L’etica del professore

(Donato Salzarulo, Il gatto di Fortini, La farfalla salata, 2024)

di Ezio Partesana

Ci sono libri dell’essere e libri del dover essere; libri di storia che raccolgono le fonti possibili e ragionando concludono su quel che è stato e come e perché; libri che studiano i testi, le varianti, la forma, la materia prossima e quella lontana, le lettere persino e gli intenti, e sono opere preziose e lavori meritevoli; però esistono anche altri libri che oltre a quel che è stato, pensano anche a quel che sarebbe meglio fosse, libri insomma che immaginano un contenuto futuro per il loro oggetto: sono questi i libri del dover essere. La critica letteraria, e la teoria estetica in generale, hanno abbandonato da lungo tempo l’etica, come un residuo metafisico, un ostacolo alla libera espressione; l’arte deve essere liberata da ogni dovere e solo così vedremo finalmente il suo vero volto.
Il professore Donato Salzarulo non è dello stesso avviso.
La raccolta di scritti su Franco Fortini non manca certo degli strumenti specifici di ogni analisi testuale (struttura, metro e ritmo) né di riferimenti storici e politici, ma come un quadro non consiste nei suoi colori, bensì nel significato che essi hanno nell’insieme dell’opera, così un testo deve certo essere smontato nei suoi elementi primi, ma poi anche scritto di nuovo nelle sue ragioni [“Non rinnega la tradizione, ma neppure l’accetta nella sua interezza. Piuttosto la rifà, la riusa, la traduce, ingaggiando un rapporto di variazione, sottrazione, modificazione con le forme metriche ereditate dalla classicità”]

Il volume inizia con il malinconico saggio sopra Composita Solvantur e si chiude con l’altrettanto schietta deposizione sopra le note di Reversibilità [“Non è una conclusione edificante né consolante. Ma non è questo il compito della poesia”]; nel mezzo si dà battaglia a quel che è in nome di quel che sarebbe dovuto essere [“La verifica s’impone come dovere morale del Tu, come frutto di un imperativo”], dalla fantasia sopra un lezione per I lampi della magnolia e il Dürrenmatt de La panne letto con la nipote, alla radice della fede nell’analisi di Per quanto cerchi di dividere, ai conflitti filosofici della Colonna infame.
Prendiamo esempio e ricominciamo da capo.
Donato Salzarulo scrive in un italiano ricco e semplice; i termini tecnici impiegati, se ostacolano la comprensione, possono essere chiariti da qualunque buon dizionario, pittoresche metafore sono assenti (al massimo qualche paragone) e raramente la sintassi costringe a leggere più di una volta lo stesso periodo. La forma di comprensione critica è quella che pone a confronto l’intenzione con il risultato, secondo una lezione che in Italia credo di possa far risalire almeno al De Sanctis, ma è un romanticismo al quale è stata aggiunta la dialettica [“Hegel è indubbiamente uno degli autori di Fortini”]. Non basta dire, insomma, che una poesia o un romanzo sono “riusciti” perché, dati i mezzi impiegati, il risultato finale è esattamente quello che aveva in mente l’autore; subito dopo sorgono due domande: Perché quei mezzi risultano così efficaci, ma soprattutto: Sono giuste le intenzioni etiche di quel testo? Detto altrimenti e in forma più generale: Quelle cose che si dicono, perché dovevano essere dette?
È la lezione più severa della critica novecentesca, da Lukács a Fortini (passando per Adorno), che Il gatto di Fortini, mette in pratica ripetendola e traducendola, cioè chiedendo conto non solo al testo, ma anche ai teorici dell’opera d’arte; si chiede schiettamente: Quello che volevi insegnare, è vero? La teoria della letteratura si fa pratica etica e politica. Per citare un nemico di tutti: Perché così e non altrimenti?
In questo trambusto vanno collocati i due saggi “di fantasia” I lampi della magnolia e Un racconto di Dürrenmatt e la funzione di Fortini, che non solo mostrano (o fingono di mostrare, appunto) dal vivo i meccanismi della comprensione e dell’insegnamento, ma sono anche, a mio giudizio, due racconti dal notevole valore letterario, anche se mi servirebbero molte pagine per cercare di spiegare perché. “Maestro” è chi conosce bene un’arte e la sa insegnare, a volte le due cose non sono congiunte: Si può essere “mastro d’ascia” ma far scappare gli apprendisti, oppure sublime insegnante di contrappunto e non aver mai composto una fuga. Secondo Auerbach, maestro è chi parla dell’essere e del dover essere allo stesso tempo (Salzarulo lo cita ampiamente a proposito della “profezia figurale” e del rapporto tra simbolo e tempo a venire); il compito del critico non è dunque solo quello di spiegare quel che si vede, quel che ognuno potrebbe vedere anche da sé, ma di adempiere al contenuto di verità che fu scritto, o dipinto o suonato [“Ogni essere è anche un dover essere, ogni corpo un ponte, un punto di passaggio, un medium di natura e storia”]. Il testo di Salzarulo esige che questo venga fatto ogni volta che si legge, fosse anche solo per rispondere, alla fine, “non con te vecchio”.

