di Marcella Corsi
“Elemosina di persi amori la poesia”)// feci la scelta quella sera, fortunata/ di portar via Camminando un libro in versi/ da subito bello poi stupefatto di verde d’azzurro/ stupefacente e ancora grandemente bello// m’ha rallegrato di buona compagnia/ più d’una giornata: sguardi aperti, sapienti/ corteggiamenti, piogge leggere scrosci luci silenzi/ un’attenzione al dettaglio affettuosa, esperta// una vita in versi risolta e risolutamente/ amorosa, anche le tartarughe forse nella pioggia.
Questo sintetico commento in versi mi si è materializzato subito dopo la lettura di Camminando, raccolta poetica di Francesco Dalessandro (Il Labirinto, Roma 2023). Francesco è autore nel tempo di parecchie pubblicazioni di poesia (I giorni dei santi di ghiaccio, L’osservatorio, Lezioni di respiro, La salvezza, Aprile degli anni, Figure d’ombra, Dediche e imitazioni), editore e traduttore di poeti dal latino, dall’inglese e dallo spagnolo.
Propongo qui alcuni dei testi inclusi in Camminando. La scelta, in parte guidata dai versi di commento, sottolinea la dimensione sensuale e domestica dell’amore, che è una delle cifre della poesia di Francesco Dalessandro, forse quella che più mi colpisce per efficacia narrativa e grazia (nella dimensione del canto d’amore si situa soprattutto Aprile degli anni, puntoacapo, Novi Ligure 2020) .
Entro questa temperie la Poesia sembra costituire interlocutore privilegiato capace di illuminare la vita e conferirle profondità: Chi potrà restituirci,/ Poesia, ancora l’ansia e l’innocenza/ dei cuori adolescenti? [..]non trova/ pietà l’attesa perché sono un po’/ ridicoli ma rari solo i giovani// poeti morti (così si legge, citando con lieve variazione John Berryman, in Pasqua 1995, nella sezione Due Pasque).
Amore e Poesia si parlano, in Camminando, da un’età all’altra della vita, dando luogo talora a illuminazioni fulminanti: Anche l’amore/ tramortito riluce se a ferire/ è tenerezza (in La brace dei giorni, 3, nella sezione Gli anni di cenere).
Altro motivo per me di piacere nella lettura di questi versi il sottofondo di empatica attenzione al contesto naturale e paesaggistico, appiglio per il ricordo, motivo di riflessione capace di dubbio.
Sono forse queste “poesie leggere”, nel modo descritto dai versi che si leggono in quarta di copertina di Dediche e imitazioni (Interno Libri 2021): Ora che la gioventù non è più mia/ ora che non ne sento più il peso/ posso scrivere poesie leggere/ dirne i versi senza vergogna// ora che l’estate se n’è andata/ con la luna e le foglie degli anni/ sono ricami di gelo sul viale/ ora il mio desiderio senza fine// canterà il canto di quegli anni persi. Ma dietro questa ‘leggerezza’ tanta competenza, tanto lavoro di innesto e potatura.
Fin da L’osservatorio d’altronde Francesco Dalessandro confessava: (..) ho bisogno di un verso/ liquido che fluisca naturale/ con forma e suono acconci che narri districando/ il groviglio dei sensi, di un senso/ semplicemente chiaro nemmeno verità/ ma ipotesi del vero, che sia/ ricco senza effusione e scarno senza/ povertà: questo m’è necessario (I, I in L’osservatorio, Caramanica 1998).
Certi poeti, si dirà, scrivono sempre di se stessi. Ma “l’io, compagno insopportabile, insegue e incalza se stesso” (Seneca, citato in postilla dall’autore) e, comprendendo il fondo di se stesso, comprende il fondo di chiunque.
D’altro canto lo sguardo del poeta quasi mai è univoco nella ricerca della verità. “Anche il poeta può essere più personae”. Così spesso “la poesia è invenzione della verità” (sempre dalla postilla).
Il volume, introdotto da una poesia di Alessandro Ricci, accoglie testi scritti e in parte pubblicati nel corso degli anni, camminando “nel rispetto del tempo inattuale della poesia”. In copertina colpisce il Disegno di Roberto Pietrosanti.
Dalla sezione GLI ANNI DI CENERE
UNO SCOGLIO NEL VIVO DEL NAUFRAGIO 10. Non ero io l’amore che vedesti venirti incontro su quel ponte: ne ero la proiezione, il simulacro – l’amore adolescente non concesso alla tua adolescenza. Ero troppo in ritardo. Tu mi amasti in anticipo. Vedevo in te la dea che si offre al pastorello sui declivi dell’Ida: per difetto di cultura e perché la tua eleganza (così Campana, ora lo so) era l’arco teso della bellezza che mi uccise. 11. Se ti penso nel sulfureo pomeriggio di luglio aspettarmi sul ponte la tua immagine è chiara ma non trovo il filo del pensiero che traeva i miei passi ai tuoi occhi, verde sguardo di sgusciante lucertola nascosto dietro lenti da sole. In basso l’acqua trascina come allora verso l’isola schiuma di realtà. Ora che invano cerco una scialuppa di salvataggio, uno scoglio nel vivo del naufragio... 12. Se poi il mondo finisce nei tuoi occhi disperati – lo vedo se mi sporgo sul lago che essi sono – neanche questo potrò dimenticarlo. Non è l’oro del silenzio prezioso ma la voce d’argento che sussurra quando il sonno tarda a venire, come polla d’acqua o pioggia fresca sulle grasse foglie della magnolia in un giorno d’estate.
