di Alessandra Pavani
C’era una volta una bambina che sembrava una piccola donna. O forse era una piccola donna che sembrava una bambina. L’età non è importante per chi vive fuori del tempo, e lei ci viveva davvero fuori del tempo, in un mondo separato, di sua creazione. Indubbiamente però era giovane, perché della giovinezza aveva il candore, l’ingenuità, e soprattutto quella meravigliosa capacità di illudersi. La vita per lei era un bellissimo sogno, come quel pomeriggio in cui aveva sentito qualcuno piangere in sala da pranzo, e poi aveva visto uscire dalla credenza un incantevole e morbido coniglio col pelo azzurro e gli occhi viola. Non aveva avuto alcuna paura nel trovarselo di fronte così all’improvviso, anzi era stato come aprire finalmente un regalo di Natale a lungo atteso. Naturalmente il coniglio era stato solo l’inizio, il compagno immaginario dei suoi primi anni di vita. Raggomitolato nel cervello di lei, chiedeva e donava tenerezza e calore, e lei si addormentava abbracciata a questa fantasia per ritrovarla immutata nei suoi sogni di bimba. Quando all’asilo gli altri bambini ridevano di lei e la escludevano dai loro divertimenti, lei si rintanava dentro di sé con il suo tenero amico dagli occhi viola, e insieme cantavano le canzoncine che solo loro conoscevano. Era felice, non le importava che gli altri le facessero le smorfie o le dicessero che era matta perché parlava da sola. Lei non era mai da sola, come facevano a non accorgersene? Forse erano loro i veri matti.
“Ha un’immaginazione così fervida!”, dicevano i grandi.
Se il coniglio fu il primo, non rimase a lungo l’unico. Pian piano, incespicando più volte per poi rialzarsi con sempre maggior consapevolezza, attraverso una luminescente foresta fatta di segni la bambina imparò a leggere. Nel sottobosco presero allora vita curiose creature, come se si risvegliassero da un letargo millenario. Le si presentarono così, nella loro antica nudità, e lei diede loro una dorata concretezza. Le accolse nella sua mente, chiamandole con i nuovi nomi che lei stessa aveva inventato, e loro risposero. C’era il gatto dell’arcobaleno, che quando pioveva con il sole parlava con voce umana. C’era la piccola strega, che preparava pozioni magiche, e quando la bambina era ammalata le faceva passare la febbre col tocco delle sue mani fresche. C’era l’angelo biondo rinchiuso in un cofanetto d’argento, che la faceva scivolare in un sonno sereno suonando per lei la sua ipnotica ninnananna. La bambina era perennemente circondata dal caldo abbraccio delle sue fantasie. Dio, com’era felice! Nel vento che scuoteva la noia degli altri, lei sentiva ridere le creature che popolavano l’invisibile. Al momento di coricarsi, così come al momento di alzarsi, c’era sempre un frullo d’ali a sfiorare il suo cuscino. Ali che erano pagine, le pagine che lei leggeva e le pagine che lei scriveva. Perché il suo potere di sognare non conosceva confini, se non quelli della sua innocenza.
La compagnia degli altri non le dispiaceva, ma personalmente non faceva nulla per ricercarla. Se la invitavano, partecipava volentieri ai giochi di gruppo, andava alle feste di compleanno, si divertiva anche; la gioia, però, la vera gioia era tutta un’altra cosa. Era il girotondo dei dischi nelle calde sere estive, quando lei si smarriva tra le radure delle pietre rotolanti e dei coleotteri d’argento, erano i lunghi pomeriggi invernali in cui, passando davanti alla scuola di musica, le sembrava di sentir tintinnare i campanellini di una slitta. Anche le cose che una volta le facevano più paura avevano finito per esserle amiche. Il buio non la paralizzava più come prima da quando aveva imparato a comprenderne il linguaggio; ora sapeva che la sua voce era morbida come una coperta in cui avvolgersi ogni volta che si cercava un po’ di riposo. Il tuono era spaventoso, certo, ma era perché gli spiriti alati della fantasia volavano così in alto da squarciare il cielo; e gli insetti, apparentemente tanto orripilanti, bastava osservarli con attenzione per accorgersi che non erano altro che fate ed elfi. Si illudeva, naturalmente; ma d’altra parte che cos’è la felicità, se non ciò che sta tra un’illusione e una delusione?
Intanto gli anni passavano (ma passavano davvero?), e lei non si decideva a crescere. Presto sulle facce di chi una volta si burlava bonariamente di lei e della sua feconda immaginazione cominciarono ad apparire espressioni preoccupate. Qualcuno si domandò se non fosse il caso di allarmarsi e di chiedere aiuto a chi di dovere. Qualcun altro suggerì che le si facesse passare più tempo con ragazzi della sua età. Parole prese in prestito dai più aggiornati manuali di psicologia si intrecciarono altisonanti sopra il mistero di quella continua e immotivata gioia. Perché, diamine, non era normale essere sempre felici, e in fondo non era nemmeno giusto.
“Ha troppa immaginazione!”, dicevano i grandi.
