Il professor Franco Fortini (3)

di Ennio Abate

Gli episodi di vita scolastica raccolti in “Allora comincerò…” mostrano spesso lo stupore degli studenti per i comportamenti anticonformisti del professor Fortini: “eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse” (Romanò, pag. 17); “Il suo modo di far lezione è diverso da quello di tutti gli altri” (D’Angelo, 36); “non interrogava, quasi non dava voti, se non quando strettamente necessario” (Schicksup, 48); “ci aveva spiazzato subito: ci dava del “Lei” (mai successo prima), Ciaccio, 57); “esordisce con un cortese, ma perentorio “In piedi!””, Cameroni, 63). Che strano professore! Di sicuro apparve estraneo al senso comune degli studenti. E forse ancor più ai colleghi e alle colleghe, di cui, però, mancano nel libro testimonianze significative. Ma si potrebbero immaginare i commenti. Figurarsi, un “declassato”, uno arrivato all’insegnamento nelle scuole secondarie in modo imprevisto, tardi – a 47 anni –  e con alle spalle esperienze d’alto livello in altri campi (politica, industria, editoria), come ricordò lui stesso.i  Oggetto, dunque, di ammirazione e probabilmente di sospetto o d’invidia.
Per non fermarsi, però, alle impressioni superficiali  e non ridurre l’anticonformismo di Fortini ad una eccentricità della persona,  bisogna rimarcare che esso ebbe parecchio in comune con comportamenti altrettanto anticonformistici, che la ventata politica e culturale innovativa di quegli anni  diffuse  non solo nel mondo della scuola ma in tutti i settori della società italiana.
Partendo, infatti,  dal movimento studentesco nelle università,  che a Milano iniziò già alla fine del 1967, quella ribellione arrivò alle scuole secondarie superiori proprio tra ‘69 e ‘71, cioè negli anni in cui Fortini insegnò all’Istituto Tecnico per il Turismo di Milano. E  – prova ulteriore  del  vigore di quella ventata – si estese fino alle scuole medie inferiori e tra i maestri delle elementari. Producendo un fertilissmo linguaggio comune, in cui si mescolavano influssi vari: da quelli di Lettera a una professoressa di don Milani, a quelli delle sperimentazioni del Movimento di Cooperazione Educativa o delle pratiche del lavoro di gruppo  introdotte dal pedagogista Francesco De Bartolomeis.

Quella ventata Fortini insegnante la lesse e la espresse in modi più rigorosi e  suoi, proprio per la sua altissima consapevolezza di pensatore marxista, consolidata a partire dal secondo dopoguerra con la partecipazione a riviste come Il Politecnico, Ragionamenti, Quaderni Rossi Quaderni piacentini.
Pur condividendo e affiancando la ribellione dell'”anno degli studenti” (Rossanda), però,  Fortini si trovò in attrito con la piega che essa prese nei suoi settori “spontaneisti”.  E, come risulta dalle testimonianze di “Allora comincerò…”, agli studenti, in contrasto con le loro aspettative e il clima libertario diffuso, chiedeva il  rispetto delle regole scolastiche. In nome di una prospettiva che, secondo la sua visione, avrebbe  potuto erodere meglio e più in profondità il classismo dell’Istituzione scuola.
Non si trattò, dunque, di uno scontro esclusivamente generazionale, ma di una diversa interpretazione politica da parte di Fortini dei discorsi di cambiamento, di innovazione o di rivoluzione di quegli anni. Emblema e compedio di quelle diverse e contrastanti vedute sono due saggi – uno dello psicanalista Elvio Fachinelli, l’altro di Fortini – comparsi sulla rivista Quaderni piacentini
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Quell’epoca è oggi lontanissima. Per gli stessi ex giovani di allora, che la vissero e hanno  voluto ricordare e omaggiare il professor Franco Fortini con questo libro. Ed è quasi incomprensibile  ai lettori giovani, che forse sentono per la prima volta quel nome e ignorano  la storia di quegli anni o ne hanno un’immagine mitizzata (in bene o in male).

