Il professor Franco Fortini (4)

di Ennio Abate

Questo quarto capitolo  tiene conto di due accurate ricerche pubblicate di recente: quella di Lorenzo Tommasini, “Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università” (qui): e quella di Chiara Trebaiocchi, “Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini” (qui).  In esse ho trovato notizie importanti e da me finora ignorate sul periodo in cui Fortini è stato insegnante. La lettura delle due tesi mi ha offerto spunti per ragionare su alcune contraddizioni che a me pare di cogliere nel rapporto di Fortini con gli intellettuali. Ne approfondirò le implicazioni nel prossimo capitolo 5 e – spero – nel libro  “Nei dintorni di Franco Fortini” a cui sto lavorando.

1.
Prima di diventare insegnante, Fortini partecipava da tempo e attivamente alla vita politica e culturale del ceto colto di questo Paese. Tollerato o malvisto da parecchi e, come orgogliosamente rivendicava, da “ospite ingrato”. [1] Se da marxista, poi, era attento alle contraddizioni di classe, non si lasciava sfuggire le visibili differenze interne – (secondarie fino ad un certo punto)- presenti nella categoria degli intellettuali sul piano simbolico. (Il sociologo francese Pierre Bourdieu le ha poi riassunte nel concetto di “capitale simbolico”).  E’ nota, infatti,  la puntigliosità autoironica e difensiva con cui sottolineava una sua diversità rispetto agli intellettuali tradizionali (o, per semplificare, accademici)[2]. Come è proverbiale il tono più severo e  spesso di rampogna con cui si rivolgeva agli intellettuali-massa[3], di cui certamente per formazione e status non faceva parte e che, col tempo e la piega tragica che ebbero gli eventi nell’Italia degli anni Settanta,  diventò sempre più tagliente e ostile.

2.
La carriera d’insegnante di Fortini, che mi è diventata più precisa dopo la lettura di “Allora comincerò…” e delle ricerche di Tommasini e Trebaiocchi, ha avuto due fasi: la prima nelle scuole secondarie, la seconda all’università.
Nella prima Fortini dovette faticare non poco per adattarsi, dopo il declassamento di cui si è detto, al lavoro di insegnante nelle secondarie,[4] sia perché era una realtà a lui sconosciuta e sia  per le grosse differenze esistenti tra  lui e  i suoi colleghi.
Fortini era un intellettuale già formato  dalle sue  precedenti esperienze  politiche (nel PSI) e professionali (di impiegato alla Olivetti, di  consulente della Einaudi, di interlocutore riconosciuto da  altri intellettual di prestigio: da Pasolini a Calvino a  Renato Solmi, a Panzieri e a tanti altri) e nutrito del meglio della cultura europea.
I suoi colleghi erano per lo più intellettuali-massa  e di idee (cattoliche o di destra) ben più tradizionali rispetto alle sue. O, se più giovani, lo capivano in parte  o ne difffidavano e se ne allontanavano attirati dall’incombente americanizzazione della cultura italiana di quegli anni.

3.
L’insegnamento anonimo e logorante nelle secondarie e nelle primarie – si sa – è in Italia poco considerato. Inoltre,  le condizioni di lavoro, anche per la sconfitta dei movimenti rinnovatori del ’68-’69,  si sono sempre più deteriorate.
Che Fortini sia passato nelle secondarie rapido come una “meteora” o “cometa velocissima”[5] è un’esagerazione. Non  so neppure come  vivesse o cosa pensasse  della prospettiva  di una sua permanenza definitiva nelle scuole  secondarie. Che era invece l’unica, se tutto fosse andato liscio fino alla pensione, per la maggioranza dei suoi colleghi.
Di fatto nelle secondarie Fortini restò per pochi anni: dal 1964 al 1970 circa, passando, come già detto, all’università di Siena dall’anno accademico 1971-1972.  E furono anni di movimento, di rinnovamento che incoraggiarono in tanti grandi speranze. [6]
Fortini ne ripose abbastanza  negli intellettuali-massa.[7] Non si trattava di attese ingenue, come oggi facilmente siamo portati a pensare, visto il fallimento del ‘68 studentesco. Sia il suo marxismo critico che la frequentazione diretta e quotidiana degli studenti e dei suoi colleghi  dovettero indurlo alla prudenza. Tanto che sottolineò ripetutamente  sia la distanza (storica) della “classe dei colti” dagli intellettuali-massa” la cui esperienza gli appariva sempre più povera e  più assediata dalla ”cortina di falso sapere proposto proprio dalla scolarizzazione e dai “media”.”[8]

