Una lettera del 2001 a Renato Solmi


Riordinadiario 2001/ Lavorando a “Il professor Franco Fortini”

di Ennio Abate

La lettura di “Allora comincerò…”, di cui sto dando un resoconto a puntate,  mi ha rimandato a persone e temi riguardanti il ’68, la scuola e la mia stessa esperienza di insegnante nelle secondarie superiori. E, perciò,  ho deciso di affiancare al  discorso  che sto facendo su “Il professor Franco Fortini” alcuni documenti che mi sembrano ad esso complementari. Comincio da questi due, presi dal materiale del mio (purtroppo breve) carteggio con Renato Solmi: una mia lettera a lui del 16/22 febbraio 2001 e, in Appendice, la sua risposta del 24 febbraio 2001.

Cologno M. 16/22 febbraio 2001

Caro Solmi,

ti ringrazio ancora per l’attenzione fraterna che hai prestato ai miei scritti. Conoscendoti finora, solo per fama, come studioso serio e in contatto con personalità, alle quali ho molto guardato per regolare il passo della mia militanza intellettuale, sono contento per gli apprezzamenti contenuti nella tua lettera, ma soprattutto per il rapporto di scambio e di amicizia che mi offri.
Certo, le nostre esperienze scolastiche e politiche sono state diverse – (lascia perdere la misura delle loro autenticità!) – ma non lontanissime. E si tratta di vedere adesso se, sulla questione cruciale del che fare nella situazione presente in cui vorremmo entrambi civilmente operare, sarà possibile trovare delle convergenze anche limitate  tra noi.
Ripercorrerò, perciò, la tua lettera, fermandomi soprattutto su due punti per me centrali: la passata esperienza nella scuola e la possibilità di  rendere concreta la mia scelta esodante.