Una lettura o rilettura dei due saggi di Fachinelli e di Fortini potrebbe dare alle testimonianze di “Allora comincerò…” la chiarificatrice cornice storica che nel libro appena s’intravvede. E permetterebbe di cogliere più esattamente lo scontro che ci fu tra la cultura marxista (di Fortini e di altri) e quella liberale, libertaria e americanizzante (di Fachinelli e di altri). Fu la seconda a prevalere nel movimento degli studenti del ‘68 (eccetto alcune sue minoranze). E – a me pare – prevalga ancora oggi nelle testimonianze  di  questi ex studenti  e studentesse di Fortini.
Cosa vi traspare, infatti, di quel marxismo critico di Fortini ? Ben poco. Ci sono gli accenni di Lele  Panzeri a un Fortini “pericolosissimo intellettuale comunista” e “sempre così clamorosamente controcorrente” (pag. 83). Ci sono alcune tracce precise –  (forse  perché la testimonianza fu raccolta all’indomani della morte di Fortini?) – nei ricordi di Franco Romanò. Assieme alla leale dichiarazione delle resistenze o diffidenze (impolitiche o apolitiche) che ebbe nei confronti di Fortini. Resistenze e diffidenze ritornano, ad esempio, nelle pagine del romanzo di Lauretta D’Angelo,  quando allude allo sconcerto degli studenti che si chiedevano “cosa c’entrassero Che Guevara e Mao con la loro scuola” (pag. 38). E diventano  ostilità esplicita nel finale della testimonianza di Cinzia Gallia Schlicksup. Nelle sue parole è evidente la svalutazione disinvolta del marxista Fortini, al quale attribuisce generiche idee politiche liberal con “inclinazioni socialiste” (pag. 48). Quasi si trattasse di un antenato di Bernie Sanders! Sì, Cinzia Gallia Schliksup riconosce: “era un intellettuale coltissimo”. Ma neppure chiarisce se di destra o di sinistra, una differenza, oggi sfumata, ma decisiva in quegli anni. Altri insistono soprattutto sul fascino che emanava dalla lettura delle poesie fatta da Fortini, sulla sua recitazione attoriale, sul suo eloquio incontenibile, sui doni generosi dei suoi libri, sulle lezioni da lui tenute fuori da scuola alla sede Acli su Lukács (Massari). O tessono le lodi del Fortini “maestro di vita”.
Siamo allora di fronte all’immagine di “un Fortini di tutti” (come ci fu “un Gramsci di tutti”)? O ad un elogio anodino della sua “sconfinata cultura”? Non ne sono certo, ma lo temo.  Se non si è più in grado di tornare alla storia di quegli anni e rileggere i documenti sul clima di feroce tensione politica di allora, saremo in pochi a giudicare irridente o a non prendere alla leggera l’affermazione della ex studentessa Schlicksup: “le sue [di Fortini] idee molto all’avanguardia e non convenzionali dopo oltre mezzo secolo oggi mi fanno quasi sorridere” (pag. 49) .
Poiché vi colgo un sentimento di antipatia e quasi di rivalsa postuma (e non solo contro Fortini ma contro quanti parteciparono alle lotte di allora), mi sento di dirle a muso duro: Ridi, ridi, ma oltre mezzo secolo fa in Italia la mamma non fece gli gnocchi!  
Tuttavia, so che non basta indignarsi. Sono, anzi,  in tanti  – una nuova maggioranza! –  i soddisfatti della tabula rasa (e della repressione) che mandò a gambe all’aria non solo Fortini e il suo marxismo ma  tutto quel movimento innovatore e antagonista.  E so che a questo punto si deve passare doverosamente a fare i conti con la sconfitta.
La scuola italiana, divenuta finalmente di massa alla fine degli anni Sessanta, non fu mai riformata. Non divenne meno autoritaria e più democratice, come gli slogan del “Potere studentesco” auspicavano. Fu, invece, incanalata verso una falsa liberalizzazione e condotta al deperimento e ad una sorta di suicidio assistito. Che è poi stato decorato con le menzogne: l’ideologia dell’ ”assenza di ogni ideologia”, la “riforma” Gelmini,  la “buona scuola” renziana. E siamo alla scuola fantasma di oggi: “assediata da programmi eterodiretti, americanizzati, ad altissimo tasso ideologico, con una simultanea riduzione delle conoscenze a favore delle “competenze” (come l’ha fotografata giorni fa sulla sua pagina FB Andrea Zock).
Va detto che fu lo stesso Fortini, ancora vivente, ad avviare una riflessione sulla sconfitta in Insistenze (1985) e a continuarla con l’invito a “un buon uso delle rovine” (Extrema ratio, 1990). Senza, però, sorridere.  Si legga almeno la poesia  “Italia 1977-1993” in “Composita solvantur”. (E’ soltanto un  esempio e il testo si trova on line).
Della sconfitta  hanno poi  parlato quelli che con Fortini avevano collaborato: i redattori di Allegoria, Rossana Rossanda e tanti altri.
Nelle prossime puntate di questa mia riflessione riconsidererò, dunque, quel “teatro improvvisato“ sul quale Fortini davanti alla studentessa Cinzia Gallia Schlicksup e ad altri studenti “impietriti” recitava da “attore sulla scena” (pag. 47). Non trascurerò di dire cosa “recitava”,  perché e quali difficoltà abbiamo nel difendere quel suo lascito.

