La memoria delle classi subalterne

di Margherita Lorenzoni

Il titolo del libro di Velio Abati (La memoria delle piante) rivela la centralità del tema della memoria.
La memoria che interessa all’autore è quella delle classi subalterne (in particolare quelle che appartengono a un mondo contadino che lui, per ragioni biografiche, conosce bene e che è ricorrentemente protagonista della sua scrittura). Dall’antichità al presente, si raccontano le condizioni degli oppressi, che siano poveri contadini che subiscono le razzie di “potenti e cavalieri”, braccianti agricoli del mondo contemporaneo sotto la violenta autorità di un caporale, famiglie contadine del secolo scorso alle prese con i duri cicli della terra e così via.
Voltando le pagine siamo di volta in volta catapultati in un punto diverso della Storia, in modo spiazzante e disorientante. Adesso ci troviamo nella campagna medievale, poi in un podere ai tempi del dopoguerra, subito dopo nel villaggio di un mondo antico e pagano, e poi ancora chissà quando.

Una lettura ideologico-commemorativa della memoria?

È interessante domandarsi perché Abati decida di sviluppare il tema della memoria connesso alle classi subalterne. Che funzione, che significato ha questa scelta?
La risposta più ovvia, ma forse un po’ riduttiva, che si potrebbe dare è che la memoria, in un doppio movimento, da un lato serve a creare una coscienza, rinsaldando internamente i legami di una comunità, di un gruppo di individui (in questo caso si direbbe accomunati dalla dimensione di “classe” – nella tradizione marxista è il proletariato il soggetto che meglio di ogni altro può raggiungere una “coscienza di classe”, anche se qui ci troveremmo di fronte a una sua “estensione” nel mondo contadino). E d’altra parte, però, la memoria potrebbe servire anche ad avanzare nell’obiettivo di ottenere un riconoscimento esterno, strutturandosi in una qualche forma di tradizione (cioè qualcosa di comunicabile e trasmissibile). Il “riconoscimento” del resto è stato individuato come concetto chiave dalla teoria politica per descrivere le lotte contemporanee, caratterizzate dalle “identità frammentate” prodotte da un capitalismo sempre più globalizzato1 (ma precisiamo subito che Abati sembra rigettare quelle soluzioni che gli suonano come “vittimistiche”, cioè quelle identitarie, che, come lui dice, spesso servono a marcare singole “porzioni di dominio”, cfr. p. 42).
Con questo intendo dire che la memoria delle classi subalterne nel libro di Abati si presta a prima vista a interpretazioni di questo tipo, in bilico fra un senso politico-ideologico e uno più pedagogico-commemorativo: avrebbe infatti un importantissimo ruolo per quelle classi, quei gruppi di individui che sono costantemente minacciati dalle ingiustizie e dall’oblio (e dall’ingiustizia dell’oblio).
Dice infatti:

I silenzi non sono innocenti. I vuoti duri che troncano la memoria, le vergogne che piegano la fronte e serrano la gola sono la linfa della tua sottomissione: guardali! urlano lo strazio che ti strozza la parola. Guardali, abbi il cuore. Raccòntati con gli altri, per capire con loro chi siamo (pp. 27-28).

Lingua e memoria

Questi sforzi, se vogliamo, appartengono anche alla lingua. La ricerca così meticolosa sui termini e l’attenzione al mondo materiale, che caratterizzano un po’ tutta la sua scrittura, sono anche un esercizio di memoria. Si cerca di aderire con il linguaggio il più possibile alla realtà non certo per erudizione, ma per non disperderne alcuni aspetti, non farli sbiadire e quindi, insieme, anche per rivendicarli e affermarli. La lingua in questo senso dovrebbe cercare di essere il contrario dell’“invarianza dei nomi”, «la veste mondana dell’inganno, del fantasma della verità» (p. 40).

La memoria nei salti temporali

In realtà, La memoria delle piante suggerisce un significato più ampio del tema della memoria.
Anche se non è la prima volta che Abati vi ricorre, un elemento fondamentale del suo narrare sono i salti temporali. La memoria, infatti, si dispiega fra salti e cesure nell’ordine del tempo. Non si tratta quindi di una memoria che fissiamo dal presente, da un punto fisso nel tempo, ma il nostro stesso punto di osservazione è sempre in movimento. Ciò porta a pensare innanzitutto che con questo andirivieni si voglia sottolineare la continuità fra le esperienze di oppressione nella storia; ma anche tutto ciò che da esse può scaturire (umanità, solidarietà, fratellanza e così via): c’è dunque nel suo discorso anche quella fiducia nell’«intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra» di cui parla Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia (1940).
È vero che:

Figure di dolore straziano i giorni, uno dietro l’altro, fino al respiro dell’alba. Ma solo se ti riesce di montare sopra la querciona della poiana, in cima la costa, sai vedere gli stradelli dei tassi e le trame dei campi assettati dalle siepi da secoli e secoli, che da basso non capisci (p. 27 – corsivo mio).

