Prove per un approccio ecocritico ai versi di Fortini: Una obbedienza
Ripubblico in versione completa questo importante saggio già comparso nel n. 9 cartaceo di Poliscritture (gennaio 2013) ma mutilato di alcune importanti note. [E. A.]
di Marcella Corsi
il mio desiderio è un albero che supera il cielo
tutto da una conchiglia – Erasmus aveva
le sue ragioni – minuscole nel fango primordiale
di oceaniche grotte di perla poi vegetali essenze
dotate di respiro e pinne e ali e piedi (chissà
se Katherine pensava a Darwin quando scriveva
di conchiglie e grotte di perla)
lentamente viaggiare
serpeggiando da giovani piante per sentieri di radici
per riuscire a sentire quel che il seme capisce
inventare nuovi usi per vecchi
strumenti tenendo a mente i due millenni
che servirono ad un seme per far crescere
la più celeste delle imponenti sequoie
poi converrebbe chiedersi perché le piante
siano tanto fissate con il sesso, perché
si prendano la briga ogni volta di produrre semi
– come sessuati non essiccare, come asessuati
disseminarsi in spore e radicare: così le felci
si pensava rendessero invisibili
chi possedeva i loro invisibili semi
a mezzanotte raccolti sui piatti di peltro della notte
che tagliava la mezza estate –
nessuno rida delle invisibili
diluizioni che guariscono
nascosto nel cuore di una mela vive un frutteto
L’ interesse che da sempre nutro per la vita vegetale è stato di recente stimolato – oltre che del volume1 di Jonathan Silvertown da cui ho tratto spunto per i versi che precedono – dalla particolare ottica di lettura delle opere d’arte proposta dall’ecologia letteraria.
E’ quest’ultima un metodo che si situa tra ermeneutica e attivismo, uno strumento con cui l’etica ambientale si esercita criticamente sui prodotti letterari, proponendo un’idea di cultura come strategia di sopravvivenza, motivata da precise esigenze di rifondazione culturale, in continuo esercizio di creatività.
Sul versante storico˗ermeneutico si tratta di un approccio volto ad acquisire consapevolezza dei valori ecologici – in senso affermativo o negativo – di cui un’opera, e un autore attraverso le sue opere, si fa portavoce. Da un punto di vista etico˗pedagogico essa vede nel testo letterario, e più in generale nell’opera d’arte, anche uno strumento di alfabetizzazione ambientale volto ad orientare positivamente il modo con cui gli umani si rapportano al mondo non umano2.
Non di rado scorrendo versi di Fortini ero stata colpita dalla rilevante presenza in essi del mondo animale e di quello vegetale3. Ho voluto rileggere quei testi alla luce dell’ottica proposta dall’ecologia letteraria. Forse solo un modo per riproporre versi che mi avevano colpito.
Rimango per ora nel cerchio ristretto delle poesie raccolte nell’80 sotto il titolo di Una obbedienza, affrontando i testi per quello che, anche loro malgrado, sembrano dire e cercando di liberarmi dai condizionamenti che gli scritti di critica e di passione politica potrebbero esercitare.
Un’ora esiste conosciuta a molti
nera e rada. Che nella campagna
le bestiole abbandonano la cerca,
lenta è ogni persona, gli edifici sono chiusi.
Dico della notte di luglio se è tutta muta.
Hanno ripreso a tremare nella loro tana sparuta
le famiglie dei ricci, vittime sotto le stelle
di raggi ultraterreni o feroci veleni,
cieche alle alte cose che a noi paiono belle.
O rive smorte, incanti grigi, ire disseccate.
Capovolto il capo nei sonni ostinati
la generazione dei dormienti precipitando
sente che mai potrà destarsi.
(1975-’77)
Leggendo Una obbedienza, prezioso libretto a cura di Giorgio Devoto che ripropone 18 poesie del periodo tra il ’69 e il ’79 prefate da Andrea Zanzotto4, alcuni testi colpiscono per l’attenzione partecipe, quasi affettuosa, portata ai piccoli animali della campagna e per la precisione delle citazioni arboree.
In questo Primo dei Cinque recitativi iniziali, entro l’irriducibile pedagogismo di taglio etico˗apocalittico che spesso connota i versi del nostro, s’affacciano bestiole che a sera terminano la loro ricerca di cibo e materiali utili alla riproduzione della vita e si ricoverano nelle tane grandi appena quanto basta (ma l’aggettivo scelto richiama anche la paura che li fa tremare).
