Noterelle su “Il gatto di Fortini”

di Roberto Bugliani

   Sono testi “eterogenei”, pensati e scritti “con registri socio-linguistici diversi per destinatari diversi”, il cui arco temporale di composizione va dal 1995 al 2024, quelli che Donato Salzarulo ha raccolto sotto il titolo Il gatto di Fortini, titolo tratto dall’omonimo saggio incluso nel libro. Ma se ciascuno di essi è debitore di un’occasione particolare (lezioni con alunni di quinta elementare, conferenze, commemorazioni e perfino la narrazione d’un sogno), esiste un tema che, se pur declinato in vari modi, riunisce a sé questi “esercizi di lettura”. Scrive Salzarulo nel saggio di apertura Fortini testimone del vero. Prima lettura di Composita solvantur, saggio tra i più densi e strutturati dell’intera raccolta, e perciò meritevole di particolare considerazione: “è facile parlare del Fortini compagno, dell’intellettuale militante, del comunista scomodo, dell’eretico, del maestro; più difficile e imbarazzante, invece, discutere del poeta credente”. E’ a questo “sentire” che Salzarulo rivolge la sua attenzione, ricercandone tracce e attestati nell’insieme della produzione scrittoria fortiniana e tentando di dare un ordito a quei “segni di un sacro” che, scrive Luca Lenzini dietro indicazione zanzottiana “si presenta soprattutto […] attraverso la presenza del Male”, al fine di “comprendere meglio la dimensione religiosa di Fortini insieme alla sua saldatura con quella politica e culturale” (Salzarulo).
   Composita solvantur è l’ultima raccolta poetica di Fortini edita da Einaudi nel 1994, che raccoglie poesie composte tra il 1984 e il 1993; divisa in sei sezioni più una “epitome” (il cui primo emistichio: “E questo è il sonno”, a dimostrazione che tout se tient, è formato da parole appartenenti al primo verso di Foglio di via che Fortini scrisse “cinquant’anni fa”) e un’Appendice di light verses e imitazioni, è opera concettualmente complessa e difficile, ma gradevole per fonicità briose e faciture metrico-ritmiche accattivanti.
   Nel 1991, a composizione della silloge in corso, lo scoppio della prima guerra del Golfo che “ammazzò centinaia di migliaia di persone” (Fortini) produrrà un radicale sconvolgimento nelle coscienze di molti; a questo evento drammatico Fortini risponderà, con forte vis polemica ma nei modi “ironici” e con “temi ridicoli”, limando “rime bizzarre”, con le Sette canzonette del Golfo, nelle quali identificherà se stesso nella figura del “vecchietto” che, con tipica caratterizzazione dall’egoismo proprio della persona anziana, se ne sta seduto in giardino a godersi l’aria tersa della mattinata domenicale splendente di sole, e che, al riparo della sua condizione privilegiata di uomo europeo, considera con retorica commiserazione i lutti e le distruzioni inferte dalla guerra a genti lontane.
   Ora, se di questi eventi terribili Fortini in prima battuta ha creduto che non si potesse parlare se non “per gioco, per ironia lacrimante”, ricorrendo ai “versi comici”, ai “temi comici o ridicoli” delle Sette canzonette, la riflessione successiva indurrà lo stesso Fortini a redresser la barre e denunciare col senno etico-politico di poi quell’aver modulato “un orrore posto oltre la parola” in forme anomale e fondamentalmente improprie, come la ballata infantile o la finta elegia (Lenzini).
   E’ curioso a questo punto notare che siffatta emendatio concettuale sia preceduta da una correctio di natura squisitamente stilistica attestata dalla poesia Ancora sul Golfo compresa nell’Appendice, nella quale l’uso del settenario come misura versale dell’intero testo ci pare altamente significativo, tanto più se si considera che il settenario è misura assente nelle Sette canzonette. E’ per l’appunto a siffatta palinodia metrico-ritmica che Fortini affida il compito di introdurre con strumenti propri (e appropriati) l’autocritica a forte valenza etico-politica formulata nella poesia successiva Considero errore…, di modo che è la mutata partitura metrico-ritmica di Ancora sul Golfo (qui l’avverbio non indica continuità temporale, bensì discontinuità) a sostituire alla leggerezza e alla comicità del dettato poetico delle Sette canzonette la gravità e l’imperiosità di tono proprie dell’ode, in primis manzoniana (che la spiccata prevalenza di settenari sdruccioli contribuisce a certificare), non parendomi frutto del caso che il verso in chiusura di Ancora sul Golfo, “dell’Essere che fu”, richiami il verso all’incipit del manzoniano Cinque maggio, “Ei fu”.