(continua)

 

Note

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“Nel 1963 dunque Fortini si trova disoccupato e in una situazione che è lui stesso a descrivere come piuttosto critica:Nel 1964, a quarantasette anni, sono stato licenziato quasi contempora­neamente da Olivetti e da Einaudi. Avevo debiti, una bambina piccolissima. È stato un brusco declassamento. Mi ricordai che molti anni prima avevo vinto un concorso come professore, feci la scuoletta a Lecco. Bene: se non avessi fatto quell’esperienza tremenda e positiva, non avrei capito nulla. Mi trovai a contatto di gomito con tanti giovani che si occultavano nell’insegnamento: era la generazione del 1968. Scoprii la bellezza di essere intellettuale-frate, non prete: fra Cristoforo, non il cardinale Borromeo.Fortini aveva vinto una cattedra in un concorso svoltosi nel 1943 ma vi aveva rinunciato appena appresa la notizia, quando era rien­trato a Milano dopo il periodo trascorso in Svizzera nel 1945. Chiede dunque di essere inserito in ruolo e dall’anno scolastico 1964-1965 gli viene affidato l’insegnamento della Letteratura italia­na e della Storia prima in un istituto di Lecco, poi a Monza e suc­cessivamente a Milano.(Lorenzo Tommasini, Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università, Quodlibet, nov. 2023 pag. 27)
ii
Cfr. Elvio Fachinelli, Il desiderio dissidente (Quaderni piacentini n.33 – febbraio 1968); Franco Fortini,  Il dissenso e l’autorità (Quaderni piacentini n. 34 – maggio 1968). Li ho studiati qui e qui.

5 pensieri su “Il professor Franco Fortini (3)

  1. Italia 1977-1993

    Hanno portato le tempie
    al colpo di martello
    la vena all’ ago
    la mente al niente.

    Per le nostre vie
    ancora rispondevano
    a pugno su gli elmetti.

    O imparavano nelle cantine
    come il polso può resistere
    allo scatto
    dello sparo.

    Compagni.

    Non andate così.

    Ma voi senza parlare
    mi rispondete: «Non ricordi
    quel ragazzo sfregiato
    la sera dell’undici marzo 1971
    che correva gridando
    “Cercate di capire
    questa sera ci ammazzano
    cercate di
    capire!”

    La gente alle finestre
    applaudiva la polizia
    e urlava: “Ammazzateli tutti!”

    Non ti ricordi?»

    Si, mi ricordo.

    (F. Fortini, in “Composita solvantur”, Einaudi, Torino1994)

  2. Un’osservazione: la cultura ‘liberale, libertaria, americanizzante’ che ‘prevaleva nel movimento del ’68 rispetto a quella marxista…Non mi risulta, anzi.
    A Milano le prime manifestazioni sono negli anni ’60 contro la guerra in Vietnam: alcune con scontri violenti (imparai allora a portare l’ombrello alle manifestazioni, che fu puntandolo agli autisti che in diversi casi ci salvammo dalle camionette del 3° celere che ci inseguivano sui marciapiedi), altre di massa e pacifiche, come quella di centomila con alla testa il pellerossa che era comparso a fianco di Jack Nicholson nel film ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’): gli USA non erano certo benvoluti; e l’antiimperialismo-che stava diventando caratteristica unificante del movimento (tanto che Don Giussani chiamò il suo movimento Comunione e Liberazione con gesuitico opportunismo) – era corrosivo anche contro molti altri aspetti della cultura statunitense; parlare di americanismo, liberismo mi pare fuori luogo e non saprei che base ha.
    Alle origini del Movimento c’era una componente originaria dei Quaderni Rossi che fu la più ideologicamente attiva nel proporre gli studenti come forza-lavoro in fase di formazione ma anche nella prassi: quando dopo il congresso Unuri di Rimini in cui venne sconfitta grazie alle classiche truffe elettorali (delegazioni favorevoli non accreditate, voti fascisti comprati e usati contro) fummo noi a creare la ‘corrente Attila’ che uscì dalla logica parlamentare e lanciò l’attività di massa; il che a Milano si tradusse nella riforma dello statuto della rappresentanza studentesca che creò le assemblee di facoltà come organo deliberativo, e con questo dava il via all’autodeterminazione degli studenti (analoghe a quello che i QR avevano teorizzato con l’assemblea operaia) che poi sfociò nelle interminabili assemblee di occupazione. Mentre a Pisa l’occupazione della Sapienza produceva (scritte da Vittorio Campione, già QR) le famose tesi operaiste. In tutto il variegato tessuto del Movimento studentesco elemento comune era proprio il marxismo: non certo quello puro, e neppure quello interpretato dai QR, ma tutte le varietà possibili, dal prevalente maoismo di tutte le sfumature al rinato trotskismo. (Ricordiamo che anche nel gruppo che si chiamava Movimento Studentesco, a parte i megafoni fuoriusciti dalla Cattolica che potevano avere inclinazioni più generiche e libertarie, l’ideologo era Toscano, Psiuppino doc).
    E non solo se guardiamo tutti i gruppi ma anche a livello di massa l’elemento unificante era tutt’altro che liberista.
    E anche nelle scuole, tecniche e professionali oltre che licei, c’era piuttosto uno spontaneismo operaista e genericamente anticapitalista..ma di americanismo non ho mai sentito l’odore