Esse sono ‹‹cieche alle alte cose che a noi paiono belle›› e vittime dell’azione umana sull’ambiente naturale (a questo mi sembra rimandino i ‹‹raggi ultreterreni›› e i ‹‹feroci veleni››. Si badi a come l’autore, utilizzando il verbo parere, lasci aperta la possibilità – la suggerisca quasi – che quel che a noi sembra bello poi bello in realtà possa non essere. Per quanto affiancata all’immagine della cecità animale, questa messa in dubbio della percezione umana del reale mi sembra significativa.
Se quel noi avesse un riferimento più ‘stretto’, non all’umanità nel complesso ma agli uomini che sono in condizione di poter pensare al bello, allora quelle bestiole e quei ricci rimanderebbero allegoricamente ai molti umani che altro non possono che lavorare per riprodurre le condizioni della loro esistenza in vita (si capirebbe allora perché già alla prima lettura quegli animali avessero, conferito loro dal poeta, odore d’umana famiglia).
L’ipotesi pare confermata dai versi seguenti, dove natura, mondo culturale e sfera della bellezza in particolare, ed infine il proprio personale sguardo sulla realtà si presentano contraddittori o, come spesso in Fortini, in compresenza di contrari (‹‹rive smorte, incanti grigi, ire disseccate››). E soprattutto pare, negli ultimi tre versi, che la generazione consapevole della propria incapacità di destarsi anche in avvenire sia senza dubbio quella degli umani, anch’essi, in modo diverso da quello degli animali, ostinatamente dormienti.
E’ però qui rilevabile, mi sembra, la percezione di una stretta interrelazione tra natura, animali e uomini, una compresenza che implica reciproci condizionamenti: non solo, come espresso nei versi, dall’azione umana al mondo vegetale e animale ma anche implicitamente all’inverso, dalla natura nel suo complesso sull’uomo, la sua vita, le sue convinzioni.
Incontriamo uno sguardo attento e partecipe sugli animali anche nel Quinto recitativo5, in Il nido6, in La nostra Regione7. Perfino in Two-Step, dove non ce lo aspetteremmo. Invece ecco rospi e altre bestiole che stupefatti vedono atterrare aerei, e abbài di cani da guardia e alla fine animali che… contemplano le stelle8.
Nel Terzo recitativo (e ricordiamo che i Cinque recitativi9 sono nel libretto in posizione preminente, iniziale) colpiscono i due versi in cui al ‹‹paese delle volpi parlanti›› viene accostata ‹‹l’impossibilità di capire definitiva››, questa degli umani, giacché pochi versi più sopra ‹‹lo spazio tra le persone del gruppo›› era diventato ‹‹come una pelliccia››10.
Nel Quarto, che in prima persona plurale afferma la necessità di non sfuggire alle responsabilità sociali e soprattutto alla ricerca della verità, non passano inosservate un paio di domande e una finale osservazione: ‹‹E non guardate dove le stelle si riproducono? Non volete/ nemmeno osservare le piccole persone/ che stridono sotto le nostre scarpe?/ Come l’agonizzante diventa un sasso lo sapete››.
Vi sono coinvolti stelle, sassi, insetti e umani agonizzanti, in una compresenza tragicamente interrelata, in una condivisione di condizione che tende significativamente al meticciato. Le stelle si riproducono come umani ed animali, sotto le scarpe non insetti stridono ma ‹‹piccole persone››, e l’umano agonizzante diventa sasso. E’ la possibilità della metamorfosi che s’intravede nella mescolanza. E nella commistione la centralità umana sembra essere messa (finalmente) in discussione. Certo il poeta si rammarica che possa accadere il ‘diventar sasso’ di un uomo ma prende atto della ‘verità’ che questa ammissione contiene. Il valore dell’umano può dunque non prevalere sul resto del mondo.
Un’obiezione: e se quelle piccole persone che stridono sotto le scarpe non fossero minuscoli viventi animali ma umani indifesi e oppressi? E’ probabile che entrambi i significati siano presenti nei versi. Ma, qualora (cosa che non credo) si dovesse scegliere una sola tra le due interpretazioni, è improbabile che si possa escludere quella animale. Credo di poterlo dedurre dalla citazione con cui la poesia inizia: ‹‹Perché alla fine che cos’è/ tutto il genere umano a paragone/ della natura e della universalità delle cose?››.