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Dalla sezione ORE DORATE
DEDICA Quale ora tiene aperta la finestra, versa luce dorata sul giardino fiorito mentre il giorno s’incammina a passi lenti lungo fiume e viali cittadini, la nuova primavera rinverdisce, la vite americana trasuda nuova linfa e la mimosa spinge i suoi rami appesantiti fino ai vetri impolverati? Inizia il nuovo giorno che misura la tua età (e la mia nella tua) come un’isola nella corrente degli anni, nel fulgore del sole, maturando si fa forte ancora dei sogni, lo nutrono gesti intenzioni sguardi, la vertigine del desiderio e quella tenerezza frutto dell’abitudine che sempre sarà il nostro conforto: quel domani che amandoci sperammo, Dora, è l’oggi. TRIUMPHUS CUPIDINIS Più sussurro che voce erano i versi il trionfo di un eros che non conobbe mai resa appagandosi solo se gli occhi voraci si saziavano – complice la luce matura del primo pomeriggio penetrante dalle tende semichiuse nella camera guscio vuoto in cui l’amore si accuccia nei giorni estivi – del tuo corpo bruno di sole acre di sudore e di sale quando stremata «lasciami riposare» pregavi ma convinta e vinta dalle carezze che la lingua ai tuoi golfi umidi e colli prodigava ti piegavi e ti aprivi per accogliermi ardente brace languente cera… ELEGIA DI UNA DOMENICA MATTINA Il mondo tace dietro allori e sbarre del giardino, la notte schiarisce lentamente oltre tenda e persiana, infine mi alzo alla luce di un’alba umida per la pioggia di queste ore antelucane: lo scroscio improvviso m’ha svegliato alle quattro, dal buio ho ascoltato le erinni, l’acquivento sferzava con violenza, s’è abbattuto in giardino ha battuto gli attrezzi gli allori e i vasi vuoti ha spezzato rametti e foglie ha lavato il cemento e il mattonato (e ora i coppi rossi brillano al sole uscito dall’abisso del temporale) sull’erba ha formato un piccolo lago, povere creature, non saranno annegate? m’hai chiesto con un tremito d’ansia e di paura per i membri acquisiti della nostra famiglia: ma no, erano al sicuro chi al riparo degli aghi e delle foglie cadute chi negli angoli fra il muro di cinta e le radici degli allori ognuna insomma per suo naturale istinto ben protetta, sta’ tranquilla, t’ho risposto, le vedo tutte, salve. Lungo il mattino il laghetto pluviale si asciuga si riassorbe, ne rimane solo qualche isolata pozza d’acqua chiara, fresco ristoro per il passero solitario e assetato che v’immerge il becco: quando ignaro m’avvicino alla finestra per guardarlo e scosto la tenda avverte l’ombra nel riflesso del vetro terso come una minaccia, spaventato s’invola e con leggero frullo d’ali raggiunge la mimosa scheletrita ma viva che alla nuova luce punge il turchino o sulla tersa aria che lo sostiene scivolando leggero approda alla grassa magnolia che dal cortile veglia con materna ansia l’aprirsi di finestre e cuori in subbuglio domenica mattina e mentre in me l’ora festiva accende il più carnale dei pensieri il mondo trascorre indifferente oltre gli allori e le sbarre brunite del giardino…
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Dalla sezione CAMMINANDO
SALITA AL GRAN SASSO VIII Dove andremo se, passato un breve tempo e quest’ansia lieve suscitata in noi dall’improvvisa incertezza, indecisi fra il sentiero che sale – che sale sinuoso scosceso (dove porta dove porta?) lungo il fianco accecato di sole sferzato dal forte vento in alto dove il cuore più veloce batterà dove un passo dietro l’altro anelando affannati la vetta non avremo mai riposo e ristoro – e il sentiero conosciuto che discende e ci chiama al ritorno non sapremo quale strada è la nostra? È la nostra sconfitta, perdita amara se avremo rinunciato per stanchezza o paura mancandoci il cuore, o riconquista di un sereno pur se ansioso presente. PRIMO MAGGIO NEL PINETO IV Erano le ore vive della sera, le dolenti e fruttuose ore che presto avrei amate fuggendo la noia di abitudini stanche per due nuovi incanti, uno all’altro legati l’uno dall’altro nato: l’incarnato fresco della ragazza innamorata che prima a pudiche carezze s’aprì poi, complice l’istinto dell’amore, inebriata dal tocco delle dita dal brivido del graffio sulla pelle, alzando il vestito leggero, il pallore lunare mi donò della propria intimità e il calore di versi a quell’amore carnale ma casto a quell’affanno debitori di asprezze e d’incanti. VIII Solo adesso tenendoti per mano e guardando quel monte rinverdire fragrante di profumi ricordo ciò che seppero darmi età e mondo; solo adesso che il sereno trascorrere del tempo e del nostro amore assicura i miei passi e mi guida. (Non essere gelosa di quei lontani e ormai sfioriti profumi poiché nell’imminenza dei cinquant’anni la memoria si fa presbite e spinge a cercarsi nelle nebbie azzurrine dell’infanzia e della prima adolescenza, quando era facile l’amore perché niente pareva minacciarlo, e l’amarsi senza pudore sull’erba di un prato fresco sembrava solo un esaltante dono di sé: tutto il mondo perduto, tutto in deliquio si scioglieva e nella vertigine con le alte sfere del cielo anche la nostra ragione si smarriva, poi tornando nel silenzio turbato delle prime ore notturne si parlava piano: la strada era bianca solitaria e senza lampioni ma la luna era alta e luminosa, i nostri passi leggeri, e scendendo per via Lattanzio con cipiglio di adulti mostravamo alla luce violenta delle insegne la nostra fiorita gioventù. Poi sfiorì con il freddo dell’inverno quel piccolo fiore carnale per sempre, e se sempre da allora ritorna primavera con essa la perduta innocenza non è più tornata, non ritorna gioventù). MIO DÈMONE, POESIA Nell’ultima, fanciulla tanto indocile che più amo quanto più è biasimata, riconobbi il mio dèmone: Poesia. John Keats, Sull’indolenza Pietà pietà mio dèmone, Poesia, non lasciarmi non andartene via non svanire come bruma come brina sull’erba non scioglierti fermati rimani anche domani scaldami perché il gelo è nel cuore della stagione e nel Pineto strina foglie ingiallite e sentimenti ascolta- mi non lasciarmi che non resti solo offuscata mia luce mattutina che non mi soffochi l’angoscia quando stringe il suo nodo tu il fuoco dalle ceneri del dolore ridesta e dammi dammi amore, se devo amare per amore di chi mi ama questa vita tu non abbandonarmi non farti pregare non lasciarmi resta- mi vicina soccorrimi colomba col peccato del giudizio, al sacro vizio della parola da’ fuoco da’ fiato e nel buio dell’anima due stelle accendi oh non deludermi porta- mi ancora pochi versi elemosina di un perso amore amorosa speranza di smarrita felicità
Anche per giustificare il titolo di questa presentazione, riporto qui ancora l’ultima parte della Elegia domestica e amorosa, inclusa nella sezione Ore dorate.
