di Ezio Partesana
Il contenuto politico della scrittura non coincide con il contenuto materiale anche se, quando accade, il problema è risolto; il dubbio resta per quei testi che parlano d’altro, dal timbro lirico o personale. Se ogni forma è un contenuto storico sedimentato, tuttavia non si può rispondere alla domanda di ordine sociale, se un componimento sia o meno “politico”, limitandosi alla ricostruzione interne delle sue ereditate forme; scrivere sonetti nell’età contemporanea, per esempio, è certo una scelta di opposizione e distanza dal poetare di tutti e chiunque, ma si possono scrivere quartine e terzine anche dicendo sciocchezze reazionarie. L’opposizione tra sentimento privato dell’esistenza e impegno civile è appunto una opposizione e in quanto tale non genera nulla; si prende partito, uno tra i disponibili, e se ne rivendicano le ragioni come in sogno di fronte a un giudizio universale. L’astrazione del recente discutere sul tema nasce da questo: dall’ipotesi che ogni individuo sia libero di scrivere, e leggere, quello che vuole, l’illusione cioè che la lingua sia una forma inerte e pura della quale ci si può servire (o a lei ubbidire, a seconda) affinché questa o quella cosa vengano dette. Si dimentica volentieri, insomma, che la trama e le parole, il ritmo e il nome, sono prodotti collettivi di una struttura sociale che nasconde le contraddizioni anche con il linguaggio, e i suoi derivati prodotti. Non si può dire tutto, in fine, non solo perché le condizioni di chi ascolta sono controllate dal lavoro, dall’educazione, dall’etnia, e via dicendo, ma anche perché la scrittura (o il disegno, o la musica) è soggetta alla stessa ideologia entro la quale vivono gli uomini. Però si può sedurre e mentire, vale a dire escogitare una lingua che, in obbligato e apparente ossequio allo stato di cose, lasci però l’amaro in bocca del “non dovrebbe essere così”; una poesia (nel senso più ampio possibile del termine) che avveleni i pozzi del dominio scherzando con le pozzanghere. La mia modesta risposta alla domanda su quale sia una scrittura politica è dunque questa: chi dice la verità in un mondo di menzogna è sempre rivoluzionario.
Che vuol dire: dire la verità?
Descrivere?
Riflettere?
Criticare?
Approfondire?
L’amaro in bocca, quello, lo suscita lo specchio. La verità, quindi, va oltre: è in rapporto. La risposta ne fa parte.
Ogni disvelamento dell’ideologia contemporanea è una verità.
Mi dispiace per Heidegger, ma aveva ragione Marcuse.
Una possibile “vecchia” risposta alla domanda “Che vuol dire: dire la verità?”
Ennio Abate
Sulle «Cinque difficoltà
per chi scrive la verità»
di B. Brecht
https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/11/ennio-abate-sulle-cinque-difficolta-per.html
Credo semplicemente che più una poesia sia lontana dalla politica comunemente intesa (come ideologie ecc.), più sia politica.
Per dire la verità credo che vada prima cercata tra le tante possibili e oltre tutta la mistificazione del contemporaneo. Il rischio che una volta “trovata” e detta non la si voglia più discutere senz’altro c’è ma mi pare minore al rischio di non cercarla più.
Certo è più comodo neanche intraprendere questo percorso, come fa buona parte della poesia presente.
Non capisco il “tra le tante possibili”; vorrebbe spiegarmelo, per favore?
APPUNTO 1
Rileggendo: “escogitare una lingua che, in obbligato e apparente ossequio allo stato di cose, lasci però l’amaro in bocca del “non dovrebbe essere così”; una poesia (nel senso più ampio possibile del termine) che avveleni i pozzi del dominio scherzando con le pozzanghere” (Partesana)
E quali sono oggi i “pozzi del dominio”?
La domanda, caro Ennio, contiene un po’ di ironia, come quelle su cosa siano la libertà o la verità. Ma ti rispondo lo stesso indicando nel nostro ambito le politiche culturali e i mezzi di comunicazione. Ecco, trovare gli “affluenti” di quei fiumi e “avvelenarli” non sarebbe tra le ultime cose da fare.
No, più che ironia è preoccupazione. Perché, quando dal linguaggio metaforico (pozzi, affluenti, ecc) si deve passare ad indicare i nomi, quelli che gli altri pronunciano come ovvi o magari adorano, c’è da sgomentarsi.
Faccio un esempio: potrei indicare come “pozzo del dominio” Facebook.