Un cenno merita, rilevabile nei versi, la precisione nel nominare le essenze arboree, che dice almeno di frequentazioni, di attenzione e competenza nello specifico. Non si incontrano alberi in Una obbedienza ma noci e aceri, pini e agrifogli, il gattice, il cipresso, le ginestre, l’elce, il leccio. E anche, o meglio, ‹‹lecci tenaci›› (in La nostra regione11), ‹‹larici spirituali›› (in New England12). E poi ‹‹prati acuti/ dove passa uno che non capisce›› (Per un sarcofago13). Così, mentre gli alberi – come d’altronde qui il mare – nella percezione del poeta acquistano vicinanza e quasi si umanizzano, viene il dubbio che l’acutezza di questi prati non possa essere solo questione di punte d’erbe o di steli spinosi14…
Quando fosse allegoria (come con tutta probabilità è), sarebbe comunque significativa la scelta dell’immagine naturale. Di ‹‹intelletto delle erbe›› Franco Fortini parlerà esplicitamente nella prima delle poesie della prima sezione di Composita solvantur, e più avanti (in La notte oppresse…) definirà la profondità dei fiumi come ‹‹il luogo dell’intelligenza››.
Così l’affermazione finale (‹‹quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di molti››) non sembra contenere paura o tristezza ma, entro un’idea di compresenza nel reale, recare conforto e pacificazione15.
Torna in mente l’augurio finale del Terzo recitativo (‹‹Il mancato piacere definitivo/ si mutasse in acquisita intelligenza./ E l’acquisita intelligenza si mutasse/ in lode della creazione.››) e la già citata citazione posta all’inizio del Quarto. Il fatto che quest’ultima sia, per esplicita dichiarazione dell’autore16, una citazione immaginaria la rende, credo, ancora più significativa.
Concluderei questa breve prova di lettura ecocritica preliminare con i versi iniziali e finali del Quinto recitativo, che per primi scorrendo il volumetto mi hanno affascinato.
La luce del gran nuvolo stupefacente
e gli agrifogli e i ghirigori! Ormai
anche i visitatori più assorti avranno compreso
quanto la sera è inevitabile.
L’uccello piangeva dalla vetta del gattice
i rapiti dal nido inconsolabile
[…]
visitatori pellegrini ospiti!
Infilate le maglie, perdete le ricche ginestre,
scendete verso le auto, non vogliate sostare
dove lo stagno detto delle libellule
è discarica assoluta, non chiedete
il doloroso segreto
del serpe mozzo, dell’opaca salamandra.
Furono, sì, sono, saranno; ma fiera la luna
è rapidissima lassù e possiamo, addio,
tra elce e leccio, tra cipresso e leccio
senza suono toglierci, senza pena
dalla complessiva immagine.
Nessun tentativo di rifugiarsi nella natura, nessun riposo dello sguardo. Stupore ammirato di fronte alla magnificenza e all’inevitabilità dei fenomeni naturali, consapevolezza delle contraddizioni che anche qui si mostrano più pesantemente umane che animali (pesantissimo quell’aggettivo assoluta attribuito alla discarica che lo stagno delle libellule è diventato, mentre lo sguardo accoglie partecipe il dolore inconsolabile dell’uccello privato dei piccoli), una residua possibilità di comprensione per chi sia disposto a guardare.
E nell’invito ai visitatori mi colpisce il verbo perdere riferito alle ginestre, ricche – credo – solo dei molti fiori e tuttavia chiaramente preziose.
Erbe e animali nella loro partecipe, sapiente, preziosa (apparente) immobilità rimangono fermi, a sera, dove sono. Ci sono, ora come nel passato, ora come nel futuro. Nei secoli dei secoli, verrebbe di dire se non avessimo ora una consapevolezza diversa della fragilità degli ecosistemi. Al di la della differente percezione delle fragilità naturali propiziata da trent’anni di distanza tra i versi di Fortini e l’oggi, questo rimanere di piante, acque e animali dolenti promana forza, induce fascinazione. Si collega fermamente alla già sottolineata ‹‹tenacia dei lecci››, alla ‹‹spiritualità dei larici››.
Ma visitatori, ospiti o pellegrini possono approfittare del movimento rapidissimo della luna per muovere anch’essi, e perdere, non sostare, non chiedere.
‹‹Possiamo – ricompare il noi ad infiltrare (o forse ad attestare) l’autore tra i visitatori – senza suono toglierci, senza pena dalla complessiva immagine››. Non sarà così, non più, a mio parere, in Composita solvantur17.