  3. Un’osservazione: la cultura ‘liberale, libertaria, americanizzante’ che ‘prevaleva nel movimento del ’68 rispetto a quella marxista…Non mi risulta, anzi. “ (Di Marco)

    Per la precisione ho scritto: “Fu la seconda a prevalere nel movimento degli studenti del ‘68 (eccetto alcune sue minoranze).”. E riferendomi soprattutto al confronto/scontro Fachinelli-Fortini. (Forse avrei dovuto precisare che col termine ‘americanizzazione’ intendevo riferirmi proprio all’ideologia ‘Movement’ che caratterizzò quello studentsco statunitense e che potrebbe avvicinarsi a quel che tu hai chiamato “spontaneismo operaista e genericamente anticapitalista”).
    Nei vari gruppi dirigenti che si formarono (in fase ascendente) è vero che “ il variegato tessuto del Movimento studentesco [ebbe come] elemento comune […] proprio il marxismo [in] tutte le varietà possibili, dal prevalente maoismo di tutte le sfumature al rinato trotskismo”, ma eclettismo e scolasticismo furono pesanti freni e non argini per potenziare il movimento. E quando esso calò, i gruppi extraparlamentari che se ne spartirono le spoglie recitarono un marxismo ancora più irrigidito o annacquato. Penso al populismo di Lotta Continua ma si dovrebbe ricordare anche – intorno al 1975-76 – Re nudo, Parco Lambro, etc.)
    Altrimenti come spiegare il “riflusso”? Solo con la repressione?
    Non ricordo più il nome dell’autore – (mi pare francese) -ma intorno agli anni ‘80 era uscito un libro intitolato “Il marxismo inesistente”, recensito da Attilio Mangano forse sulla rivista di Democrazia proletaria che analizzava proprio i limiti di quella “vulgata”.

    P.s.
    Per tornare a scavare su quegli anni potrebbe essere utile visionare almeno alcune di queste conferenze della Fondazione Micheletti di Brescia: https://www.fondazionemicheletti.eu/sessantotto/

  4. Mi sembra che nella sostanza ci sia accordo.
    Se volessimo fare un’orazione funebre sul 68 lo stile che preferirei sarebbe quello di Augusto sul corpo di Cesare: un’incitazione a creare un nuovo ordine (magari stavolta non imperiale). Solo che prima converrebbe mettere in luce gli elementi di quello che tu chiami riflusso, e che forse sono anche alla base del fatto che dopo i Quaderni Rossi Fortini non assumesse più ruoli politici.
    Il primo e determinante è il ruolo del PCI, convitato di pietra di tutti i gruppi dirigenti della sinistra extraparlamentare e, visto col senno di poi, anche loro pietra tombale, nonchè delle loro speranze ingenue.
    Il secondo. e questo è un errore collettivo, è la povertà dell’elaborazione teorica: non tanto in quanto fatto materiale dato che molti sono gli elementi e contributi sviluppati in quegli anni, sia sul versante operaista che su quello terzomondista, quanto sulla capacità di operare un sintesi alta che potesse essere anche guida alla prassi. Laddove allora ne nascevano soprattutto slogan.E qui la cecità politica della separazione in gruppi si rifletteva in una incapacità di elaborazione teorica efficace.

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