Come – e non c’è ironia nella domanda – facciamo ad “avvelenarlo”?
Andando, per esempio, in direzione contraria (come già alcuni fanno): Facebook vuole emozioni? Postare solo fredda logica; vuole schieramenti? Criticare per prima cosa la propria “parte”, etc.
E mi pare, detto tra noi, che anche tu lo stia facendo.
Ricordo che Franco Fortini aveva scritto, quelque part, che anche una poesia che parli degli uccelletti del bosco in realtà parla di qualcos’altro. Questo (anche) per dire che il confine tra lenunciato lirico del poeta, appartenente alla sfera soggettiva, e enunciato sociale, “politico” (magari inconsapevole) è molto labile, difficile da tracciare quantomeno in modo definitivo. C’è sempre una prima persona plurale “nascosta” in quella singolare del soggetto lirico.
Credo, ma non sono un esperto, che Fortini si riferisse al contenuto storico delle forme liriche, non a un generico “noi” implicito in ogni “io” (cosa che pure ha il suo contenuto di verità). Se avessero tempo credo che Ennio o Donato potrebbero illuminarci.
Un saluto.
Sì, Fortini non parlava del “noi”, il “noi” appartiene a un mio rimuginio. Saluto contraccambiato.
APPUNTO 2
“si può sedurre e mentire, vale a dire escogitare una lingua che, in obbligato e apparente ossequio allo stato di cose, lasci però l’amaro in bocca del “non dovrebbe essere così” (Partesana)
Anche in questo Appunto 2 devo fare la domanda: quale lingua?
Proprio ieri rileggevo l’inizio de “Le parole della promessa” di Lenzini nel Meridiano dedicato a Fortini, Saggi ed epigrammi.
Vi si parla – e siamo dopo la caduta del fascismo – di uno scritto di Fortini “Il silenzio
d’Italia”(1944) dove si parlava della lingua come “strumento della ricerca dei propri compagni” e di una “lingua comune d’Italia” che vede “in prima fila” nella sua costruzione “gli intellettuali”.
Bella suggestione ancora oggi? Anche dopo i tanti fallimenti che ci sono stati?
Consenti una risposta in forma di citazione?
Ich sitze am Straßenrand
Der Fahrer wechselt das Rad.
Ich bin nicht gern, wo ich herkomme.
Ich bin nicht gern, wo ich hinfahre.
Warum sehe ich den Radwechsel
Mit Ungeduld?
Siedo sul ciglio della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non mi piace da dove vengo.
Non mi piace dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?
Se una pulce
cammina sulla schiena di una capra
che viene trasportata su un camion
che sale su una nave
che la porta in America
che percorso ha fatto la pulce?
APPUNTO 3
Lo vogliamo approfondire questo discorso su poesia e politica (oggi) avviato da Ezio Partesana?
Se sì, mi aspetto interventi meditati e non indovinelli o risposte enigmatiche alle domande che ho posto dopo averlo riletto il suo intervento. Le ho poste non per ironizzare ma, appunto, per ricominciare a discuterne, visto che è una vecchia questione.
Da parte mia l’avevo ripresa, da solo, riscrivendo un vecchio articolo su Poliscritture del 2017 ( manca un’ultima puntata ancora in bozze) qui:
https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/06/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano.html
https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/06/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano_28.html
https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/07/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano.html
https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/07/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano_15.html
https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/07/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano_19.html
Tutto sta a vedere se i pezzi miei o di altri – vecchi o nuovi – possono dialogare in qualche modo tra loro, arricchirsi e diventare una seria discussione. O se si respingono. In questo caso lasciamo perdere.
Ennio, fai uno sforzo e riassumi i tuoi interventi in una posizione unica, per favore.
Alla discussione sono disponibile, al calembour come tu stesso scrivi un po’ meno.
Calembour? Boh.
Il riassunto dei 5 interventi linkati?
E’ nell’ultimo pezzo e lo copio qui:
Una correzione s’impone. A me stesso e agli altri poeti. Per tentare, tolti il doppio filtro o i paraocchi sia della “poesia autentica” e sia della “poesia impegnata”, una poesia capace di immaginarsi in posizione estrema. Com’è quella – purtroppo realissima – dei civili bombardati. I poeti, cioè, per pensare la guerra devono fare i conti con quelli che la guerra la fanno. Devono almeno immaginare di doversi presentare davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e banchieri che impassibili si servono di costoro e traggono vantaggi dalle guerre. Devono, cioè, rifiutare prima di tutto di imboccare la via facile e abusata: quella dov’è ancora possibile praticare una poesia che in fin dei conti si rivolge esclusivamente agli inesperti della guerra, ai pacifisti “naturali”, ai tantissimi esorcisti “spontanei” che la guerra non la vogliono né vedere né pensare.