Il “decentramento temporale” sembra essenziale a qualunque verità, che però allo stesso tempo non può essere mai disincarnata: va colta come ossimoro, per trattenere «insieme i due poli in fuga della calamita, l’identità e la temporalità» (p. 40).
Ma spingiamoci ancora oltre2. Sembra che in qualche modo la storia stessa degli oppressi si presti a questo tipo di frammentarietà, di non linearità temporale. È una memoria, infatti, che articola sé stessa in modi che sfuggono alla progressività, alla pretesa dello sviluppo rettilineo del progresso. Si direbbe che la forma stessa in cui la memoria subalterna si organizza e si comunica esprime una rottura rispetto alla finzione della linearità dei racconti.
Si dice infatti ancora:

Solo la finzione di un ritmo identico, con cui ci affanniamo a dar ordine nella conduzione quotidiana o nelle vicende collettive, nasconde alla percezione comune la molteplicità dei tempi, il loro diversissimo moto (p. 39).

Nella scelta dei salti temporali, dunque, non c’è tanto il pessimismo di un eterno smacco (in un ritorno dell’identico), quanto piuttosto un implicito riconoscimento dell’alterità che l’esperienza subalterna rappresenta nelle articolazioni dei discorsi che si svolgono nel tempo della storia. «Il fatto è che nessuno, di chi ha parola che tutti ascoltano, dice qualcosa vicino al vero» (p. 28). E forse proprio a questo serve la letteratura? Ad articolare siffatti discorsi, a dire qualcosa “vicino al vero”? Forse la memoria ha bisogno della parola letteraria per rivelare sé stessa nella forma della discontinuità e della rottura? Infatti, come si dice, «la verità non è pietra, è un fuoco. Esiste in quanto scinde e incenerisce ciò che la fa esistere» (p. 40). Come fare ad afferrarla dunque?

Nekyia

L’ultimo nucleo del mio ragionamento intende soffermarsi sulle “voci” che tessono la trama di questa memoria. Appena ho letto il libro ho immediatamente pensato alla parola “ombre” e infatti ravviso una forte presenza della morte nel libro. L’intero racconto mi sembra quasi una nekyia – ciò che nella cultura greca era una chiamata a raccolta degli spiriti che parlassero del futuro. In fondo, se stiamo assistendo a un eterno irrompere dei passati nei presenti, probabilmente stiamo parlando anche dei futuri. Queste voci non solo raccontano il passato e predicono il futuro, ma mostrano anche uno sforzo di riemersione, di formazione di un’autocoscienza, una faticosa riappropriazione di un senso di coesione attraverso le epoche che possa delimitare un’esperienza e un’appartenenza.

Dunque sono tornato. Da dove tutto è partito? […] Come venimmo qui, in una sieda senza più la forza di rizzarsi, in quest’angolo di aia, né cicale, né grilli, muti i visi di chi mi accompagna? (p. 7).

Questo, seppur non necessariamente in contraddizione con quanto detto in precedenza, mi porta a pensare che non sia esaustivo leggere il tema della memoria in questo libro in chiave troppo smaccatamente ideologica o commemorativa. Probabilmente, infatti, non è nemmeno mai contemplato un momento in cui una coscienza finalmente formata chiamerà all’unione gli oppressi di tutte le epoche. Anche perché in questo dis-ordine temporale la vera fine non si vede.

Senza fine è lontano, ora che tocco la fine (p. 11).

Piuttosto siamo di fronte a uno sforzo, a una tensione latente che innerva i vari squarci narrativi, a una possibilità che si proietta nei tempi lunghi della storia e che proprio nel mezzo letterario (e nella sua lingua) trova espressione. [E mi chiedo qui: questo può ricomporre un po’ la contraddizione del “prendere parola in nome di”, configurandosi più che altro come “mettere le possibilità della letteratura al servizio di”? O la contraddizione non può che restare?]
Assistiamo dunque a un tentativo di emersione: potremmo dire che resti una possibilità inattuata, ma non tutto è perduto. È la fatica di queste “ombre” a non consegnare la prospettiva alla deriva di un amaro pessimismo (come forse poteva apparire maggiormente nel suo precedente lavoro, Fughe). Che sia questa eterna possibilità (che magari sarà anche inattuabile ma allo stesso tempo resta anche insopprimibile) il succo stesso della memoria dei subalterni – e non soltanto quindi l’ingiustizia subita e passiva?

Epperò, più aspra ancora, resiste, inconsutile sotto la falsa opulenza, la domanda degl’innumeri senza nome e di chi, un giorno, ci guarderà chiedendoci conto e sarà per sempre. Non dirà regnava la babele, ma perché, parlando d’altro, avete taciuto? (p. 102).

Le proposte sui possibili processi di costruzione politica restano fuori da La memoria delle piante. Ma del resto qui si sta facendo letteratura. Una letteratura che però non esclude il dialogo (lo cerca insistentemente, anzi, direi) con quanto sta attorno a essa e a cui forse – attraverso i lampi del linguaggio poetico – ambisce contribuire e partecipare.

Note

1 Axel Honneth e Nancy Fraser, Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e diseguaglianze economiche, Meltemi 2007 – ed. orig. 2003.

Parto da un recente spunto ricevuto da una delle conferenze di Judith Butler alla Sapienza, in cui si faceva riferimento proprio a Walter Benjamin (The Space-Time of Judgement – 2,3,9 maggio 2024). 

1 pensiero su “La memoria delle classi subalterne

  1. “Assistiamo dunque a un tentativo di emersione: potremmo dire che resti una possibilità inattuata, ma non tutto è perduto. (…) Che sia questa eterna possibilità (che magari sarà anche inattuabile ma allo stesso tempo resta anche insopprimibile) il succo stesso della memoria dei subalterni – e non soltanto quindi l’ingiustizia subita e passiva?”
    Memoria, possibilità, riconoscimento: interessante ipotesi di conciliazione tra letteratura e politica.

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