   “Ho l’impressione che per Fortini si possa leggere il passato un po’ alla maniera dei Padri della Chiesa, individuando nei fatti i segni di una profezia, le figure anticipatrici del futuro”, scrive Salzarulo nello scritto in questione, sviluppando la sua indagine sulla scorta del saggio Figure (compreso nel volume Studi su Dante) di Eric Auerbach, e in particolare del brano in cui il filologo tedesco parla di profezia figurale, ossia dell’”interpretazione di un processo terreno per mezzo di un altro; il primo significa il secondo, e questo adempie il primo. Entrambi restano accadimenti interni alla storia; ma in questa concezione contengono entrambi qualche cosa di provvisorio e di incompiuto; essi rimandano l’uno all’altro, e tutti e due rimandano a un futuro che è ancora da venire e che sarà il processo vero e proprio, l’accadimento pieno e reale e definitivo”.
   “Provvisori e incompiuti” sono dunque gli accadimenti storici perché, annota Salzarulo, “tutta la realtà storica deve ritenersi transitoria e imperfetta”, così che, se gli avvenimenti “possono rimandarsi a coppia uno all’altro”, tali coppie in ultima istanza rimandano a un futuro che, secondo le parole di Auerbach, “è ancora da venire”. E’ questo, osserva Salzarulo, il futuro che, “per milioni di uomini e donne di questi ultimi due secoli, e Fortini fra questi […], ha preso il nome di comunismo. La lotta per il comunismo è il comunismo, ma per Fortini è lotta per la verità, per l’accadimento pieno, reale, compiuto, definitivo. Da questo punto di vista, il comunismo non può essere ridotto ad un’incognita”.
   E’ su tale snodo del pensiero poetante fortiniano che s’innesta la questione del “vero”. Dei giorni, ci dice Fortini e riporta Salzarulo, in cui si svolgeva la cruenta “operazione di polizia internazionale” contro Saddam Hussein, “nulla era vero”. E nemmeno era vera “la pace del vecchietto, / l’ora linfa che gli piace”, che in veste di elegia ‘domestica’ (Ah letizia…) informa le Sette canzonette. Era tutto un sogno, allora? si domanda Salzarulo. Ovviamente no, ma (ancora) nulla è sicuro (direbbe il Fortini di Traducendo Brecht, non senza aggiungere e ingiungere: “ma scrivi”). “Il processo è in corso; uomini e donne dovranno ancora lottare per la verità che non è ancora divenuta tale”, perché “il vero non è del fatto, ma neppure delle interpretazioni. È del futuro”. (Salzarulo). Del futuro, di quando, cioè, saranno cessati violenza e sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’errore di idillio ed elegia non sarà più tale. E di quando il Dio [auerbachiano] nascosto nelle figure, “forma provvisoria di alcunché di eterno e sovratemporale” (Auerbach), non avrà più ragione di celarsi agli occhi e alla mente degli uomini.
   C’è una poesia di Fortini, Agli dèi della mattinata, facente parte della raccolta Una volta per sempre (sezione “Di maniera e dal vero”; 1970-1972) composta nella sua casa di campagna a Bavognano di Ameglia durante una mattinata temporalesca, in cui la dialettica squisitamente fortiniana di vero/falso viene messa in scena in modo esemplare. Il componimento inizia col raffigurare un fuori perturbato: “Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua. / Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla”(vv. 1-2), da cui lo sguardo lirico si ritrae defluendo nel dentro tranquillo (“la mattinata si affina nella stanza tranquilla”; v. 3), dove l’ascolto discreto e gradito della radio (“Un filo di musica rock”) e la presenza familiare e confortante degli strumenti di lavoro (“le matite, le carte”; v. 4) propiziano nell’io poetante un sentimento di letizia e d’abbandono: “sono felice della pioggia” (v. 5). Alla mercé di questa jouissance, il poeta si rivolge a “dèi inesistenti” pregandoli di proteggere l’idillio, ossia di proteggere la verità dell’intreccio tra sentire poetico e natura che ha reso possibile l’idillio. Ma ben singolare appare questa invocazione a dèi apostrofati “inesistenti” nel momento stesso in cui vengono evocati (e invocati). Perché, dunque, questa contraddizione?