1. Non credo che il tuo impegno nella scuola “in una prospettiva riformistica e unanimistica” sia stato peggiore del mio. Lo dico perché convinto che riformisti e rivoluzionari “sinceri” (come si diceva una volta) siano da considerarsi fratellastri spesso litiganti  ma inevitabilmente accomunati dalla ricerca di una soluzione agli stessi problemi reali.
Oggi poi siamo tutti all’angolo come pugili suonati; e sarebbe penoso rinfacciarci colpe o abbandonarci a nostalgie. Per parte mia, devo dirti che, persino nel periodo caldo della contestazione, da me vissuta senza eccessivi toni giovanilistici (anch’io sono entrato relativamente tardi nella scuola, ero già padre di due bimbi, ecc.), sono stato attento alle esperienze di un riformismo pragmatico, non lontano credo da quello da te praticato negli anni d’insegnamento.
Non c’erano solo le letture di quegli anni (Quaderni piacentini, Argomenti umani di Fortini e Vegezzi, De Bartolomeis, testi del MCE) a spingermi verso un “rivoluzionarismo concreto” praticabile sul posto di lavoro, cioè senza saltare le questioni dei saperi specifici e delle didattiche, ma il contatto diretto, per me vincolante, con i bisogni culturali degli studenti. Da qui una “fratellanza agonistica” con molti colleghi anche iscritti al PCI “revisionista” e dichiaratamente “riformisti”.
Non credo, dunque, di essere stato mai uno di quei “rivoluzionari” che disprezzavano l’ipotesi di un “allargamento della democrazia”, misurando (e squalificando) questo obiettivo per una preconcetta idea di comunismo “totale”.
Ho cercato, invece, di star dietro alle pieghe contorte di un agire storico-quotidiano. E, proprio come te, anche per autodifesa, per sopravvivere al peso logorante della
routine scolastica. Ma – qui forse la diversità delle nostre esperienze – ho sempre sentito a fior di pelle che quel riformismo, anche generoso e spesso più “realistico” della mia esigente passione critica, “arrivava al sodo” troppo presto. E lo faceva annacquando certi suoi assunti anticapitalistici, sottovalutando il peso della burocrazia, sopravvalutando i suoi programmi: belli e giusti, ma solo in sé, cioè sempre troppo decontestualizzati dai conflitti sociali allora più netti e impellenti di oggi.
La prossimità, perciò, fra un certo riformismo e una certa ottica rivoluzionaria stava per me solo nella “pratica concreta” (così si diceva allora). Soltanto in essa i “fratellastri” avrebbero potuto fare più di quello che pensavano nella purezza delle loro  teorie. E, attorno al ‘68-’69, questa possibilità di un
salto pratico a me pareva che potesse davvero emergere dalle nebbie ideologiche (sia riformiste che rivoluzionarie). E, invece, fu in parte cancellata per complesse ragioni che qui non tocco; e in parte si dileguò a causa dei problemi nuovi venuti alla luce in seguito allo svelamento di quella possibilità.
Ho sviluppato  in una corrispondenza polemica con Romano Luperini, che col tempo spero di farti leggere, il discorso sugli insegnanti, che avrebbero dovuto – come tu  scrivi – rafforzare con il loro impegno e la loro intelligenza le “disposizioni [ministeriali credo, che] si muovevano, nonostante tutto, in una direzione sostanzialmente (o, per dir meglio, potenzialmente) valida”.
Il discorso è complicato. Mi chiedo, però,  chi se la sente  di insistere ad attribuirgli  – oggi  e a tavolino – la gramsciana funzione di produttori di un’egemonia culturale di massa?
Temo che si stiano trascurando alcuni fenomeni che oggi  sono ancora più determinanti di ieri. Ad esempio,  lo spappolamento ulteriore dei docenti, corporazione debole che ministro e sindacati coltivano e controllano a suon di gerarchie meritocratiche di facciata. O l’eclisse di un Partito rielaboratore e sostenitore di quell’egemonia (e  la cui esistenza  avrebbe senso solo in una prospettiva rinnovatrice, se non rivoluzionaria, dell’intera società e non solo della sua scuola).
Non mi pare un caso, infatti, che gli insegnanti aderiscano (in genere) a spinte egemoniche di  taglio ben diverso da quello da noi sperato. E  tu stesso hai  ben presente  la debolezza politica della categoria, se consideri “premessa indispensabile di tutto il resto” lo sviluppo di “un movimento di base” paragonabile a quello degli anni ’60 e ’70, che  fu forte perché non fu composto soltanto o soprattutto da insegnanti.
Ora, malgrado qualche effimera apparizione, più massmediale che altro, della Pantera, movimenti favorevoli a proposte di vero rinnovamento non ce ne sono più stati. E siamo tutti costretti a ragionare in loro assenza e in presenza, invece ,di invadenti e limacciosi movimenti che appoggiano quasi spontaneamente posizioni che negano tutta la nostra passata esperienza di lotta (riformistica o rivoluzionaria che fosse), anzi della stessa storia della modernità.
Quindi, pur confermandoti il mio appoggio all’iniziativa da te abbozzata nei fogli che mi hai mandato tramite Edoarda [Masi], rifletterei più a fondo sul senso  che oggi potrebbe avere. Ne calibrerei, ad esempio, il taglio generosamente “enciclopedico”, adatto più ad epoche di rinnovamento che non di imbarbarimento come questa; e non mi illuderei sugli spazi istituzionali utilizzabili, ormai raramenti concessi alla cultura critica, considerata “vecchia” dai potenti fautori dell’aziendalizzazione della scuola. (Ma per il momento congelo la mia valutazione in attesa di un tuo inquadramento più organico della proposta di cooperativa). 