[…] La domenica intanto già s’avvia/ a perdersi col tenero clamore/ dei bambini che escono dal parco/ e adulti stanchi per la prima corsa/ al mare di Fregene. Era salita/ la sua febbrile ansia insieme al fuoco/ del sole lungo l’edera e sui rami/ dei pini escludenti allo sguardo/ l’orizzonte verso cupola e croce/ slanciate nel celeste. Adesso scioglie/ tutte le voci in un silenzio azzurro/ e i suoi colori in un casto brusio/ mentre la sera stende le sue ombre/ sul verde del Pineto, dove trova/ pace anche il falconetto; s’addormenta/ dietro i lauri la nostra famigliola,/ ben riparata, stanca delle lunghe/ scaramucce domestiche, amorose.
Seguo sporadicamente questo blog, dopo aver seguito anni addietro la rivista (e proprio grazie a Francesco Dalessandro, del quale fu pubblicata la poesia “Lettera di Capodanno”, non ricordo più quando): uno dei pochi davvero dediti al valore della poesia. Sono felice che ogni tanto qualcuno si ricordi di Dalessandro che – ho già avuto modo di scrivere – considero uno dei cinque poeti più originali dell’ultimo Novecento (gli altri, per non restare nel generico, sono i milanesi Giancarlo Pontiggia e Umberto Fiori e i romani Alessandro Ricci e Carlo Bordini). Io sono certo di parte, perché amo la poesia di Dalessandro da sempre, ma è difficile trovare un poeta più bravo e meno apprezzato e conosciuto di lui. Altri primati di Dalessandro: è il meno antologizzato, insieme al suo amico Ricci, benché nessuno più di lui, ripeto, lo meriti. La sua poesia è sapiente – come chi sa leggere potrà giudicare anche da questi brevi campioni – e consapevole. Niente nei suoi versi è casuale, niente è più consapevole. E a me basta – per affermarlo – anche solo la sua arditezza nel non nascondere mai il suo “io”, oggi che pare non si possa scrivere poesia se non eliminando la persona del poeta. Perciò invito tutti a leggere questa scelta di Marcella Corsi e poi a procurarsi questo e gli altri libri. Un grazie a Abate per averlo ospitato.
@ Ludovici
Ho vari dubbi sulle classifiche dei “poeti più originali dell’ultimo Novecento” perché trovo confuso e sovraffollato il panorama della poesia italiana contemporanea. E, soprattutto, lo vedo campo di battaglie condotte (come sempre?) per bande e con il fine (disprezzabilesecondo me) di ottenere una dubbia visibilità sui mass media o sui social. Che poco ha a che vedere con una valutazione critica, specie in un momento di grave debolezza anche della critica.
Ha ragione Domenico Ludovici a ringraziare Ennio Abate per aver pubblicato questa concisa presentazione della poesia di Francesco Dalessandro. Ennio infatti concepisce il fare poesia in modo completamente diverso, come può dedursi dal post che immediatamente segue questa comunicazione. Tuttavia è aperto alla diversità e dunque ecco qui un Dalessandro con il suo io e i suoi tu riflessivi, sensuali o dolenti. Di Ennio ricordo le 24 (erano 24?) tesi sul fare poesia nel modo a lui più congeniale.
Sappiamo quanto sia più difficile produrre bei versi d’impegno civile. Ma non è facile nemmeno fare bella poesia d’amore o comunque pronta a non nascondere il proprio io. Forse si potrebbe riprendere il confronto anche sulla poesia in tempo di guerra… giacché siamo in tempo di guerra… oppure sul fare poesia tout court.
@ Marcella
Se questo blog è intitolato Poliscritture, non c’è proprio bisogno di ringraziarmi per aver pubblicato le belle (al di là delle mie riserve personali) poesie di Dalessandro. Sulla possibilità di riprendere il confronto sulla poesia (qualunque cosa intendiamo) oggi resto prudente e scettico. L’abbiamo tentato in passato (su Moltinpoesia e su Poliscritture) ma tutti credo – e non soltanto io – abbiamo dovuto ripiegare in un lavoro solitario. Tuttavia, se ci fossero occasioni per ritentare in modo serio e critico assieme ad altri, non mi tirerei indietro. Mai più, però, nel ruolo di “coordinatore-facchino”.
Hai ragione, Ennio: è Poliscritture, non c’era bisogno di ringraziarti (se non per il lavoro che fai di gestione del blog). E, d’accordo , riflettiamo in solitaria (e possibilmente praticando) sulla poesia (anche se sono passati diversi anni da quando lo tentammo e oggi la guerra è molto più pervasiva e vicina).
Mi dispiace però che questa poesia, quella di Francesco Dalessandro che ho tentato sinteticamente di presentare, non abbia stimolato commenti, a parte la tua attestazione di “bellezza” e lo stentoreo apprezzamento di Domenico Ludovici, così deciso e onnicomprensivo da suscitare forse qualche perplessità.
Non sono un critico letterario, ma davvero pensavo che questi versi avessero la capacità di ‘parlare’ al lettore… forse soprattutto alle lettrici…
@ Marcella
Anche io non mi sento né critico letterario né appassionato di critica letteraria da quando la critica letteraria che riconoscevo come tale (Mengaldo, Fortini, Luperini ed altri) è andata in crisi o si è rifugiata in un lavoro accademico, forse ancora di buona qualità ma, liquidati molti strumenti della precedente, non dice più cose che sentivo o sento essenziali e non mi spinge a studiarmela.
Lo stesso mi accade per la poesia.