   Innanzitutto è la raffigurazione di questi dèi a contraddire il loro status. Non sono gli dèi dalla testa cinta dell’elmo guerriero o adorna del tradizionale ramo d’alloro che i topoi mitologici ci hanno fatto conoscere, bensì sono dèi dimessi, dalle “tempie meste di frasche” (v. 8; c.n.) e, per sineddoche, tristi essi stessi. Sono caricature di dèi, sono dèi che nulla possono (“e che altro potete / o dèi dell’autunno indulgenti dormenti”, vv. 6-7), chiamati a proteggere un idillio piccolo-borghese, un idillio da niente. Sono dèi non veri, dèi da poesia, per dire con L’incendiario (1910) di Palazzeschi (“Sono un poeta che ti rende omaggio / da povero incendiario mancato, / incendiario da poesia”; e ancora: “incendio non vero / è quello ch’io scrivo, / non vero seppure è per dolo”) questi “dèi della mattinata”, che il tono sarcastico adottato dall’io lirico provvede a schernire.
   Circa vent’anni dopo Fortini si trova a ri-fare i conti con i “suoi” dèi. Ma nelle Canzonette (e, per osmosi, in Composita) l’io lirico non è più quello sarcastico e beffardo che metteva in tela di braghe, per così dire, le divinità, bensì è quello segnato dagli anni e dalla storia, il cui alter ego allegorico è divenuto il “vecchietto” dell’agire minimale spasmodicamente attaccato al possesso di piccoli oggetti d’uso quotidiano cui destina i propri affetti senili (o la sua libido, direbbe Freud), disilluso e generazionalmente separato dal “progetto in divenire di cui essere parte” (come scrisse Fortini a riguardo del sereniano Un posto di vacanza), progetto lasciato a un poco connotato “voi” della generazione futura (“Voi tutto dovrete inventare”, in Considero errore…). Altrimenti detto, le Canzonette registrano la lacerazione insanabile e la distanza irreversibile tra il “noi” collettivo dei destini generali e il “noi” retorico dietro cui si cela l’io poetico.
   Nelle Sette canzonette del Golfo è compresa una poesia che mi pare faccia qui al caso nostro. Si tratta della quarta delle sette, e reca il titolo Gli imperatori… Il suo dettato poetico è diviso in due parti: all’epicità della prima parte, alle due quartine de “Gli imperatori dei sanguigni regni”, deputati a mettere in scena il vero storico (“guardali come varcano le nubi / cinti di lampi”; vv. 2-3), segue la liricità delle due terzine della seconda, che parla d’una generazione ai suoi “giorni occidui”. A giustapporre le due parti è il v. 9, “A noi gli dèi porsero pace”, referto di uno status esistenziale dai destini conchiusi, che “di poco” e di vano si allieta (“un breve riso, / un’aperta veduta e i chiusi inchiostri”, ossia i versi che recano – vana – gloria ai poeti). Questi dèi, i ‘nuovi’ dèi di Composita solvantur che recano pace interiore al “noi” generazionale, separano il dettato lirico e consolatorio della seconda parte dall’epicità della scenografia bellica della prima e, al pari degli dèi della poesia “Agli dèi della mattinata”, sono divinità di maniera che allontanano dal vero l’io lirico.
   A tutto ciò risponde e si contrappone, per “posizione strategica”, la poesia iniziale di Composita, sorta di manifesto di poetica militante avente “funzione di apertura e di ‘illuminazione’ del clima generale della raccolta” (Salzarulo), di cui è opportuno citare i primi, sintomatici versi: “Per quanto cerchi di dividere / con voi dal vero le parole, // la fede opaca di cui vivo / è solo mia. La tento ancora” (vv. 1-4). E’ ciò che Fortini chiama “fede opaca” a far nodo, a resistere, a denunciare la falsità degli idilli e la menzogna d’una pace interiore tuttavia cara al “vecchietto”, ma estraniata dal – benché provvisorio e incompiuto – vero storico e separata dalla lotta per il comunismo che è, abbiamo visto, lotta per la verità. E di questo sintagma polisemico, di ardua decifrazione ma centrale nella poetica fortiniana, propongo per concludere (almeno provvisoriamente) le mie note sparse, l’interpretazione fornitane da Salzarulo: “Scrivendo ‘fede opaca’, è probabile che [Fortini] avesse presente Giovanni della Croce o altri mistici per i quali la fede è ‘notte oscura dell’anima’. Non è luce, produce luce”. E ancora: “è, comunque, un nutrimento («di che vivo») da sperimentare, da mettere ancora alla prova nella vita quotidiana («La tento ancora»)”.

 

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