Il gatto di Fortini pare aver messo pace nel tempo, separando i suoi doveri, non solo storici, in una rappresentazione dove si può distinguere l’alto dal basso, il presto dal lento, l’eterno dal caduco. In realtà si tratta di una tregua, il tempo di tirare il fiato (fosse anche l’ultimo) e poi si ricomincia. C’è il tempo dei mercanti, che è tutto tempo perso, e il tempo dell’individuo, che è il tempo passato, il tempo storico che dà l’unica forma della quale non si può fare a meno, e il tempo dell’avvento della verità in terra. È durante l’armistizio – la poesia, scrive Donato, è una forma di pace momentanea e illusoria, contra Fortini, in questo caso, che riconosceva in ogni lirica una vendetta – che si presta conforto ai feriti e, nel tempo vuoto, si risponde alle lettere ricevute. Scrive Salzarulo: “È un autunno che chiede ai sopravvissuti e ai nuovi nati di compiere il loro dovere morale, di rispondere all’imperativo della lettura, del disseppellimento e del riconoscimento dei segni lasciati dai morti e resi invisibili”, e non nasconde che questo (intendendo “tempo presente”) è il nostro autunno certo, ma anche un autunno di tutti. Insomma, la disastrosa sconfitta politica e civile di ogni tentativo di sovversione contro l’ordine dello sfruttamento è un fatto al quale non si può opporre la pur pietosa cura di sé o il solo rammarico. Se c’è una cosa che Salzarulo fa è far confessare almeno al passato cos’era, cosa era stato sognato. Prima che anche noi si vada e resti a altri, ancora più lontani, di cavare il ragno dai buchi.
È forse questa attesa che rende meno distinte alcune parti del libro. Non è solo l’identificazione suggerita dell’Homo Sacer con il Cristo (Agamben, per esempio, propone al contrario il “reietto” come “sacro”), o l’etimologia sospesa di “intelletto” che evita il senso del Logos come “legare” preferendo “leggere” (più moderno ma meno esatto), a dar la sensazione che dove Salzarulo scrive in intimità – Il sogno della casa di Fortini, oppure I giorni in fuga, sopra Geno Pampaloni) – il rigorosissimo divenire politico degli altri saggi lasci il posto a un rammemorare privato che, a me pare, trapassa dalla critica al “diario” senza poter più dire perché e come quelle parole richiedano di essere scritte. È il personale – per usare una frase che dovrebbe essere cara a Donato – che non diventa politico, forse perché ci si aspetta da esso qualcosa che non può essere dato.
Siamo soliti chiamare “paradosso” quel che contrasta con l’esperienza dei molti; il libro di Donato Salzarulo è in questo senso un paradosso: parla d’altro e fortissima è la presenza di chi scrive, si intrattiene presso il Sé e l’io scompare. L’intelligenza lega le proprie sorti, il proprio “dovere”, a quelle altrui quando pretende da se stessa la comprensione; non la lirica ma la politica, insomma, deve seguire il professore, il che è poi quello che Salzarulo fa dispiegando la storia.
Se davvero la dialettica è come il sole, la fissi e resti cieco ma se aspetti che passi viene notte, ne Il gatto di Fortini l’etica del professore è una buona strada per vedere senza attendere che tutto sia finito. Perché? Perché tutto non deve essere finito.
Una ultima nota: nel volume che ho in mano c’è il nome dell’autore, la casa editrice, i capitoli e le bibliografia essenziale, ma manca il prezzo di copertina. Mi sembra giusto così: chiedete e vi sarà dato, ma dovete chiedere prima.