E’ probabile che una lettura intertestuale porterebbe anche qui ulteriori suggestioni. E certo sarebbe assai utile seguire alcuni temi della poesia del nostro autore (quello del sonno per esempio) presenti anche nei versi sopra riportati. A me però ora preme sottolineare una diversa possibilità di leggere il Fortini poeta, quella operata alla luce di un importante strumento interpretativo e ‘formativo’ quale mi sembra sia l’ecologia letteraria. E insieme segnalare l’interesse che i versi di Fortini possono avere per chi tale strumento padroneggi meglio di me.
Con tutta evidenza sarebbe opportuno concentrare l’attenzione su Composita solvantur, giacché, come notò Roversi18, ‹‹è quando si fa giusta attesa “la vergogna di vecchiezza” che il pubblico fustigatore, il sapiente senza livrea arriva a disporre dopo la lunga macerazione e per intero della propria parola poetica››.
Forte stimolo in questa direzione deriva da poesie come Qualcuno è fermo…, Le piccole piante…, Sono nella stanza, Stanotte…, Saba, Compiendo settantacinque anni, Sopra questa pietra…, Ruotare su se stessi…, La notte oppresse…19. Noto qui parenteticamente che sette di nove delle poesie di Composita solvantur che mi sono sembrate le più significative ai fini di una lettura ecocritica sono state titolate con lo stesso criterio adottato per gli Otto recitativi, cioè non hanno titolo (condizione riservata in Una obbedienza ai soli Cinque recitativi).
Ritornando ai testi di Una obbedienza vorrei riprendere qui, per concludere, alcune delle deduzioni man mano emerse dalla lettura dei versi ed esplicitarne brevemente la rilevanza in termini ecocritici.
Significativa è sembrata nel Primo recitativo la messa in dubbio del valore assoluto della percezione del reale operata dal noi fortiniano, confermata dalla connotazione positiva attribuita a piante e animali riscontrabile in diverse delle poesie riportate.
Ancora di più forse rileva quella condivisione di condizione quasi meticcia di astri, sassi, animali e umani notata nel Quarto recitativo (ma, a ben vedere, anche nel Primo), una compresenza interrelata che ha in sé la possibilità della metamorfosi e sembra mettere in crisi la centralità dell’umano entro il complesso della realtà dei viventi: il modello antropocentrico avviato a decostruzione.
Potevamo aspettarcelo fin dall’inizio che lo sguardo poetico di Fortini transitasse senza intoppi dall’attenzione convinta ai problemi dei deboli entro la società ad una considerazione partecipe anche della condizione dei deboli entro il mondo naturale. L’approccio etico ve lo predisponeva. La messa in discussione dell’io lirico per un noi civile da declinare nei più ampi modi non poteva non estendersi anche al complesso dei (nei più vari modi20) viventi entro l’ambiente naturale.
Proprio però la messa in discussione, qui forse solo iniziale, della centralità dell’uomo entro le differenze presenti nell’universo dei viventi è insieme premessa indispensabile e sintomo importante di un atteggiamento ecologico, che fa cioè prevalere un discorso sull’oikos (casa, ambiente nel quale si vive) rispetto ad uno centrato sull’ego. D’altronde la consapevolezza delle contraddizioni dell’azione umana sulla natura è più d’una volta espressa nei versi citati in questo scritto. Ma qui mi sembra ci sia qualcosa che va oltre una generica denuncia dei guasti provocati dalla presunzione degli umani.
Quello che qui avvertiamo in modo non del tutto implicito in Fortini è un ‹‹umanesimo non antropocentrico››21, capace di immaginare (o comunque cercare) strategie di sopravvivenza culturale in praesentia naturae: senza trascurare il legame stretto tra cultura degli uomini e sapienza della natura.
Anche la virile, quasi serena consapevolezza del finire ‹‹cibo e bevanda di molti›› assume una diversa sfumatura entro questa cornice. C’è, certo, ad aiutare la fiducia che solo quanto di sé si consuma debba finire a quel modo, ma c’è pure quella particolare sdrammatizzazione della morte che si guadagna spazio nella mente di chi si pone in una prospettiva ecologica.
Sentire la cultura come un percorso etico finalizzato alla creazione di un patrimonio comune, inclusivo, in continua autorevisone. Essere ‘fedeli’ ai figli più, od oltre, che ai padri. In alcune caratteristiche dell’umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia di sopravvivenza mi sembrano riconoscibili intenzioni e pratiche del poeta e dell’uomo Fortini. Riletta in quest’ottica, la sua poesia trova nuove direzioni di attualità.