2. A proposito dei miei due ultimi scritti, non so come e se rassicurarti sul fatto che la mia posizione esodante non precluda “la possibilità di un’azione comune con altre forze”. Ci sono accenti diversi fra me e te su quali siano queste “altre forze” (politiche) e voglio essere schietto.
Sento la preoccupazione politica che ti morde, ma non riesco a condividerla del tutto. Non so se tu ti senta (o sei realmente) ancora all’interno di una “grande famiglia politica”(la Sinistra o quel che ne resta), dilaniata da beghe intestine penose, incrudelitesi negli anni, ma ricomponibili secondo te di fronte ad una unica e incombente minaccia. (Mi viene in mente il Leopardi de La ginestra1). Ma quando la minaccia è diventata realtà?
A me pare sbagliato ridimensionare il disastro già compiutosi e
dall’interno stesso della Sinistra.
Il modello di risposta che proponi (“un’iniziativa popolare diretta, che dovrebbe avere, di per se stessa, l’effetto di alimentare e di sviluppare un movimento di protesta dal basso”) mi pare in continuità con una idealizzata tradizione politica moderna (Penso al Risorgimento, alla Resistenza.. ). Ma ti confesso che quel modello non riesco più a sentirlo mio. Una cesura c’è stata (a me pare negli anni ’70…); e, se non viene debitamente
ripensata, facendo dei conti non improvvisati con molte retoriche polverose dimostratesi vacue di fronte ad aggressivi e ormai trionfanti revisionismi storici2, rischiamo di accodarci – e contingentemente – al peggio di quel che resta di una Sinistra che ci ha già portati alla rovina.
Su questo problema mi pare di cogliere un tuo “riflesso condizionato”, un’oscillazione fra “movimentismo” e legame con la tradizione (antifascista, resistenziale) della Sinistra. Infatti, riconosci che “la situazione odierna (del nostro paese e non solo) è terribilmente deteriorata rispetto a quel momento di sette, sei o cinque anni fa” e che lo schieramento politico di centro sinistra alla cui insufficienze si dovrebbe “sopperire” ha effettivamente “dilapidato” – è il termine giusto a cui non aggiungerei l’attenuazione (“o compromesso in modo gravissimo”) – “il suo patrimonio storico e ideale, e perciò, in definitiva, la sua unità, e che non è, quindi, più in grado di contrapporsi con successo alla minaccia che ha lasciato crescere”.
E allora? Come puoi pensare ad una risposta
immediata e politica ad una catastrofe del genere? Se Troia è invasa e sta già bruciando, dove trovare – (a sinistra o nel centro sinistra?) – un Ettore per una strategia che – nella tua ottica – dovrebbe essere ancora di resistenza? (Qui – permettimi la battuta esodista – non si può essere forse che degli Enea!).
D’altro canto, vedo che le delusioni arrivate “da sinistra” hanno “lavorato” anche te. E allora emerge il secondo aspetto: quando non ti aspetti più niente dai partiti, sogni un movimento dal basso, una sorta di nuovo ’68, capace di “iniziative concrete, che scavalchino i partiti e le forse tradizionali della sinistra, e le mettano di fronte alle loro responsabilità”.
La storia, però, non si ripete. Ai movimenti non si dà vita per volontà nostra. (Non si dava loro vita neppure quando c’era un vero Partito capace di egemonia). Semmai, ad essi si partecipa col bagaglio più o meno aggiornato e riaggiustato delle esperienze fatte, sperando di poterle accostare fruttuosamente a quegli elementi di novità imprevedibili che ogni vero movimento di solito porta con sé.
L’esodo, così come io l’ho inteso – (e lascio da parte le suggestioni che mi possono essere venute dalle mie letture di Negri, che non ho avuto davvero modo di valutare a fondo, se non nella mia solitaria testa; e su di esse, perciò, non metto la mano sul fuoco…)- nasce proprio dalla presa d’atto che alleati disponibili a “resistere” non se ne trovano, se non nella catafratta, ambigua e impacciata Rifondazione Comunista. Il resto (DS, Verdi, ecc.) è stato fagocitato pienamente dall’ideologia liberista; e, a parlare con qualcuno dei loro, afferri subito che non solo non considerano una sconfitta quel che è avvenuto  e non vedono nessuno dei disastri combinati, ma si gloriano delle loro scelte e condividono in pieno stili di vita e di pensiero e valori dei concorrenti  (non più nemici) nello stesso Gioco. Ne accettano quasi tutte le premesse e se ne distinguono non per programmi o “valori”, ma solo sulla pretesa di chi debba governare.