Per il momento risponderei così: I poeti per pensare la guerra devono, innanzi tutto, venire in chiaro con le parole che si usano per dire la guerra, e subito dopo cercare le fonti, visibili e meno, di quei nomi.
Proviamoci. Qualche esempio non guasterebbe.
Potremmo cominciare con “guerra” e con una domanda: non ti sembra fastidioso la continua lamentazione sulla violenza dei conflitti armati come se dovesse esistere una sorta di guerra “pulita”, dove non muore nessuno e niente è distrutto?
A me la “lamentazione sulla violenza dei conflitti armati” delle vittime dirette mi pare più che giustificata. E quella, magari più ipocrita, delle vittime potenziali (noi tutti, mi pare) che temono rischi futuri la ritengo tollerabile, perché di per sé non fa i danni irreparabili che, invece, fanno tutti quelli che scelgono di fare la guerra e la possono fare perché potenti e armatissimi.
Si è sempre pensato – almeno finché una qualche memoria del movimento operaio è rimasta – che era la rivoluzione a poter fermare la guerra (o le guerre).
Ora che tutti la stanno legittimando come necessaria ( Si veda oggi Sofri: https://www.facebook.com/conversazioneconadrianosofri/posts/pfbid02vgu8k9HtqMG8foh9kzbaVP28oguaSXvrCAUHvycEe4SC9rQgFPFjRp7UqR4k5ou2l), dovremmo ridurci a polemizzare con chi pensa – ingenuamente o furbescamente – che ci siano delle guerre “pulite”?
Ennio, rispondi a una domanda che non ti è stata posta, o almeno non da me. E per dire tutto, tra criticare l’impiego ideologico dei concetti usati per descrivere una guerra e “ridursi a polemizzare” passa una differenza enorme; come dire che Lu Hsun si era ridotto a polemizzare contro i codini.
Per cui ti ripeto la domanda: vedi o no un’alleanza strategica tra la giustificazione della guerra e le emozionanti lacrime versate addosso a tutti sui “terribili effetti del conflitto in corso”, con inevitabile primo piano di donne e bambini?
Quella è la mia risposta. Rispondi tu ora alla stessa domanda che hai posto (anche a te stesso, credo). O aspettiamo che altri rispondano.
ci provo a rispondere: perchè cercare di inquinare scelte e posizioni ben precise sulla guerra, razionali ed emotive insieme, per cui un pensiero semplice, non semlicistico, sui “terribili effetti del conflitto in corso” con inevitabile primo piano di donne e bambini” deve essere per forza cosiderato ‘pacifinto’ e non a favore della pace? Con la circolazione di armi sempre più potenti e di distruzione di massa come sperare di affidare a loro il nostro destino anche solo di sopravvivenza? E con l’odio e il razzismo che ormai agiscono come una catena di rimandi senza fine? E’ retorica pensare alle vittime piû giovani, di certo innocenti, dei conflitti? Se poi si vuole spostare il discorso su un piano speculativo-astratto per cui è vero tutto e il contrario di tutto, questo mi sembra solo un esercizio di retorica sofistica…
Il sofista Gorgia discuteva con il sofista Socrate sulla importanza dei nomi e sul potere delle parole di cambiare il ragionamento etico e politico degli uomini. È il reazionario (diremmo oggi) Callicle a sostenere l’inutilità della critica di fronte al potere. Ai tempi nostri, che oggi sembrano così distanti, Brecht scrisse che non basta protestare contro le ingiustizie per avere una “buona” voce. Perché noi dovremmo lasciar perdere la sofistica a favore della commozione, e dell’indice delle vendite?
@ Ezio
Il tuo mi pare un gioco a rimpiattino. Non dici mai cosa pensi tu sulle domande che poni.
Ennio, mi sembra evidente che io consideri la “critica dei nomi” una questione fondamentale. Ne ho scritto e discusso in passato e, per quanto mi riuscirà continuerò a farlo nel presente. Che cosa non ti è chiaro?