Note
Grazie Marcella…l’ecocritica di alcune poesie, di mistero di natura e di impegno umano e politico, di Franco Fortini, la tua compresa, si rivela un vero saggio di ecologia profonda…
Trascrivo altre poesie di F. Fortini, tratte dalla raccolta ‘Foglio di via’, con un messaggio profetico di tempi ancora più bui ma pure di una speranza da riporre nella natura e negli animali-guida
LA ROSA SECCATA
Dove ricercheremo noi le corone di fiori
Le musiche dei violini e le fiaccole delle sere
Dove saranno gli ori delle pupille
Le tenebre, le voci – quando traverso il pianto
Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli
Sui prati senza colore, accennando. E di noi
Dietro quel trotto senza suono per le valli
D’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.
Ma il più distrutto destino è la libertà.
Odora eterna la rosa sepolta.
Dove splendeva la nostra fedele letizia
Altri ritroverà le corone di fiori.
LA SERA SI FA SERA
La sera si fa sera,
Tu non avrai compagni.
Ed allora verrà
La faina da te
Per mettertipaura.
Ma non prender paura,
Prendila per sorella.
La faina conosce
E l’ordine dei fiumi
E i fondali dei guadi
E ti faré passare
Senza che tu t’anneghi
E poi ti condurrà
Fino alle fonti fredde
Perché tu ti rinfreschi
Dai polsi fino ai gomiti
Dei brividi di morte.
Anche comparirà
Davanti a te il lupo
Per metterti paura.
Ma non prender paura
Prendilo per fratello.
Perché il lupo conosce
E l’ordine dei boschi
E il senso dei sentieri
E t’accompagnerà
Per la via più leggera
Verso un alto giardino
Dove la luce é quieta.
Il tuo posto é laggiù,
Dove vivere é bello
Dov’é il campo di dalie
La collina dei giuochi.
E laggiù c’é il tuo cuore.
Questo ultimo testo di Fortini che ci proponi, Annamaria, con la sua esortazione a prendere per fratelli e sorelle quelli che a tutta prima possono spaventare (o risultare irricevibili), mi ha fatto pensare a un’immagine vista ieri sui manifesti elettorali della sinistra unita francese: una Marianna nera urlante, così simile ai manifesti esasperati e ‘urlanti’ dell’immediato dopoguerra italiano da risultarmi, a pelle, irricevibile.
Dal punto di vista di una comunicazione efficace quella immagine mi sembra non solo inquietante ma anche una scelta sbagliata, per quanto può indurre in un elettore anche solo a livello subliminale.
Mi dico però ora, seguendo l’input di Fortini, che forse bisogna ‘accogliere’ (o almeno capirne i risvolti necessari a orientare la politica) anche quanto sembra irricevibile in questa sinistra, francese o nostrana, e che quell’immagine contiene in sé, raffigura. Almeno farne motivo di riflessione, confrontarsi per, se possibile, includere anche quello che si presenta come lupo o faina. Il rischio altrimenti è la completa irrilevanza.
La Marianna nera urlante continua però a sembrarmi scelta sbagliata…
Marcella, anche F.Fortini quando scrisse quei versi veniva direttamente dalla guerra e di orrori ne avrà visti e ostacoli affrontati, per cui faina e lupo, animali selvatici a rischio estinzione, potevano offrigli gli strumenti giusti di conoscenza del territorio e dei pericoli per trovare il giusto sentiero verso la salvezza…coraggio intuizione e scaltrezza in situazioni estreme devono affiancarsi alla ragione e ai principi morali. Pure i nativi americani avevano eletto degli animali totem come compagni di viaggio, dall’alto valore: l’orso, l’aquila, il serpente, il lupo, il ragno, il cane…Nel ritmo cadenzato dei versi della poesia, mi sembra di sentire il passo del soldato che ritorna, guardingo e veloce, a fianco degli animali amici, verso casa: la pace a lungo mancata:
“Il tuo posto è laggiù,
Dove vivere é bello
Dov’é il campo di dalie
La collina dei giuochi-
E laggiù c’é il tuo cuore”
Un ricordo solare dell’infanzia, tra natura e giochi…
Con il ‘tu’ mi sembra che il poeta si rivolga a se stesso quanto ai molti sulla strada del ritorno dalla guerra
Sicuramente è così per questa poesia. La mia era una suggestione derivante dal presente… le poesie , mi sembra possono essere utili anche oltre i contesti in cui sono maturate…