4.
Sul rapporto  quotidiano di Fortini  con gli studenti  delle scuole secondarie abbiamo oggi le testimonianze  di “Allora comincerò..”.[9] Poco si sa (o  io so), invece,  di quello con i colleghi delle  superiori o delle riunioni  a cui prese parte, o delle  discussioni che  fecero sulle  condizioni della scuola o la situazione politica di quegli anni.[10]
In “Allora comincerò…”  non se ne parla, perché  scopo del libro era la raccolta delle testimonianze di suoi ex studenti.  Vi compare  soltanto la brevissima testimonianza di una collega di Fortini, insegnante di francese, Gilou Combel, che senza  argomentare giudica “poco significativo” il rapporto “in aula o durante i consigli di classe” da lei stabilito con Fortini.[11] 

5.
Ma vale davvero la pena indagare sulla quotidianità dei Fortini insegnante e raccogliere notizie puntuali su di essa?
Il problema non va evitato e va detto lealmente chesu di esso non c’è accordo. C’è chi  ritiene sufficiente o più utile leggere le  sue opere pubblicate. O  pensa che sia più importante soffermarsi soprattutto sul suo pensiero pedagogico, come hanno fatto Tommasini e Trebaiocchi e, prima di loro,  Zinato e Santarone.
Io non ritengo che l’attenzione alla vita quotidiana anche di uno scrittore importante come Fortini o, in questo caso, al suo lavoro quotidiano di insegnante, al suo rapporto con i colleghi e magari coi bidelli sia  fatto trascurabile  o secondario o al massimo una conoscenza integrativa degli studi accademici  su di lui o sulla sua opera.  E sono per uno scambio intenso e ampio  tra  riflessione sulle opere da lui scritte,  pensiero pedagogico-politico di Fortini e raccolta di notizie sulla sua  pratica quotidiana nella scuola e sulla situazione in cui concretamente si trovò ad insegnare.
E, ad esempio, cercherei di capire  anche: come i suoi colleghi degli istituiti tecnici giudicarono questo “insegnante speciale”; se e quanti dei suoi colleghi  d’allora dichiaravano la loro  collocazione  politica o la loro storia, come faceva lui; o quali differenze ci furono tra lui e loro negli orientamenti pedagogici e nelle scelte  didattiche di quegli anni; o, per il caso disciplinare che contrappose Fortini  a uno studente “ribelle”  e all’intera classe,  come reagirono gli altri insegnanti e come interpretarono quel suo forte richiamo all’autorità.

