di Carlotta Pais
È di pochi giorni fa la notizia della morte di Satnam Singh, bracciante agricolo che, in provincia di Latina, a seguito di un incidente che gli ha causato l’amputazione del braccio, è stato abbandonato senza soccorsi, arrivati quando era ormai troppo tardi per intervenire.
Una storia come questa, quando esce dalla cronaca locale per arrivare a un pubblico più vasto, risveglia le coscienze sopite e, di tanto in tanto, fa tornare a parlare di diritti umani, lavoro, sfruttamento. Innumerevoli, tuttavia, sono le storie di soprusi sommersi e sopraffazione, come quella di Camara, che dalla cronaca di qualche anno fa, prende posto tra le pagine de “La memoria delle piante” di Velio Abati, insieme ai tanti personaggi senza voce che il romanzo contiene.
Il romanzo, denso di storie e di speculazioni, momenti narrativi e altri teorici, ha il pregio non banale in questi tempi, di portare alla riflessione, mentre illumina come un faro le vicende umane più in ombra e ritaglia uno spazio per chi non ce l’ha, facendo rivivere le storie dei singoli e della collettività in spazi e tempi diversi ma che sentiamo vicini, perché avvolti da una dimensione universale di sofferenza, sconfitta, ingiustizia, valide oggi come ieri.
L’autore, con una lingua non sempre trasparente per chi non ha una discreta frequentazione del lessico impiegato, ricco di toscanismi, parole arcaiche e neologismi, ci porta nelle vicende di chi, ai margini della Storia, porta avanti le sue esistenze, senza avere mai voce.
Ma la voce, variegata e multilingue, che l’autore impiega per parlare di e con questi personaggi, riflette stili diversi che spaziano dall’oralità alle forme più auliche dello scritto.
Nella voce, che in una pluralità sempre cara all’autore è forse più propriamente coro, affiorano, dal suo vissuto e dalle sue personali ricerche, personaggi e vicende che hanno in comune la condizione, ma non il tempo e lo spazio che cambiano.
Il romanzo contiene dunque una stratificazione di tempi, luoghi e persone secondo un ordine che spiazza il lettore. Persino l’io narrante è parte di questa scrittura polifonica poiché varia nel genere, dal maschile al femminile, disorientando e costringendo chi legge a riposizionare un orizzonte d’attesa sempre nuovo. La stessa classificazione dell’opera non è consegnata al lettore come certezza: gli spazi bianchi che intercorrono tra le storie assomigliano alle pause della poesia più che a veri capitoli, rendendo la lettura frammentata, ma ricca di richiami interni che ne garantiscono l’integrità e la coesione.
Il ritorno, la figura paterna, il silenzio, la guerra, la verità, molte sono le parole e le espressioni che compaiono dall’inizio alla fine di questo centinaio di pagine con una doppia funzione narratologica e meditativa.
La scrittura, pur deragliando dai binari tradizionali, è misuratissima e ricca di richiami letterari, non si fatica a definirla a tratti lirica, ma ha la forte caratteristica di spaesare e coinvolgere il lettore, in un gioco attivo di comprensione e fatica intellettuale.
Iperbati, anacoluti e altre figure di posizione stravolgono la sintassi comune alla prosa, ma anche la morfologia accompagna questa operazione che in alcuni punti diventa mimesi del parlato.
Velio Abati scrive lanciando una sfida a sé stesso e a chi legge, studiando e ricercando a ritroso nei secoli, una lingua che contenga in sé la materia di cui parla.
ringrazio Carlotta Pais per come sia riuscita nel suo articolo ad evidenziare la grande complessità, e insieme semplicità, dell’opera di Velio Abati sia sotto l’aspetto narrativo che della lingua, lingue, messe in scena dall’autore…Un TEMPO di narrazione, e una LINGUA trsversali, oltre l’antropcentirso, quasi ad appellarsi ad una sorta di linguaggio vegetale, il manto verde che ha assicurato vita e continuità nei millenni a generazioni di contadini. Una memoria sopravvissuta sino a noi, occulta e radicata, dopo tanto di guerre, sfruttamento, tecnologie distruttive del corpo e della mente…Un patto dell’essere umano con la vita, a somiglianza e ad esempio delle piante…oltre le carestie, la fame, i lutti, le terribili ingiustizie dolorose…come quando in epoca tardo romana imperiale capitava che le famiglie dei contadini venissero smembrate per soddisfare le esigenze di nuovi padroni arrivati armati ad imporre la loro volontà, nonostante gli editti imperiali sentenziassero che con una nuova divisione dei possedimenti la famiglia del servo rimanesse unita…Eppure, vedi la forza trasmessa dalle erbe, dopo la grande tragedia dei lutti e degli abbandoni forzati, tutto poi ricominciava con la pulizia dei campi e la nuova semina intorno a nuovi nuclei familiari…In questo caso sono i nonni che raccontano alla nipote le terribili vicissitudini della loro famiglia in un linguaggio descrittivo di vecchi focolari e di culti sacri…