inquiete, portavano oceanine
dagli occhi ambrati. Passavano fugaci.
Sorgevano dal mare all'improvviso
isole e abbagli. Il cielo si scioglieva
come resina al fuoco. Rimanevano
per poco agli occhi
immagini fuggevoli
come cerchi sull'acqua, ma restava
più fermo il desiderio di volare
come gabbiani in cima al vento,
			a cogliere
con gli occhi fissi i sogni evanescenti
di un passaggio fugace, o forse
			i sogni
mani s'avvicinavano, toccavano
con gesti cauti i lini, accarezzavano
    le sete,
   occhi sfioravano abbagliati gli ori
   rilucenti.
   Le voci s'infittivano,
   erano già marea che sommergeva
   le parole.
   Da dietro i muri si sporgevano occhi
			inquieti. Chiedevano.
Ritornava memoria di burrasche:
mari che s'impennavano, sbattevano
la nave da onda a onda;
il cielo cupo impallidiva i volti;
le speranze restavano sospese
come vele malferme, vacillavano
al vento.
Ritornava memoria di bonacce:
quando nel mare immobile la meta
si ritraeva,
e la vela era ferma e l'acqua putrida
nelle anfore.

Ma gli occhi di quei ragazzi erano fervidi
come acqua di sorgente, non avevano
	più sguardi, s'incantavano
	nell'aria come allodole.

			Dal mare
giungeva un volo di ali bianche.
			  Un'isola
si svolgeva dai flutti avvolti ed era
verde d'acqua sorgiva.
			Sulla riva
alberi ripetevano sommessi
al vento lo sciaquio delle onde.
			Un canto
si levava dal mare
sottile come un filo ed intesseva
nell'aria trame tremula.
			Chiamavano
dee marine, garrule
fanciulle dai mille desideri.
Gli sguardi si tendevano, le mani
vibravano come ali verso il mare.

Ma ora il mare è memoria su cui passano
come ombre triremi esili. Si levano
oceanine dagli occhi di cristallo
sguardi d'iride si perdono nell'aria.
E nell'aria rappresi ancora restano
come nuvole sparse i desideri
dei giorni che non ebbero stupori, dei bagliori
presto spenti, degli accadimenti
sognati che non furono, ma che tornano
ora da queste mura disbrecciate, effimeri,
e da questo silenzio.

E il silenzio ha una voce, arcana,
un canto che sgomenta. Sono solo
pietrificato tra le rocce e i ruderi
che ogni giorno si sformano, si sgretolano
al sole inesorabile, che restano
incomposte macerie a caso sparse
per un pendio di pietre che vacillano
sotto i passi, di erbe riarse
che scricchiolano, di sterpi
secchi che si spezzano.
E i giorni che mi lasciano non hanno
più parole che restino, si perdono
come polvere.

Da “La liturgia del dolore” – Il dolore del non ritorno

* Questa poesia è ripresa dalla rivista INOLTRE n. 3 inverno 2000

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