Troverei, comunque, ancora accettabile (riguardo al primo polo della tua oscillazione) tentare di trascinare tutto quanto di vivo permane nella residua Sinistra o nel mondo cattolico non wojtylano. Tuttavia, il terreno legale, su cui ti proponi di muovere, è davvero pieno trabocchetti; e il nemico che tu individui non mi pare davvero quello “principale”. C’è, insomma, troppa coincidenza fra il tuo antiberlusconismo e la polemica diessina contro Berlusconi. (Proprio in questi giorni D’Alema al convegno del Viesseux ha rispolverato l’equazione Berlusconi=Mussolini, che ha la stessa inconsistenza storica dell’accusa di Berlusconi, secondo il quale la sinistra d’oggi sarebbe “comunista”).
Ora non vedo che autonomia di pensiero ci sarebbe in una proposta di legge popolare che attaccasse solo l’
impero berlusconiano? Parrebbe una trovata dello schieramento di Rutelli. E correrebbe il rischio di fare da semplice supporto alla sua ambizione di governo, che appare degna di stare in primo piano soltanto perché movimenti tipo ’68, capaci di condizionare o scavalcare Rutelli e compagnia, non ce ne sono e non se ne intravvedono.
Secondo me, bisognerebbe approfondire l’analisi del sistema politico nel nostro paese. L’impero berlusconiano o è una metafora un po’ propagandistica; e allora sarebbe bene ridimensionarne la portata politica, visto che tu stesso ti chiedi quanto di questo “Berlusconi” sia un fantasma immaginario, che viene gonfiato paranoicamente per coprire silenzi e scelte fallimentari della Sinistra.
Oppure è una realtà materialmente già fondata; e allora non sarà il potere giudiziario a “dissolverla”. Al massimo la contrasterà nel suo desiderio di occupare tutto lo spazio simbolico del Potere, ma non ne scalfirà quello reale ormai ben consolidato e del tutto omogeneo ad altri poteri economici capitalistici indiscussi.
A me pare che un “nuovo regime” si sia già istaurato. Ma qual è?
Se definirlo americanizzato, ti potrà sembrare troppo generico e chiamarlo neoliberista potrà apparirti troppo vetero-comunista, sarebbe bene tuttavia non lasciarsi sfuggire l’essenziale: la formazione di un blocco corporativo, che attraversa trasversalmente il sistema dei partiti, produce lotte intestine non irrilevanti fra gruppi dirigenti “concorrenti”, ma è abbastanza coeso nel rifiuto di vere prospettive democratizzanti.
Non considero un’inezia la lotta corporativa in atto fra i partiti, che – fuoriusciti comunque dagli argini costituzionali (Prima o Seconda repubblica sono nomi allusivi di processi di questo genere) – ci sollecitano un consenso quasi solo elettorale. Ma questa lotta corporativa è di sicuro una lotta che esclude la partecipazione democratica piena; ed è regolata proprio dalla preoccupazione di non rompere nessuno dei massicci argini (di destra o di sinistra) contro di essa.
Secondo costorio entro quegli argini da lo stabiliti e rafforzati dovrà scorrere solo un rivolo rituale e a scadenze prefissate di partecipazione democratica.
Oggi in sostanza si chiede da parte di entrambi i poli concorrenti un plebiscito: per un presidente operaio(!) o per un presidente damerino. E i plebisciti sono possibili quando  la democrazia (come processo mai del tutto codificabile, non quella sulla carta…) è stata neutralizzata o uccisa in anticipo.
E allora? A me pare che un terreno politico regolato corporativisticamente, e cioè contrappone su interessi precisi gli schieramenti ma li salda assieme nel rifiuto di una democrazia non regolata dalle corporazioni, sia terreno bruciato. Su di esso non può crescere né la mia prospettiva esodante ma neppure – temo – una prospettiva da movimento di base come la tua.
Non si tratta di negare l’urgenza di una risposta. Ma essa non può essere immediata per buone ragioni. Anzi non vorrei che, per costruirla “immediata”, si dimentichi che deve essere una risposta all’intero blocco corporativo, quello berlusconiano e quello (quantomeno succube) ulivista. Pur distinguendo ciò che  oggi è distinguibile, ma senza proiettare meriti del vecchio PCI –  (vedi cosa mi tocca difendere!) – sui suoi indegni eredi. Una divaricazione fra un fermiamo Berlusconi subito e un facciamo i conti con gli errori della sinistra poi mi pare inaccettabile.