Questo dovrebbe spiegare sia il mio sintetico ma non argomentato apprezzamento per le poesie di Dalessando sia il fatto che dai suoi temi e dal suo modo di esprimerli oggi mi sento lontano. Per vecchiaia? Per preoccupazioni sulla situazione politica generale?
certo, Marcella, i versi di Francesco Alessandro raggiungono lettori e lettrici per la loro bellezza ma anche per altro valore, secondo me…Non si puo’ accostarli a quelli che Ennio ci riporta nell’articolo ‘I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza’? Al contrario io penso di si’…Sono sempre stata lettrice, tentando anche qualche esercizio di scrittura, di poesie che sanno denunciare soprusi e ingustizie, in testa quella piu’ crudele, la guerra mossa dagli interessi dei potenti… il senso delle lotta partigiana attraverso le parole, come anche per la poesia, diventa alta, coraggiosa e resistente..B.Brecht, F. Fortini, Ennio Abate…in un impegno storico politico per dare voce a chi non ha voce, le vittime, e scuotere le coscienze…senza dubbio, per me, la più vicina all’umanità dolente del nostro ormai lungo presente…
Ritornando ai versi di Dalessandro, trovo che nel loro armonioso rivolgersi al mondo dei sentimenti personali e amorosi, in molteplici sfumature vitali, estesi ad esseri del mondo naturale in interspecie, si allargano al tema della pace, e alla sua conservazione e difesa. Elemento comune, anche se sottinteso, ai versi di impegno e di lotta radicale contro la guerra …Potrei pensare che le poesie di Dalessandro siano in qualche misura ‘femministe’, quando il personale comprende il politico…Solo un’ interpretazione: scrivere di tartarughe che sopravvivono ad un’alluvione, come di uccelli marini devastati da sversamento in mare di petrolio, introduce anche una sensibilità ecologica…
Noi siamo uno e tanti…una e tante
@ Annamaria
“Non si puo’ accostarli [i versi di Dalessandro]a quelli che Ennio ci riporta nell’articolo ‘I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza’? Al contrario io penso di si’…” (Annamaria)
L’accostamento può anche essere fatto , ma a quali conclusioni giungeremmo?
Finiremmo per dire, come sembri pensare tu, che i versi di Dalessandro, toccando il tema della pace e della sua conservazione e difesa, abbiano elementi in comune, anche se sottintesi, coi versi (miei o di altri) che “vorrebbero” incitare a un impegno e a una lotta radicale contro la guerra?
Ma come non vedere, invece, gli elementi (prevalenti) di attrito? Come non ricordare che quelli di Dalessandro si inseriscono in una tradizione lirica dove sono in primo piano le esigenze dell’io e quelli miei del 2004, che in questo mio tentativo di ripensamento – a ventanni (!) di distanza – che vorrei tentare (a puntate), rileggendomi quella fluviale, ricca ma lacerante discussione che facemmo nel 2016 (https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/, prevaleva il lutto per l’assenza del noi? E che il contrasto, che ci portò allora a dividerci, non si è attenuato o ricomposto ma, per gli eventi che nel frattempo (Covid, guerra in Ucraina, massacri in Palestina) ci hanno travolto e spesso azzittito, si è quasi azzerato e gran parte della ricerca poetica contemporanea, per quel che riesco a seguire, non solo ha visto uno sfacciato e spesso compiaciuto predominio del lirismo più individualistico ma una sua esasperazione narcisistica quasi oscena?
A Marcella Corsi chiedo: perché stentoreo, il mio commento? Se intende che faccio proclami… lungi da me. Se intende che esprimo opinioni sicure… beh, sì. Dico quel che penso. Anche se il mestiere che facevo mi ha abituato ad altro. Ma ora che non lo faccio più mi piace dire le cose come le penso.
Ecco, dunque, che rispondo anche a Abate. Non prima però di averlo ringraziato dell’ospitalità a Dalessandro e a me che polemizzo o esprimo opinioni diverse dalle sue.
Intanto la mia cosiddetta classifica di poeti… In realtà era solo un’opinione, appunto, semplicemente riferita (forse avrei dovuto omettere gli altri nomi?), e non capisco perché sia così disdicevole esprimere o esplicitare le proprie preferenze: solo perché, appunto, si rischia che vengono scambiate per classifiche di merito? Che, se anche lo fossero, lo sarebbero a mio solo uso e consumo, non crede? Ma sappia che neanche a me piacciono le classifiche, perché, comunque – come si dice? – lasciano il tempo che trovano.
Chiuso quest’argomento, mi permetta due parole ancora su Dalessandro e sui poeti d’oggi, partendo dalla sua precisazione sottilmente negativa nascosta tra due parentesi; ovvero le sue riserve. Immagino che esse si riferiscano ai contenuti della sua, di Dalessandro, poesia. Se non ho capito male, immagino che il suo apprezzamento vada alle capacità tecniche del poeta, mentre le sue riserve siano di natura contenutistica. Ovvero: chi parla ancora d’amore? Chi parla più di sé stesso? Io credo che parlare d’amore o parlare dell’esperienza della propria o altrui vita sia da sempre quello che esattamente fanno i poeti e che così esprimono anche il proprio “impegno”. Di questo sono profondamente convinto, perché ognuno deve fare quel che sa. Se non avessimo i “bigliettini d’amore” di Catullo, o le elegie di Properzio, o le odi di Orazio, o le epistole dall’esilio di Ovidio che ne sapremmo noi della vita esperienziale a Roma all’inizio dell’Impero? Anche Baudelaire pensava che gli elegiaci latini fossero superficiali. Però, come sapevano i greci, e Dalessandro stesso ogni tanto ripete (forse per autogiustificarsi?) la profondità si riflette sulla superficie. E, per fortuna, poi Baudelaire si ravvide. Certo e per fortuna c’è anche Lucrezio, ma Lei oggi vede in giro un Lucrezio? Né potrebbe esserci, perché, nel frattempo, la letteratura si è specializzata – se così vogliamo dire. E l’opera-operazione di Lucrezio oggi è forse quella che ci offrono i libri di Rovelli (tanto per fare un nome). Lei mi dirà che il poeta deve impegnarsi su ben altro che sulla propria esperienza, ma io continuo a pensare che è una questione di forma. Io apprezzo le posizioni impegnate che lei manifesta e le condivido, ma perché le sembra necessario farlo in versi? E stia certo che questa non è un’opinione sulla sua poesia – che non conosco abbastanza da poter esprimere un giudizio di merito. Però le poesie che riporta (e che sono di anni fa, o sbaglio? non mi convincono. Ma torno a ripetere: non come impegno ma come forma. E, sa?, credo che sia la forma a creare il contenuto (detto un po’ alla buona). Quanti poeti hanno scritto di guerra? Tanti, lo sappiamo. Pochi hanno fatto opera di vera poesia. Molti sono stati divulgatori. Che è mestiere degnissimo, ma non è quello del poeta. Però lei lo sa, non c’è bisogno che glielo dica io… Un saluto a tutti.