6.
Il passaggio all’università  di Fortini avviene all’indomani  della sconfitta del movimento degli studenti e su questo, evitando reverenze ipocrite, mi sento di fare  alcune domande.
Perché Fortini non rimase  a insegnare  alle superiori? Fu a causa della sconfitta politica, da lui subito riconosciuta,[12]  e della sua disillusione  sugli intellettuali- massa che scelse di passare all’insegnamento universitario? Oppure si trattò di una normale, insindacabile scelta privata, per cui cui non ci sarebbe  discontinuità di nessun tipo, né professionale né politico nel suo percorso di vita?
Su questo punto ChiaraTrebaocchi riporta la testimonianza del parroco e docente ligure Sandro Logomarsini, amico di famiglia di Fortini, “sugli scrupoli sentiti da Fortini nel passaggio dall’insegnamento scolastico all’università, vissuto come “un abbandono di campo””. E cita  pure una dichiarazione dello stesso  Fortini del 1979: “Il crollo intellettuale e morale degli insegnanti usciti dal ’68 è terrificante e mi autocritico per non averlo abbastanza previsto. Avrebbe servito a qualcosa rimanere a insegnare nelle secondarie superiori invece che all’università?”.[13]
Pare di capire, dunque,  che si trattò di un passaggio  travagliato. E varrebbe anche la pena, cogliendo al volo un altro spunto che viene dalla ricerca di Chiara Trebaiocchi, di  confrontare la scelta di Fortini di passare all’insegnamento universitario con quella di don Milani, intellettuale anche lui tradizionale (e, in più, prete cattolico), che scelse di rimanere definitivamente a Barbiana, nella periferia.[14]  
Malgrado le differenze sociali e culturali tra i due, il paragone permetterebbe di ragionare su una questione delicata e controversa e troppo spesso sorvolata o affrontata in modi scandalistici o moralistici: perché sono così varie e a volte incoerenti le risposte date dagli intellettuali – e soprattutto in periodi di gravi tensioni sociali e politiche-  alle sollecitazioni contrapposte che a loro giungono da un lato dal potere (in tutte le sue forme) e dall’altro dagli esclusi o più sottomessi di loro al potere?
Mi sono chiesto, perciò, come mai don Milani, che aveva rotto con la gerarchia della Chiesa cattolica (pur restando prete),  si “imprigionò” – uso in maniera meditata questo verbo –  definitivamente a Barbiana,  un piccolo paese toscano e periferico, mentre Fortini, che aveva  rotto  a sua volta con le gerarchie del PCI-PSI (pur restando “ospite ingrato” in quel ceto politico di sinistra),  si recluse nella “semidorata” università di Siena che gli concesse  privilegi economici e simbolici  che mai avrebbe ottenuto restando insegnante delle secondarie.
Non so rispondere in modo netto a  queste domande ma non ritengo né provocatorio né retorico porle.  Ma vorrei interrogarmi seriamente il dubbio, magari momentaneo, di Fortini: “Avrebbe servito a qualcosa rimanere a insegnare nelle secondarie superiori invece che all’università?”. Altrettanto importante  mi pare approfondire la  polemica  tra Fortini e il giornalista Giorgio Pecorini, a cui accenna  sempre Chiara Trebaiocchi e che io ignoravo.[15]

7.
Infine, resta da fare – altrettanto e  forse più importante  –   un’altra domanda:  perché Fortini  scelse  proprio l’università di Siena?
Se, come  scrive Tommasini,  fu mosso dalla passione didattica o per avere un rapporto coi giovani, questi c’erano anche alle superiori.  Io credo, invece, che nella scelta di Fortini abbia pesato  il legame  dialettico (ma condizionante) che sempre mantenne col ceto intellettuale tradizionale e con la sinistra politica;  col PCI per la precisione.[16]
Nel passaggio di Fortini all’università di Siena Tommasini vede “un cambiamento radicale ri­spetto al passato”, ma pare riferirsi esclusivamente all’aspetto professionale di insegnante  e al suo lavoro di critico letterario. Non commenta l’aspetto politico della scelta fortiniana, che a me pare rilevante, perché si trattò da parte sua  di associarsi ad un  progetto universitario d’area PCI, contraddicendo (o almeno rivedendo) la precedente posizione più critica da lui mantenuta verso quel partito nel periodo dei movimenti. Anche questo è un nodo da approfondire senza reticenze, perché  come ha scritto Rossana Rossanda   è  rimasto cruciale (e forse irrisolto) per tutta la vita di Fortini:

“L’URSS si rivelava peggio di quel che gli aveva suggerito la critica socialista e l’aspra dissidenza nterna degli anni Trenta – della quale il libro più diffuso in Europa erastato quello di Victor Serge. Ma nel 1956 Fortini fu tra i pochi che gridarono non tanto in nome della libertà intellettuale repressa, ma in nome della rivoluzione del 1917 che sparando sugli operai della Csepel, la grande fabbrica di Budapest, tradiva le sue proprie ragioni. Io ero allora nel PCI e mi telegrafò augurandomi una tremenda vendetta operaia. Restava le Partito socialista, ma un anno dopo se ne sarebbe separato, chiudendo anche con l’”Avanti!” cui collaborava tutte le settimane – perché Nenni eraandato a Pralognan e i socialisti stavano mutando sponda. Dunque  o si stava con l’URSS o si abbandonavano gli sfruttati?
Fortini si sarebbe dibattuto in questa tenaglia. Questo è il Leitmotiv di tutta la sua opera e rende impossibile distinguere una sfera del tutto interiore da quella del tutto civile. Questa contraddizione gli  passa dentro. E avrebbe  tentato di risolverla fin che poté nell’affermazione che no, i motivi e la forza del comunismo restavano anche se non avrebbero avuto alle spalle un grande paese, diventato una nazione potente e prepotente come le altre, né un grande partito diventato burocratico e inerte. Restavano in quanto restava n dominio economico politico inaccettabile”
(Rossana Rossanda,“Uno sperato tutto di ragione” in Franco Fortini “Saggi ed epigrammi”, Meridiani Mondadori 2003