1 pensiero su “L’etica del professore

  1. UN APPUNTO

    “dove Salzarulo scrive in intimità – Il sogno della casa di Fortini, oppure I giorni in fuga, sopra Geno Pampaloni) – il rigorosissimo divenire politico degli altri saggi lasci il posto a un rammemorare privato che, a me pare, trapassa dalla critica al “diario” senza poter più dire perché e come quelle parole richiedano di essere scritte. È il personale – per usare una frase che dovrebbe essere cara a Donato – che non diventa politico, forse perché ci si aspetta da esso qualcosa che non può essere dato.” (Partesana)

    Forse il perché “il rigorosissimo divenire politico degli altri saggi lasci il posto a un rammemorare privato che, a me pare, trapassa dalla critica al “diario” senza poter più dire perché e come quelle parole richiedano di essere scritte” va cercato nella sconfitta politica degli intellettuali massa del secondo Novecento.
    Forse quel trapasso dalla critica al “diario” è difensivo ma anche indispensabile.
    Forse a questo tipo di esperienza era stato costretto anche il Fortini vecchio:

    “Il quindicennio finale della vita di Fortini è segnato, come già visto, dalla fine dell’intellettuale, determinata appunto dal venir meno della condizione che rendeva possibile l’attraversamento politico degli specialismi: la centralizzazione teorico-pratica del partito e la dialettica dei corpi intermedi. Fortini descrive una società di frammenti[47] e quindi vive nella solitudine. Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, s’intitola, per esempio, il volume del 1990, costruito come flusso di pagine di diario intellettuale, dove, nel Saluto, sorta di postfazione in forma di poème en prose al lettore, quasi incidentalmente pronuncia l’assillo fondamentale: “Rispondere così vuol dire ironizzare e l’ironia non è concessa alla solitudine”[48].
    Le pagine saggistiche più dense di questo periodo sono quelle che descrivono la polverizzazione sociale, la destrutturazione culturale allora iniziata. Di grande interesse, per esempio, la denuncia di come il consumismo estremo dell’industria culturale, mentre appiattisce tutti verso il basso, venda paradossalmente l’illusione di dare a ciascuno qualcosa di esclusivamente personale, in obbedienza all’individualismo estremo dell’ideologia dominante[49]. Fortini osserva che tale dinamica produce deprivazione, analfabetismo di ritorno, allontanamento dalla stessa cultura di massa, anche nel cuore delle società capitalistiche, come gli stessi Usa, ma giudica che esso interessi “una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali”[50]. Tant’è vero che la nota dominante gli appare essere, appunto, come recita il titolo del saggio in questione “lo snobismo di massa”. D’altra parte le “estati romane”, che dal 1977 l’assessore alla cultura del Pci, Renato Nicolini, aveva organizzato fino al 1985, avevano diffuso in Italia, in quelli che Fortini in una conversazione privata m’indicava come Assessorati Turismo & Spettacolo, la ‘cultura dell’effimero’, ossia del consumismo edonistico, costituita da eventi culturali ai quali accorrevano migliaia di giovani e meno giovani. “Quello che è successo” dice Fortini “mi ha dato torto”[51]. Dal momento che l’intellettuale è stato sostituito dall’esperto, il saggio è diventato pagina di diario[52]. E persino la produzione letteraria è ora possibile “in tutte quelle forme letterarie che il nostro secolo ha trascurate, il diario, le lettere, la mescolanza di autobiografia e poesia, le forme della discrezione”[53].”

    ( da Su Franco Fortini. L’allarme del presente di Velio Abati – 11 dicembre2017
    https://www.officinadeisaperi.it/antologia/su-franco-fortini-lallarme-del-presente/
    e anche in a http://www.velioabati.com)

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