@ Ludovici
“Lei mi dirà che il poeta deve impegnarsi su ben altro che sulla propria esperienza, ma io continuo a pensare che è una questione di forma” (Ludovici)
Rispondo brevemente. No, non dico questo. Né chiedo ai poeti alcunché. Mi sono interrogato fin troppe volte in passato – qui su Poliscritture e su Moltinpoesia – sul tema della forma e del contenuto da lei riproposto. (Solo un link tra i tanti: https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html). E anche su quali siano le ragioni per cui per “propria esperienza” molti poeti intendano solo il loro “privato” (ammesso che sia sempre d’amore e che facciano sempre soltanto quel che “sanno”).
@ Ennio
Succede anche a me una ‘stanchezza’ quasi esasperata nei confronti della critica letteraria. E’ cosa sedimentata. E così ormai, se ci sono prefazioni, le vado a leggere sempre dopo aver letto i testi, e solo per un confronto con quello che autonomamente ho percepito.
Per la poesia non è lo stesso: ne scrivo e ne leggo poca (invecchiando il tempo si restringe, specie per le da-non- molto-nonne) ma quando ne trovo di buona… letteralmente m’aiuta a respirare. E respirare serve, anche per sopportare la preoccupazione per come va il mondo, per cercare di capirlo e magari fare quel pochissimo che ognuno può fare per dargli una direzione meno inaccettabile.
@ Annamaria
Grazie per il tuo intervento. Pensavo proprio a te e a Cristiana, alla vostra sensibilità, quando concludevo “forse soprattutto alle lettrici”.
Il tuo commento ha centrato un punto che condivido: l’attenzione della poesia di Francesco D. alla specificità femminile e alle creature viventi tutte, animali e piante.
Questa sensibilità di taglio ‘ecologista’ (e dunque anche ‘pacifista’) è la stessa che notai in Fortini (non so se Ennio può recuperare qui quel mio intervento)[1] e in Gian Mario Lucini (idem come sopra).
La percezione della specificità femminile, della sua sensibilità, del suo mistero è presente in molti versi di Francesco (forse più altrove rispetto a quelli che ho qui proposto) e comprende un’attenzione senza subalternità. Solo quella trepidezza affascinata che spesso accompagna l’amore.
Forse ricorderai Cuore di preda, l’antologia di scritti contro la violenza sulle donne curata per CFR (l’editrice di Lucini) da Loredana Magazzeni. Pensai allora che sarebbe stato forse utile anche dare rilievo a versi che con l’efficacia della poesia indicassero strade diverse, testimoniando modi opposti nella pratica dei rapporti uomo-donna. Ebbene alcune poesie di Dalessandro meriterebbero, a mio parere, di essere incluse in questa ideale raccolta.
<>Nota di E. A.
L’intelletto delle erbe.
Prove per un approccio ecocritico ai versi di Fortini: “Una obbedienza”
di Marcella Corsi
Si legge nel n. 9 cartaceo di Poliscritture (gennaio 2013) scaricabile gratuitamente qui: https://www.poliscritture.it/la-rivista-in-pdf/
@ Domenico Ludovici
Per me stentoreo è: detto ad alta voce e in piena convinzione (non sono andata a guardare sul vocabolario però, dunque potrei sbagliare). Così mi è sembrata la sua affermazione. Naturalmente dire quello che si pensa mi sembra apprezzabile, forse meno la molta sicurezza. Ma, se non sono indiscreta, che mestiere faceva?
Sulla poesia, sono d’accordo con lei. Ricordo Pagliarani dire a giovani poeti: scrivete di quello che conoscete bene. E sì, anche per me la poesia è soprattutto una questione di forma. Se non riesci, a partire da quello che sai profondamente, a dirlo in modo che riguardi profondamente anche il lettore, che in qualche modo lo colpisca, nella sostanza fallisci come poeta. E magari in versi anche provare a delineare il mondo come lo vorresti… ma è difficile.
Parecchio tempo fa dedicai pochi versi a Ennio Abate e a Paolo Aita (squisito poeta):
ai due lati del segmento della passione
tra cielo e terra piantato)
facciamolo dunque il peccato più grande
chiediamoci
come vorremmo il mondo
Colori e luce (“le ore vive della sera”), l’amore leggero e carnale di Dalessandro è “fuori” da lui, accondiscente al bellissimo mondo naturale che il poeta soprattutto “vede”, e accompagna con immagini interne altrettanto luminose e colorate: “Non è l’oro/del silenzio prezioso ma la voce/d’argento che sussurra”…
Leggerezza preziosa in cui si accordano delicatezza interna (“casta”) con la “vertigine (termine che ritorna)/ con le alte sfere del cielo”.
Sento doveroso intervenire in questo dibattito molto interessante in sé e ancor più perché mi riguarda, se posso dire così. E poi l’ho promesso a Marcella che o visto giovedì alla presentazione di questo mio libro.
Intanto i ringraziamenti. Grazie al caro amico (e mio difensore d’ufficio) Domenico Ludovici, raffinato poeta “erotico” (detto alla maniera latina, ma aggiornata al nostro tempo: chi volesse averne contezza può andare a leggere qualcosa sul mio blog indicato qui sotto).
Grazie a Marcella Corsi che ha scatenato tutto con il suo apprezzamento della mia poesia e con il suo felicissimo commento.
Grazie a Ennio Abate, che mi ha ospitato e grazie di aver sopportato le intemperanze di Ludovici. Ennio, del resto – ma non lo sa -, è il fratello di un mio vecchio collega di lavoro.
Devo poi dire che – essendo tutte le opinioni ragionevoli – accetto ogni lettura della mia poesia. Naturalmente ho le mie idee ed esse somigliano più a quel che pensa Marcella e bella compagnia. Come Ludovici, credo che l’impegno debba essere implicito nella poesia, col che non escludo che possa anche esplicitarsi in forme dirette nel verso. Credo anch’io che sia ben difficile scrivere versi politici che siano anche bei versi. Abate ricorda Fortini, che amo anch’io, ma come poeta, o come “critico” di sé stesso: ricordo certe sue considerazione sul fare versi che ho ben messo a frutto; come ricordo certe sue analisi critiche su poeti che amo (uno su tutti: Tasso; lo ricordavamo giovedì, vero Marcella? “Passa la vita, si dilegua e fugge / come gel che si strugge…”). Amo meno il politologo, o il critico sociale – se si può dire così. Del resto, non era amico di Pasolini? E non discutevano spesso? Ecco… Pasolini è un bel caso, un caso emblematico, del fare buona poesia personale e sociale, ma pessima poesia politica. Qualcuno sarà d’accordo? Non so, ma credo di sì. Chi è che si chiedeva: “ancora poeti in tempo di guerra”? Perché siamo in guerra, più o meno nascosta, più o meno lontana. Anche su questo devo concordare con Ludovici (ne abbiamo parlato spesso davanti a un caffè in piazza Duomo all’Aquila): difficile essere poeti di guerra. Di recente, ho tradotto Isaac Rosemberg (Interno Poesia: solo un pizzico di pubblicità), poeta morto sui campi di battaglia in Francia nella prima guerra: in trincea, per l’appunto, scrisse alcune poesie memorabili. Come lui altri, certo. Ma di massima è difficile scrivere di guerra quando non sta facendo la guerra. E noi siamo in guerra ma non stiamo facendo la guerra. Difficile scrivere poesie d’impegno politico, se non si è dentro a quell’impegno; ma comunque difficile concentrarsi sulla “forma” quando il contenuto pare, o è, più urgente. Ma chi dicesse: “al diavolo la forma” sbaglierebbe profondamente (e in cuor suo – a patto che fosse un poeta – lo saprebbe).
La pianto qui, perché non voglio costringere nessuno, dopo aver letto i miei versi, a leggere anche i miei commenti. Perciò… ancora un grazie a tutti!
@ Dalessandro
“Difficile scrivere poesie d’impegno politico, se non si è dentro a quell’impegno; ma comunque difficile concentrarsi sulla “forma” quando il contenuto pare, o è, più urgente”
Ci sarebbe da capire perché un poeta non é “dentro a quell’impegno” e dentro quale altro impegno sta. O, in altre parole, in cosa consista quel suo altro impegno (impolitico? apolitico? esistenziale?).
Qui dico solo che non c’è uno scrivere poesia da una parte e uno “scrivere poesie d’impegno politico” dall’altra. Come se fosse un’aggiunta, un di più o una cosa che si può fare (e allora la poesia sarebbe “civile”) e si può non fare. Esiste invece una *politicità* che è anche del linguaggio poetico. E che vien fuori sia che si parli di guerra e sia che si parli di fiori o di amore o di nuvole.
Nel link ad una vecchia discussione che ho segnalato a Ludovici c’è un brano dove questo punto è trattato. Lo ricopio:
” Perché mi sento più vicino alla posizione di Fortini? Per varie ragioni: Fortini non si limita a un discorso puramente o esclusivamente estetico su quel complesso “oggetto” che è una poesia o un’opera d’arte; è più attento a indagare l’”impasto” ambiguo di storia, ideologia, immaginario, che forma una poesia; non sottrae al lettore comune (che non sempre è “fesso”, “ingenuo”, “profano”, ma a certe condizioni spontaneamente critico e indagatore curioso) l’interpretazione di un testo per consegnarla ai reali o supposti “specialisti della forma”, dai quali il lettore dovrebbe dipendere; non concede al poeta o all’artista un “lasciapassare”, una sorta non dico di impunità, ma di irresponsabilità etico-politica-conoscitiva. Mentre a me pare che Terzo, quando dice: «Il compito specifico del discorso letterario è operare al livello inventivo e immaginativo dell’originalità: se non è formalmente innovativo non è politicamente efficace, e neanche politicamente corretto», propone come unico o prevalente obiettivo della comunicazione poetica o letteraria o artistica l’«originalità» della forma. Esenta così il poeta, il letterato, l’artista dalla preoccupazione o dal compito – attenzione! – non dell’impegno (o dell’impegno politico, di cui dirò più avanti), ma da ogni verifica della politicità che è intrinseca all’uso sociale e politico dei linguaggi (di tutti i linguaggi) compresi quelli poetici, artistici e letterari. Raggiunta una forma innovativa, ne discenderebbe per Terzo che il discorso letterario (o una poesia o l’arte) avrebbe in teoria le “carte in regola” per diventare «politicamente efficace». Poi, se non lo diventa, questo dipende più dai lettori che dall’autore. Per me no: il nuovo, l’originale in poesia o in arte non è di per sé automaticamente positivo o politicamente efficace. È semplicemente nuovo. È semplicemente originale. Non è detto cioè che novità o originalità o bellezza o autenticità raggiunte in poesia o nell’arte costituiscano un valore quasi assoluto che sfugga di per sé all’ambiguità strutturale della poesia. La poesia o ’arte non riesce a fare tale “miracolo”. Resta solo «promessa di felicità» e, come si sa, le promesse possono aleggiare nel vuoto per secoli e indurre effetti narcotici.”
(https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html)
P.s.
So che sei stato collega di mio fratello e, infatti, gli ho segnalato questo articolo di Marcella su “Camminando”.