 

NOTE

[1] Rossanda ha scritto: “restava perlopiù in una solitudine orgogliosa e indolenzita. Dalla quale gettava sul mondo quel suo sguardo esigente, intollerante di mediazioni, per cui passava sempre  da felici incontri a sanguinose rotture. Tutti avrebbero voluto Fortini ma nessuno alle sue condizioni” (in Fortini, Saggi ed epigrammi, pag. XII, Mondadori 2003)

[2] Pensiamo , ad esempio, al suo rammarico – in versi e con amara autoironia –  per non essere stato “come il buon Cases | come Folena come Caretti | che conoscono i doveri | ordinari, autori seri, | cui si schiudono i libretti | degli esami nei bui chiostri | delle dolci università. || Avessi studiato da giovane. | Non sapessi la verità». (Trebaiocchi, pag.  290)

[3] Che, secondo una sua definizione, comprendevano: “ quella degli intellettuali addetti alla riproduzione culturale ( livelli  non “baronali” nelle università e nelle istituzioni di ricerca, docenti delle scuole secondarie), alla informazione-comunicazione (editoria e stampa, spettacolo), alle arti, agli esperti di pubblicità e relazioni pubbliche;  insomma a quelli che in Francia chiamano gli “intellettuali bassi” (Fortini,  Insistenze, pag 272)

[4] Tommasini: “La prima considerazione che si può fare partendo da quanto detto finora è che Fortini arriva alla scuola quasi per caso. La sua richiesta di insegnare non è dettata da interesse o vocazione, ma solo dalle necessità pratiche che gli fanno vedere in questa occasione una possi­bilità di occupazione come un’altra. Se non ci fossero state le brusche interruzioni dei precedenti lavori che abbiamo richiamato poco so­pra, Fortini non avrebbe imboccato questa strada”. (pag. 28)

[5] Cfr. la testimonianza di Lelio Calvi, in “Allora comincero’…”, pag 31 e 32.

[6] Così ne scrisse lapidariamente in Insistenze: “verso il 1967, un bisogno di immediatezza e autenticità, di etica e di politica in persona prima, corse come un gran vento fino al 1972 e a farlo cadere si accordarono tre o quattro regimi di stato,alcuni servizisegreti, una folla di autesti mentitori” (pag. 15). Per quel periodo  parlerà anche di «Capo delle Tempeste del 1967-1973» nel saggio-intervista a Paolo Jachia, Leggere e scrivere. Si è parlato anche di un Lungo Sessantotto «tra Sommossa e Restaurazione» per il periodo che va dal 1965 al 1980.

[7] Come risulta da queste sue considerazioni: “Cases sembra resistere, vorrei dire, all’idea che la fine del mandato sociale degli intellettuali (di cui scrivevo or è un quarto di secolo) si è mutato attraverso immense sciagure nel cominciamento di un altro mandato sociale che gli intellettuali-massa del presente possono (ossia debbono) conferire a se medesimi nei confronti di quel “sud” del mondo (e di ogni società) senza la quale non si esce dall’oscillazione fra ribellismo e conformismo. Era necessario che la “classe dei colti”, nella quale siamo cresciuti, fosse affatto stritolata dalla industria culturale o sopravvivesse solo come separatezza e clericatura, perché (e in un suo rozzo modo proprio il Sessantotto, che aveva voluto spiantare i ruoli a favore della ricerca di una cultura “altra”, l’aveva prefigurata) potesse tornare a proporsi una missione pedagogica generalizzata a partire dai “nuovi colti” o semicolti” (Extrema ratio, pag. 36)

[8] Cfr. anche Extrema ratio, pag. 90: “Una delle interpretazioni del declino e della sconfitta della forma-Partito nata nella e dalla Terza Internazionale ci spiega che – almeno nell’Occidente industrializzato – l’odierno livello culturale di base sarebbe inconfrontabile con quello di settanta anni fa e che dunque né ha bisogno né consente di proseguire la funzione degli intellettuali latori di consapevolezza che per un buon secolo hanno formato le avanguardie politico-culturali”.
E più avanti: “il potere che ha il controllo della informazione, della conoscenza e della trasmissione di questa è ben più forte oggi di quanto fosse trent’anni fa mentre è incomparabilmente più debole la capacità di coesione degli intellettuali-massa”  (pag. 93).

