di Angela Villa
Avanza lentamente trascinando i piedi per terra porta con sé un piccolo lume, ha gli occhi spalancati eppur non vede, ad un tratto depone il lume e si sfrega le mani cercando inutilmente di cancellare qualcosa. «Una macchia è qui tutt’ora via ti dico, o maledetta». Conta le macchie sulle mani una, due, il ritmo incalza (Verdi stesso in una lettera al librettista Francesco Maria Piave chiede ritmo rapido nella parola e scene incalzanti). Questa donna, persa in questa atmosfera notturna e cupa , chiusa nel suo sonnambulismo, è Lady Macbeth nell’opera lirica Macbeth di Giuseppe Verdi. Il musicista nel quarto atto inserisce questa scena per rappresentare il pentimento per gli omicidi commessi. Ma nella scena e nella musica c’è molto di più. Una visione drammatica di una personalità complessa, quella di Lady Macbeth, incapace di governare l’amore che la lega al suo uomo. Schiacciata dal desiderio di vedere il suo amato dominare e dominata dal suo stesso desiderio. Verdi ha pietà per questa figura e accompagna la scena con note struggenti e delicate. Ella stessa appare al medico e alla dama di corte, come una figura delicata: regredisce nelle parole e nei gesti è quasi una bambina, gli occhi fissano il vuoto, e la voce nel finale è un soffio, un cuore che piano, inesorabilmente, cede sotto il peso del dolore. Questa rappresentazione di follia è per Verdi dolore estremo: frasi sconnesse, parole ripetute affannosamente, sulle note ripetute in modo ossessivo. Pochi strumenti anticipano l’ingresso di Lady Macbeth, violini e qualche fiato, i violini riproducono in modo incisivo alcune note di una scala cromatica ascendente, questa scala di semitoni doloranti, accompagna la donna nella sua follia, lentamente, un passo dopo l’altro. Verdi, in questa scena rappresenta la follia come condizione dell’animo che si alimenta nella solitudine. Nell’opera tutto è ridotto al minimo, sono solo tre i personaggi principali, Macbeth, Lady Macbeth e le streghe. Tre personaggi chiusi ognuno in una forma di pazzia: la follia del desiderio di potere, la follia dell’amore scambiato per il potere, la follia di volere dominare il futuro. Tutti estremamente soli. Solitudini che, pur venendo a contatto, non si incontrano mai realmente. L’opera diventa così rappresentazione della solitudine, dell’incapacità di vivere per gli altri e con gli altri. L’incubo della vita si compie, l’incubo della storia come sopraffazione, dell’amore come dominio o sottomissione, non c’è libertà e questa assenza conduce i tre protagonisti verso la fine. Chiusi solo nel loro tempo interiore fatto di riflessioni in successione, che culminano sempre più verso l’interno, in modo sempre più degradante, con un ritmo incalzante che Verdi realizza genialmente attraverso l’uso continuo della scala diacronica. Nelle lettere al librettista Francesco Maria Piave, Verdi per la parte di Lady Macbeth vuole una cantante dalla voce particolare (soprano drammatico d’agilità) e brutta anche di fisico, la sua cattiveria sia visibile nella voce e nel corpo. Ma il musicista ha pietà di questa donna ed esprime una tenerezza paterna. Poche note pochi strumenti pochi oggetti in scena accompagno questa figura dolente verso il vuoto. La scena deve essere quasi parlata più che cantata solo nell’acuto finale la voce, si libera la mente stessa si spoglia del peso del rimorso e della follia.
Ma chi è Lady Macbeth?
È una donna che ama, il desiderio di potere sembra il suo unico scopo, ma è soprattutto desiderio di vedere il suo uomo vittorioso e finalmente re. Fino all’ultimo il suo pensiero è proteggere Macbetto guerriero codardo e incapace di uccidere realmente. Alcuni hanno definito il Macbeth un’opera senza amore. A mio avviso proprio la scena della follia fa comprendere quanto forte sia stato l’amore della Lady per il suo uomo. Un amore certo patologico e ossessivo da spingerla alla follia, fatto di desiderio assoluto: assecondarlo in tutto, volere tutto per lui, la conquista del regno e della corona. Senza avere nulla in cambio perché il re non appena apprende la notizia della morte risponde in modo distaccato, freddo, non una parola di dolore sulla donna che ha assecondato i suoi istinti primordiali: «La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla» (Atto V, Scena Quinta). E lei invece ancora ha ultime parole solo per lui: «Andiam Macbetto sfar non puoi la cosa fatta» In questa consapevolezza di non poter tornare indietro, di non poter più pulire la coscienza dall’odio accumulato, cade la mente della protagonista. Non si torna indietro, allora si va avanti verso la follia e verso la fine. «Andiam andiam macbetto,andiamo» sull’ultima vocale una nota acuta si perde nell’aria. Lady Macbeth se ne va così, con i piedi scalzi, i capelli sciolti le mani abbandonate lungo il corpo verso il nulla, sola e innamorata ancora del suo Macbetto, preoccupata che lui possa tradirsi. «Andiam Macbetto, non t’accusi il tuo pallor». Poche note dei violini chiudono l’aria, ci dicono abbiate pietà di questa piccola donna che non ha saputo governare, trasformare, liberare il suo amore e l’ha rinchiuso nella gabbia della solitudine e del silenzio. Godiamo della bellezza di questi suoni nella versione diretta da Claudio Abbado con il coro del Teatro alla Scala, eccellente la prova di Shirley Verret (1975 Claudio Abbado, Shirley Verrett, Piero Cappuccilli, Nicolai Ghiaurov, Franco Tagliavini, Nicola Martinucci). Ma se vogliamo ascoltare il più bell’acuto della storia della lirica (non tutti i soprani affrontano la nota finale dell’aria), ascoltiamo la versione di Maria Callas (Alla Scala nel 1952). Mettiamoci comodi, chiudiamo gli occhi e cerchiamo in noi qualche traccia della follia di Lady Macbeth.