“Qui dico solo che non c’è uno scrivere poesia da una parte e uno “scrivere poesie d’impegno politico” dall’altra. Come se fosse un’aggiunta, un di più o una cosa che si può fare (e allora la poesia sarebbe “civile”) e si può non fare. Esiste invece una *politicità* che è anche del linguaggio poetico. E che vien fuori sia che si parli di guerra e sia che si parli di fiori o di amore o di nuvole.”
Beh, caro Ennio, su questo mi pare che siamo d’accordo, perché io non dicevo il contrario. O non si è capito? “Impegno” nello scrivere versi che ci fa tutti servi di civiltà, mi viene da dire (da scrivere). “Servi è parola nobile nel suono / perché anagramma “versi” e i versi sono / i servi della mia necessità”. E necessità non sembri riduttivo! Ma ora divago… Voglio solo dire che l’impegno si può declinare in diverse forme. E alla mia poesia non manca, anche se descrive la mia esperienza, ciò che mi circonda, i sentimenti che provo (anche quelli “politici”, per dire). O così m’illudo di pensare… Grazie.
PS: avevo scritto qualcosa di più articolato, ma mi si è cancellato (non so come).
Cristiana Fischer
·
ho cercato di vedere nelle poesie di Dalessandro delle note di leggerezza e tenerezza che nessuno ha raccolto.
Ahi!
Il tema è sempre centrato sulla “vostra” lotta politica.
Ma la poesia non si cala nelle vostre battaglie.
Le visioni e i panorami di d’Alessandro non sono bellicosi.
Ma in fondo sono solo cavoli vostri, fin che dura.
Vorrei però una risposta dall’autore
* Traferisco qui da POLISCRITTURE SU FB [E. A.]
Gentile Cristiana, come non risponderle? Il suo primo commento mi ha toccato, anche se non ho risposto direttamente. Ora le dirò: certo che i miei panorami non sono bellicosi; ovvero: lo sono, ma le mie sono battaglie… come dire? amorose. Ma, attenzione! Amorose in tutti i sensi, perché non c’è distinzione, quando si combatte. Spesso sono battaglie combattute contro me stesso (e da non credente nemmeno posso dire, come José Bergamin: “Nella guerra che combatto / l’esser mio è contro di me, / ma se con me stesso mi batto / mi difenda Dio da me”). Marcella, che un po’ mi conosce, può forse confermarlo. E, a parte le “agudezas”, non la sto prendendo in giro. Anzi! Io scrivo quel che sento, e cerco di scriverlo bene. E’ questo il mio impegno. Credo che nemmeno Abate possa rimproverarmi di questo. Poi, certo (citando una didascalia letta qui a destra) anch’io preferisco i fortini ai siti. E oggi, con quel che succede intorno a noi, diamoci da fare perché i fortini resistano!
APPUNTO 1
“le mie sono battaglie… come dire? Amorose… Io scrivo quel che sento, e cerco di scriverlo bene. E’ questo il mio impegno. “ (Dalessandro)
“Il tema è sempre centrato sulla “vostra” lotta politica.
Ma la poesia non si cala nelle vostre battaglie.” (Fischer)
Dunque, da una parte impegno sì ma solo in “ battaglie… come dire? Amorose” e dall’altra estraneità (è sempre la solita “vostra” lotta politica) attribuita – quanto arbitrariamente, come ho cercato finora di sostenere – alla poesia, che “non si cala nelle vostre battaglie”.
APPUNTO 2
Francia al voto, exit poll: Le Pen al 34%, la gauche al 28,1%, Macron al 20,3%
Affluenza record in Francia, ha votato oltre il 65%. Boato e grida di giubilo alla sede della Rn. Le Pen: ‘Abbiamo cominciato a cancellare il blocco Macron’
30 giugno 2024, 21:35
Redazione ANSA
APPUNTO 3
“Queste “Tre ghinee” è stato scritto fra il 1937 è il 1938, Virginia [Woolf] immagina che un rispettabile avvocato le chieda di sottoscrivere per un comitato contro la guerra: “ Care signore colte, fate qualcosa”. E gli risponde di no, in collera. Come osano gli uomini chiedere alle donne di intervenire come cittadine quando le hanno escluse dalla cultura (dirottandole dalla proprietà dei beni, dall’esercizio delle professioni? Prima di intervenire nella vostra politica – conclude la Woolf – dovremmo essere restaurate come cittadini: devo mandare tre ghinee a tre altri comitati che si occupano delle emancipazione della donna…E ammesso che ci riescano, la politica che faremo allora non sarà simile, nelle forme e nei modi, alla vostra: aboliremo la guerra demolendo con l’ironia la volontà aggressiva del maschio; toglieremo le piume alla politica irridendo alle sue pompe e gerarchie; impediremo l’accumulazione dei profitti perché per le donne proprietà è sussistenza, non accumulazione; infine ci troveremo in qualche guaio col lavoro, perché se è umiliante stare a casa, è alienante il “vostro” lavorare. Per ora è fino ad allora siamo “estranee”. (pag. 131)
“C’è un paradosso nel discorso che le mie amiche femministe fanno sul potere: sono convintissime che esso è il nemico, ma non un così grande nemico, giacché sarebbe padrone di un terreno dal quale *ci si può tirar fuori*. Non dunque così terribile: come quella guerra, appunto, che la derisione delle “estranee” potrebbe in futuro impedire. Pensano, le mie amiche, che come nelle novelle di Andersen basti gridare: “Ma l’imperatore è nudo” perché quello sprofondi. Invece non sprofonda affatto. La cognizione del potere non ci rende liberi da esso, come quella del dolore non ci risana. O il potere viene spezzato oppure gridargli “Sei ridicolo, non ci sei, non ti vedo” non è più che indispettito colpo di spillo di una infelice signora inglese”. (pag. 134)
(Da “Donne e politica” in “Aperte lettere” di Rossana Rossanda, nottetempo 2023, Milano)
APPUNTO 4
“4. “ In Questo spentoevo si può continuare a dire che «per fortuna / succede qualcosa che ancora non so» (p. 33), ovvero che la poesia è sempre possibile e che non ha bisogno di dire niente, foss’anche una critica giusta ai costumi del tempo. La poesia, ci dice Lauretano, semplicemente c’è, è qui ad evocare la potenza musicale della parola, di un suono che si fa senso, canto dell’universo”
Illusi. La poesia sarà ancora possibile solo se il mondo (in generale o il “nostro” mondo, quello in cui siamo cresciuti) non verrà distrutto ma mutato in meglio. Se no, altro che “potenza musicale della parola”. Se no, chissà quanti saranno quelli che potranno ancora dire: “Desertum fecerunt et pacem appellaverunt”.