[9] Esiste anche una bella intervista  fatta il 22 ottobre 2017 da Lorenzo Pallini a Velio Abati, studente diFortini all’università di Siena: https://vimeo.com/522366933

[10] Su questo punto anche leggendo le interessanti ricerche su Fortini insegnante di Tommasini e Trebaiocchi ho trovato ben poco. In Trebaiocchi misono imbattuto soltanto in un giudizio generale e generico di Fortini sui suoi colleghi:”Non una sola volta in tutti questi anni – e, tengo a ripeterlo, gli istituti dove ho insegnato non erano affatto dei più sordi o dei meno vivi – m’è occorso di sentire dibattere in modo coerente i colleghi delle medesime discipline sui rispettivi metodi e criteri; relativamente più facile qualche esperimento”. (Trebaiocchi, pag. 214)

[11] A pag. 101.

[12] Quando Fortini passò alla seconda fase della sua carriera d’insegnante ,le sue speranze verso i movimenti  del ’68-’69 e gli intellettuali-massa erano ormai deluse. Fu una disillusione quasi meravigliata per quella che a lui parve una precipitosa involuzione. Cfr., tra i tanti testi di critica fortiniana alla generazione del ‘68,  I Fratelli Amorevoli, in Insistenze pagg. 270-278. Anche se Fortini in quello stesso scritto precisò: “quelli che ho chiamato Fratelli Amorevoli non coincidono con il ceto dei nuovi intellettuali giovani, ne sono una parte” (Insistenze, pag. 278).
La raccolta degli scritti di Fortini comparsi su il manifesto, Disobbedienze, porta come sottotitoli proprio: I Gli anni dei movimenti, II Gli anni della sconfitta.

[13] Trebaiocchi, alle pagine 180-181, annota pure, in forma dubitativa, che abbandono di campo “lo giudicarono forse alcuni suoi studenti del tempo stando alle testimonianze di un Fortini talvolta assente nel loro ultimo anno di scuola (cfr. D’ANGELO 2011, pp. 50-51; 145)”.

[14] Un’analsi del genere  andrebbe fatta anche per la scelta – mi pare dopo la rottura con il manifesto per il suo articolo su Giaime Pintor – della collaborazione di Fortini con il  Corriere della sera.

[15] Trebaiocchi, pag. 175: “Un risentimento polemico nei confronti del parroco di Barbiana – e dell’appropriazione superficiale che del suo pensiero ne ha fatto nell’immediato  il movimento studentesco – emerge inoltre nell’intervento del 1980 in cui Fortini ricorda anche, su testimonianza di Giorgio Pecorini (giornalista vicino a don Milani), come i ragazzi della scuola avessero riso della sua recensione alla Lettera. In un articolo apparso su «Comunità», la rivista culturale fondata da Adriano Olivetti, Pecorini aveva infatti preso posizione contro le critiche espresse nei confronti di don Milani attaccando anche gli intellettuali – tra cui Fortini esplicitamente citato – incapaci di intendere il discorso di Barbiana.”

[16]  Sembra confermarlo Tommasini:”Bisogna innanzitutto considerare che il nuovo ruolo di professo­re gli permette di partecipare in prima persona e «dall’interno» a quella battaglia per una «nuova cultura intellettuale», che riteneva indispensabile combattere per giungere ad una «nuova società», nel­la quale l’istruzione gioca un ruolo chiave106. Velio Abati, studente a Siena nei primi anni di insegnamento di Fortini, ricorderà tempo dopo la sua «grande passione» didattica ..Velio.Fortini ha concepito l’insegnamento come un aspetto della militanza in­tellettuale e politica. La ricerca della verità come condizione dell’esistenza, il convincimento che il sapere sia sempre in relazione con la concretezza e la par­zialità individuale e collettiva – fatto che spingeva il suo sguardo dal massimo di competenza intellettuale al rasoterra della dimensione quotidiana dell’esi­stenza “.

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