L’ho scritto e ripetuto: che in questo possibile avvio di discussione su poesia e politica ” non dici mai cosa pensi tu sulle domande che poni” ( o che hai posto sopra: “Ezio Partesana 20 Settembre 2024 alle 6:42”). Né trovi soddisfacenti le risposte che io ho dato. E, allora, che dialogo è mai possibile? Io preferirei che chi, in un dialogo, pone una domanda, alla quale secondo lui gli altri non rispondono, mostri lui quale sia invece la risposta.
Forse sono io che non capisco; dovrei porre una questione e poi dare anche la risposta per vedere l’effetto che fa? E questo sarebbe un vero dialogo? Io a volte pongo delle domande, sta ai compagni (sigh) decidere se hanno senso e rispondere. Per parte mia credo di avere sufficientemente esposto le mie riflessioni (non mi piace citare me stesso, ma ci sono anche diversi testi in circolazione). Che altro dovrei fare: dialogare con me stesso?
SEGNALAZIONE
Emanuele Zinato, Su Jameson
Jameson ha messo a fuoco le categorie fondanti della logica culturale tardocapitalista, incentrate sulla liquidazione di elementi della cultura moderna:
1. Scomparsa della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh, pittore modernista, richiedevano un atto interpretativo, le scarpe da ballerina di Warhol, assunte come icona dell’arte postmoderna, restano superficiali, “non ci parlano affatto” e si configurano come oggetti feticisti.
2. Scomparsa della storicità: alla fine del Novecento la memoria si è indebolita e i grandi memorialisti sono una specie estinta. Insieme a tutte le altre forme di autorità, l’autorità del passato si estingue.
3. Scomparsa dello stile individuale: i soli “soggetti” visibili nel postmodernismo sono i media e il mercato.
La sua morte ci impone un bilancio radicale del suo e del nostro tragitto. Una riflessione impietosa sulla nostra impotenza e sui nostri destini di docenti: l’università è mutata a fondo e l’acquario dei campus, che ha concesso al neomarxismo accademico una mera sopravvivenza culturale, ha cambiato il suo linguaggio e le forme del suo potere. Ciò che la destra occidentale chiama oggi “cultural marxism” (quello che da noi si direbbe goffamente il “politicamente corretto”) ha poco a che vedere con il modello di Jameson: del resto, nella riproduzione dei saperi, è bandita sia la dialettica come strumento di smascheramento che l’implicazione concretamente materiale, politica e economica, della critica marxista. Dopo esserci baloccati con un concetto volgare e ilare di postmodernismo – che è stato il fondamento dell’impotenza riflessiva e del realismo capitalista – ora nel nostro lavoro universitario possiamo al massimo trastullarci con il Queer o con il Green nelle caselle della valutazione o dei progetti di ricerca formattati, per ricevere per i nostri “prodotti” qualche briciola di finanziamento sotto il cappello dell’”inclusività”.
Credo che il più famoso motto di Jameson (We cannot not periodize) vada ereditato così: alla luce della storia dei conflitti, novecenteschi e attuali, non si può più alludere all’utopia nell’atto stesso di smentirla. Se nel mondo segnato dal ritorno della guerra globale e dal disastro climatico l’inconscio politico egemone vieta di immaginare delle alternative al capitalismo globale, dobbiamo superare questo scacco e storicizzare la nostra impotenza, nella sola forma possibile: quella di una diserzione organizzata.
(https://laletteraturaenoi.it/2024/09/24/su-jameson/?fbclid=IwY2xjawFfQm9leHRuA2FlbQIxMAABHXH7pdNloZznz8tDPXGWrde-rYMjT-_t4aFeNzEmyhFrIFVzzNz3qTtL7w_aem_7oI4yVZR8koXtOR3xMpvZA)
P.s.
Da mettere a confronto con Roberto Fineschi,
L’onda lunga della crisi del marxismo (tra prassi e teoria)
https://www.dialetticaefilosofia.it/files/3_R.-Fineschi,-L-onda-lunga-della-crisi.pdf?fbclid=IwY2xjawFfRqdleHRuA2FlbQIxMAABHVWSf5XTsNOa5EH3Hy826LLQZgp4iSPkp8Us-8V5wcnlpDJzpDDVQl6jKg_aem_IX8bySxpfQcmg9hyfrczng
Breve ma corretto riassunto, andrebbe forse integrato con la parte più filosofica degli scritti di Jameson (e no, non lo farò io).
Per far sorridere l’amico Ennio aggiungo che fu merito del comune maestro Fortini il mio incontro con “Marxismo e forma”.