( Da https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/06/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano_28.html)
APPUNTO 5
I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza
di Ennio Abate + Uno scampolo del dibattito nato dalla critica di Abate alle poesie del n. 12 a cura di Marcella Corsi
https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/
Ma questo dibattito non rischia di diventare stucchevole?
Le battaglie sono tutte amorose, le erotiche e le politiche. Se no, perché combatterle?
Un saluto a tutti
Ma non dica sciocchezze: tutte le battaglie sono amorose, anche quelle in cui si muore o si viene in qualche modo distrutte/i?
Comodo, né?
Invece la divisione sociale tra i sessi, e quella culturale, dicono il contrario.
Bisognerebbe smetterla di immaginare che l’unico mondo a direzione maschile sia poi il mondo di tutti.
Ancora non è possibile: il mondo femminile, ricco e articolato, è una sottospecie di quello unico.
Come se i vostri figli non li facessimo noi (con il lungo allevamento che istilla anche nei figli maschi la consapevolezza della divisione).
Da più di 50 anni aspetto almeno e solo una presa di coscienza.
@ Ennio Abate. Estraneità: le obiezioni di Rossanda; estraneità -secondo me, nella obiezione/commento a Dalessandro- della poesia stessa dalla lotta politica e dalle battaglie (di cui, peraltro, il poeta non fa cenno nei testi riportati).
Voglio dare scandalo. Ho appena letto su Pagine esteri “Il molo galleggiante di Gaza. Un simbolo dei futuri piani coloniali”, in cui il molo galleggiante lungi dall’essere SOLO una struttura dedicata agli aiuti al Gaza sta
“all’interno della strategia a lungo termine di Israele sia per Gaza che per la Palestina nel suo complesso, utilizzando la struttura come una finestra per comprendere gli obiettivi regionali più ampi del regime. Temporaneo o meno, questo commento sostiene che il molo non deve essere visto solo come uno sforzo umanitario a breve termine, ma anche come un simbolo dei continui progetti imperiali e coloniali degli Stati Uniti e di Israele” … “il molo galleggiante è in linea con gli obiettivi politici e militari degli Usa nella regione e potrebbe segnare l’inizio di una presenza militare permanente degli Stati Uniti nel Mediterraneo orientale”.
Appunto. Voglio scandalizzare scrivendo che “noi” (io e molti altri) NON siamo in guerra, e che la presenza permanente degli USA nel mediterraneo orientale rientra in quella protezione dalla guerra che funziona per me e altri dalla fine della IIGM.
Quindi si può fare poesia considerando la guerra da lontano, e ripiegandoci sulla poesia in quanto tale, senza doverci vergognare troppo, e persino senza dover trattare l’argomento guerra.
Fin che dura.
Poi quando, eventualmente la guerra ci sfiorerà da vicino, allora tratteremo il tema “poesia e guerra” con una concretezza diversa, forse, se qualche poeta scriverà ancora. Rassegniamoci, in questa isola felice: in cui peraltro parte crescente dei bilanci degli stati si dedica alle armi e agli eserciti, e vi corrisponde la virata a destra dei governi e dei partiti che la guerra, forse con consapevolezza, la corteggiano.
Ecco, di questa conversione mentale e politica, si potrebbe scrivere.
Quanto alle donne e al mio onorato femminismo, è evidente che “il mondo femminile, ricco e articolato, è una sottospecie di quello unico”, e senza una presa di coscienza maschile difficilmente la situazione potra cambiare.
“Quindi si può fare poesia considerando la guerra da lontano, e ripiegandoci sulla poesia in quanto tale, senza doverci vergognare troppo, e persino senza dover trattare l’argomento guerra.
Fin che dura.
Poi quando, eventualmente la guerra ci sfiorerà da vicino, allora tratteremo il tema “poesia e guerra” con una concretezza diversa, forse, se qualche poeta scriverà ancora.” (Fischer)
Anche nelle tue parole ritorna insistente – perché? – un equivoco che ho respinto o cercato di chiarire. Riporto quanto già detto a Ludivici (“[Non] chiedo ai poeti alcunché”). E, quindi, neppure che si vergognino “troppo” o poco. (Cosa del resto possibile solo in caso di “coscienza infelice” e cioè di profonda consapevolezza dell’ingiusto vantaggio di cui godiamo come “occidentali” [1].
Al massimo constato, prendo atto, rilevo, noto (con rammarico o furore): “I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza”.
Cosa, invece, che si dovrebbe/potrebbe fare sia da lontano (dalla guerra) che da vicino o dentro. E che altri poeti hanno fatto in passato.
L’ultima tua realistica osservazione (“… se qualche poeta scriverà ancora”) s’avvicina parecchio a quanto ho detto nell’APPUNTO 4.
[1] Con parole ormai antiche( o antiquate, a seconda dei punti divista):
“Oppressori e sfruttatori (in occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero *nulla* divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria”.
(F. Fortini, “Comunismo” (1989): https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/)
Non hai notato, però, che invito i poeti a poetare sul crescente riarmo e sui sempre più diffusi governi di destra in Europa: è questa la nostra situazione, forse foriera di partecipazioni belliche future (maggiori di quelle dei nostri soldati in Libano e non so dove altro). Ho semplicemente cercato di essere realista.
Buttano tra i piedi ciò che sembra
che confonde le idee su ciò che è
e anche ciò che sembra è qualche cosa.
Ma ciò che è ha ferrigna pretesa
di essere di più di chi pretende
significare e osa.