Finché, un giorno, arrivò il Principe, e fu l’inizio della fine. Apparve sull’enorme schermo d’argento di un cinema dove la bambina entrava per la prima volta, e lì, come una cometa, sfolgorò sublime fino alla sua poltrona, imprimendole a fuoco negli occhi l’immagine della sua assoluta bellezza. Non ci fu quasi il tempo per lui di battere le ciglia, di far balenare verso la cinepresa un illusorio sorriso d’attore, che già lei lo aveva riconosciuto come suo sposo. Fu una rivelazione. Nello spazio di un solo istante la bambina scoprì che cos’era l’amore, e nella sua intatta ingenuità credette che una tale delizia dovesse necessariamente essere reciproca. Incapace com’era di distinguere la fantasia dalla realtà, e totalmente dimentica delle centinaia di persone sedute come lei nella sala, non ebbe dubbi che lui fosse lì solo per lei; e poiché lei lo amava, allo stesso modo doveva amarla lui. Non era forse a lei che aveva sorriso? Fu così che cominciò la sua ultima e più dolce illusione.
Arrivarono giorni di pura magia. Era ovunque, era sempre, era tutto. Nulla poteva essere immaginato di più perfetto, di più completo. Andava al di là dell’orizzonte, oltre l’infinito. Era una gioia che si faceva vertigine. Non rimaneva più niente da desiderare. La bambina smise di mangiare, di dormire. Con lo sguardo fisso sulla fotografia che ammiccava dal comodino, vegliava in estatica immobilità come rapita da un’aurora boreale senza fine. Non parlava nemmeno più. Per lei ormai esisteva solo il Principe. Che era Principe degli elfi, delle fate, degli angeli che suonavano nei carillon, era Principe della luna e delle stelle cadenti, era Principe delle minuscole creature che avevano dimora nelle gocce di pioggia, degli animaletti nascosti tra i rami degli alberi e di tutti gli spiriti che vivevano nell’aria, nell’acqua, nella terra e nel fuoco. Ogni precedente fantasticheria della bambina, ogni precedente concezione del suo cervello trovava in lui origine e compimento. La bellezza di quella figura maschile poneva il proprio sigillo su ogni suo delirio. Beato candore, quale godimento traeva dall’inganno che tendeva a se stessa! Contemplava e adorava il suo Principe con una fede che rasentava l’idolatria, e credendosi ricambiata si nutriva soltanto del suo miraggio d’amore. Si era immersa così a fondo nel sonno della ragione da dimenticarsi di vivere. Era inevitabile che, presto o tardi, tutto questo giungesse alla fine.
“Ha un’immaginazione completamente malata!”, dicevano i grandi.
E, nel vederla arrivata a tanto, stabilirono allora che il limite era ormai superato. Per dolorosa che fosse, la verità andava finalmente detta alla bambina. Era giusto così. Non si poteva rimanere giovani in eterno. Avevano aspettato, confidando nel tempo, che lei maturasse e che abbandonasse da sola quelle sciocchezze, ma inutilmente. Niente era riuscito a intaccare la sua luminosa innocenza; anche di fronte alla più squallida realtà, lei era sempre altrove. E dove, poi? All’interno della sua testa matta. Bisognava farla uscire di lì.
Non erano cattivi. Erano animati dalle migliori intenzioni. Nessuno di loro, però, si fermò per un istante a chiedersi di chi era la colpa (se colpa c’era), nessuno si domandò perché quella bambina avesse sempre vissuto nel suo mondo di fantasia. Forse erano persone che trovavano la realtà così meravigliosa da non aver bisogno di fantasticare; forse la vita li impegnava a tal punto da non lasciargliene nemmeno il tempo. O forse, chissà, in un giorno lontano avevano anche loro sognato come lei, avevano congetturato, avevano creduto, per poi vedere a poco a poco ogni illusione cozzare, incrinarsi e infine frantumarsi contro il muro della realtà, e in fondo all’animo covavano un inconfessato rancore verso chi nella propria ignoranza poteva ancora gioire. Nessuno di loro probabilmente sapeva perché si accingeva a infrangere i sogni della bambina; ognuno aveva però la stessa ferma convinzione: che la verità va sempre detta a chi ci è caro.
La bambina ascoltò immobile le loro parole, seduta sul suo letto, con gli occhi spalancati e inutilmente supplicanti, e li chiuse soltanto quando anche l’ultima voce ebbe finito di dire quello che doveva dire. Allora si portò le mani al volto, e le venne il capogiro. Le sembrò di impazzire, sentì che il cuore le si schiantava. Il Principe, il gatto, la strega, ogni essere cui lei aveva dato vita morì all’istante. Anche il coniglio dal pelo azzurro e dagli occhi viola si accasciò di colpo, stroncato dalla realtà. Tutti vennero inghiottiti dal nulla. E dal carillon che una volta racchiudeva un angelo biondo uscì un ultimo flebile suono, un ultimo sospiro che sfociava nel pianto.
Lei no però, lei non pianse. Rimase così, in silenzio, con gli occhi chiusi, fissi nelle tenebre sulle rovine del suo mondo. Poi improvvisamente li riaprì, e lì, davanti a coloro che le avevano detto la verità, il suo sguardo si incupì e si abbassò, le palpebre si fecero cadenti, le guance si incavarono; come sotto un peso intollerabile la sua schiena si incurvò, deformandosi; i capelli le si diradarono, diventarono bianchi; tutto il suo corpo si raggrinzì, sbiadì ogni sua tinta. Perfino la sua voce non fu più la stessa quando disse:
“Ecco, finalmente sono cresciuta. Siete soddisfatti, adesso?”
E non visse mai più felice e contenta.
Alessandra Pavani (ladykinski)
(Questo racconto è tratto dalla raccolta “La luna allo specchio” di Alessandra Pavani)