Nella mia prospettiva dell’esodo quest’esigenza di costruire una risposta a tutto il blocco corporativo è presente. Non sono, dunque, indifferente alla vittoria elettorale dell’una o dell’altra corporazione. Ma non credo che bisogna preoccuparsi di “veder chiusa, per chissà quanto tempo, ogni prospettiva di rinnovamento [nel campo dell’istruzione] come nella maggior parte degli altri campi della vita sociale”. Del resto tu stesso ammetterai (o no?) che la prospettiva di rinnovamento è rimasta lo stesso chiusa anche dopo il ’94, anche dopo l’immeritata ( come tu riconosci) vittoria degli ulivisti.
Ho abbracciato – ripeto – l’ipotesi dell’esodo sia per disperazione (nella Sinistra) sia perché preferisco vedere il Potere senza fregi decorativi. M’interrogo anche sulle “possibili ambiguità” presenti nel concetto di esodo, ma non credo consistano nel sorvolare sulle questioni immediate.
E’ certo che l’esodo deve esprimersi in “iniziative concrete”, ma esse devono essere coerenti con una analisi e una prospettiva da esodo. Non può consistere in una mezza giravolta su se stessi, per aggregarsi obtorto collo alla fragile, parziale e contingente polemica antiberlusconiana fatta da questa sinistra.
Su questo punto il nostro disaccordo non è quello fra un miope e un presbite: fra esigenze immediate e prospettive a lungo termine. La ricostituzione di “nuove forme di testimonianza e di militanza politica”, l’impegno per “aggregazioni di tipo nuovo” (fosse pure una rivista alla macchia) è già risposta immediata e contemporaneamente proiezione nel lungo termine.
Qualche barlume di politica esodante a me sembra stia nascendo dall’attenzione di alcuni studiosi alle istanze materiali più legate alle trasformazioni nel mondo del lavoro (il cosiddetto lavoro immateriale). Anche la scuola a me pare un terreno importante quanto quello del lavoro (materiale o immateriale) e in essa c’è da fare i conti con gli stessi processi che la mondializzazione scarica addosso agli umani. Perciò la tua proposta di cooperativa per la produzione di materiali didattici da utilizzare nella scuola media superiore non mi pare in contrasto con le mie.
I dubbi riguardano l’analisi politica che deve reggere l’intervento.
Ti dicevo, quando c’incontrammo a Milano, che vedo uno scarto allarmante fra lotta corporativa dei partiti e lotta quotidiana per sopravvivere nell’emarginazione, uscire dai morsi della disoccupazione o della sottoccupazione, barcamenarsi nella tempesta dei lavori flessibili che tanti sono costretti a fare, individuare percorsi di liberazione (individuali e comuni) nel contesto della postmodernità (in termini più poveri nell’Italia ormai americanizzata). Questo scarto è tenuto in gran conto nel mio tentativo di autorganizzazione esodante. Lo è fino in fondo anche nella tua proposta? Vedremo.
Un caro saluto.
Ennio

Note

1 “Stolto crede così qual fora in campo/Cinto d’oste contraria, in sul più vivo/Incalzar degli assalti,/Gl’inimici obbliando, acerbe gare/Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando/ Infra i propri guerrieri.”

2 Il 15 febbraio come INOLTRE abbiamo fatto un incontro dibattito con Pier Paolo Poggio, che dirige la Fondazione Micheletti di Brescia, sulla questione del revisionismo storico e ho avuto una conferma da uno storico serio di quanto la dilapidazione del passato – non soltanto dei movimenti ma anche di quello “democratico” e “italiano” del PCI – sia del tutto compiuta. Citava, a mo ‘ di esempio, l’indifferenza dello stesso Trentin alla proposta di un museo del lavoro industriale. E’ come se ad un professore che insegnasse letteratura italiana contemporanea all’università fosse indifferente la poesia del ‘900…

APPENDICE. Lettera di Renato Solmi del 24 febbraio 2001
* Le sottolineature  (e i segni a penna nel margine sinistro) sulla copia conservata sono mie.

Pag.1

Pag. 2

Pag. 3

Pag. 4

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *