RIORDINADIARIO 1999. Stralci da una lettera a Romano Luperini
di Ennio Abate
Il 24 gennaio 1999 scrissi una lunga lettera a Romano Luperini sul suo libro Il professore come intellettuale. In essa mettevo in evidenza il processo di scollamento tra intellettuali universitari e intellettuali massa. Gli rimproveravo di accogliere “il processo “riformatore” di Luigi Berlinguer guardando le cose della scuola dal punto di vista degli appartenenti a una “corporazione buona”. Dicevo che: “i “nuovi” progetti e i “grandiosi” problemi “epocali” trattati da Ministro, Saggi, Esperti, ecc. si [andavano] ancora una volta scaricando sulle spalle di insegnanti e studenti costretti a marciare a testa bassa, ingolfati in assillanti “vecchi” e “nuovi” problemi quotidiani”. Notavo che, mentre Fortini aveva suggerito “una energica riduzione dell’insegnamento delle patrie lettere” e scriveva: “ Non so che cosa si aspetti a farla finita, ma sul serio, con Dante […] il silenzio e ‘ignoranza vera sono sempre preferibili alla pratica corrente del “tutto e male”, ossia dell’ignoranza falsa” (Insistenze, pag. 114) e Remo Ceserani e Lidia De Federicis aveva lanciato sul mercato Il Materiale e l’immaginario, anche lui, Luperini, pur con altro taglio, pubblicava un manuale La scrittura e l’interpretazione di dimensioni altrettanto gigantesche. Riletta oggi, di fronte al disastro della scuola italiana, mi sento di difendere ancora la mia inquietudine di allora niente affatto settaria (ma soltanto solitaria). Ne pubblico oggi alcuni stralci.
1. La scuola
Non riesco a parlare dei problemi della scuola d’oggi mettendo da parte certe analisi dell’istituzione del periodo che va dalla contestazione del ’68 al ritorno all’ordine portato a compimento fra anni ‘80 e ’90.
Nel tuo libretto, e nelle Diciassette tesi in particolare, la questione, che con approssimazioni e riduzionismi una volta si chiamava delle strutture scolastiche in che conto è tenuta?
A me pare che ti soffermi più sui condizionamenti storici di lunga durata (23) che sull’ultimo trentennio. Parli dell’«egemonia dello strutturalismo e della semiologia» (23) e dell’«incapacità sia degli organi di governo sia dell’università di porsi concretamente il problema della formazione e dell’aggiornamento degli insegnanti» (24), ma non vedo preso in considerazione il carattere distruttivo o restaurativo delle scelte economiche e politiche degli ultimi trent’anni. Non accenni più (se non sbaglio) alla rottura del ’68. E le conseguenze che stanno avendo le trasformazioni del lavoro (cibernetica, informatizzazione) sulla scuola e sui giovani vengono analizzate solo come risvolto del «cambiamento dei modi di percezione» (22). Parli della scuola che va riformata, ma nella comune – per me insoddisfacente – accezione della «necessità di un adeguamento alle trasformazioni economiche e culturali» (21).
Accogli, cioè, il processo “riformatore” di Luigi Berlinguer, anche se ne critichi i «modi contraddittori e talora francamente inaccettabili» (21). Ma in che rapporto stanno tali “riforme” con «il malessere che attraversa la scuola» o con la «situazione di crisi ben più generale»?
Il tuo dissenso si concentra soprattutto sulla «scarsissima attenzione che al problema della letteratura – rispetto alle altre discipline – è stata data da parte della commissione dei 39 cosiddetti saggi» (21).
Questo discorso, puntuale, aggiornato e accompagnato da proposte, ha degli interlocutori, gli insegnanti di lettere (o una loro sezione “aurea”, grosso modo da licei!) e guarda le cose della scuola da un punto di vista che chiamerei da corporazione buona. E, perciò, a me pare vago o sfumato su certi aspetti cruciali delle pratiche quotidiane (ed esistenziali) della massa degli insegnanti e degli studenti.
E’ come se ci fosse uno schermo, un filtro distorcente, fra la tua riflessione e quelle degli insegnanti e degli studenti. Almeno quelli ancora capaci di non sorvolare sulla pesante esperienza che fanno nella scuola reale.
E’ come se la strozzatura (tradizionale) fra il livello universitario e i restanti livelli scolastici (dalle superiori in giù), che è stato uno degli effetti non secondari del ritorno all’ordine, non fosse più un problema decisivo.
Accettata tale strozzatura che ci divide, dubito che la prospettiva dell’ermeneutica, da te proposta, possa essere il «possibile nuovo centro morale e culturale da cui muovere per coniugare insieme interpretazione e democrazia» (25). A me pare, invece, che tale prospettiva non tenga conto dell’attuale «malessere che attraversa la scuola». E non veda che i “nuovi” progetti e i “grandiosi” problemi “epocali” trattati da Ministro, Saggi, Esperti, ecc. ancora una volta vengono scaricati sulle spalle di insegnanti e studenti, i quali sono sempre più costretti a marciare a testa bassa, assillati da vecchi e nuovi problemi quotidiani. E ho la percezione netta che, per attuare tali progetti “grandiosi”, vengano forniti attrezzi rudimentali (o nessun attrezzo). E che – anzi – si accrescano soprattutto i vincoli esterni al rapporto “educativo”. C’è, insomma, un macigno politico che blocca ogni possibile scambio culturale ben intenzionato.
2. L’umanesimo
L’emarginazione della scuola pubblica, della letteratura e dell’insegnante di lettere è stata ratificata proprio dalla ristrutturazione di questo Ministro della P.I. Ci si può indignare, ma l’indignazione è tardiva. E c’è da dire, però, che la cultura umanistica, oggi aggredita dallo «sviluppo delle tecniche massmediologiche e dei processi di informatizzazione», era da tempo adulterata. Basti pensare che un certo umanesimo italiano si era già compromesso col potere fascista prima e con quello democristiano dopo. E che la scuola, alla fine degli anni ’60 ancora “umanista”, fu incapace di accogliere rinnovandosi a caldo, i bisogni culturali insoddisfatti di pezzi di società bassa e neppure la domanda culturale di massa. Fu contestata per buoni motivi. Successivamente, però, ha disaggregato e disgregato (e parzialmente integrato) quella domanda di massa. E ha accettato di difendersi dai barbari irrigidendo le sue strutture invece di modificarle, diventando la prigione-laboratorio-scuola, dico io. Oppure la scuola parcheggio della disoccupazione e del disagio giovanile, come hanno ben documentato altri.
Non rifiutando, comunque, il problema di un intervento cultural-politico nell’oggi, che tu poni, mi chiedo però a quali condizioni la difesa della scuola pubblica e della letteratura potranno diventare obiettivi condivisibili almeno da minoranze di insegnanti e studenti che vorrebbero resistere al processo di emarginazione e riaprire un discorso non di semplice aggiornamento.
E’ sostenibile ancora oggi pensare che «il rilancio dell’insegnamento della letteratura coincide[rebbe] con la rifondazione stessa della scuola italiana» (32)? Grandi su questo punto i miei dubbi.
In cerca di lumi, ho riletto della voce Letteratura di Fortini i passi dove più sottolinea la crisi del valore letteratura. Non sono inchiodato alle sue posizioni, ma come non condividere il suo pessimismo di fronte al percorso che, nel ‘900, ha portato dalla «letteratura legata all’uomo cristiano borghese» alla «non letteratura» e poi alla abolizione di ogni mandato sociale per lo scrittore e alla imposizione della via «sacerdotale» , dell’ascesi letteraria?
In Fortini ho ritrovato anche spunti vicini al tuo discorso. Quando afferma che non bisogna rinunciare all’«avvenire della letteratura», anche se quell’avvenire non può riguardare l’istituzione letteraria odierna»; o quando parla della necessità della mediazione.
Basta, però, un movimento di professori di lettere per riportare nella scuola la bandiera della letteratura così stracciata e infangata, senza finire – come giustamente temi – nella «difesa del passato»? E la letteratura – da sola o sostenendosi sull’autorevolezza dell’ermeneutica – davvero può essere «scuola di democrazia»(28)?
Quando affermi che «solo il testo letterario offre l’esperienza dello spessore e della pluralità dei significati e insegna così che la verità è relativa, storica, processuale» (15), mi pare di vedere l’ideologismo del letterato, la sopravvalutazione della letteratura e una semplificazione della lotta per la democrazia.
E, perciò, non capisco molte cose:
– come la giusta esigenza di «confrontarsi con le grandi esperienze – esistenziali, morali e civili – racchiuse [per me non esclusivamente] nel patrimonio letterario e umanistico» possa/debba avvenire quasi esclusivamente in pratiche scolastiche da tempo compromesse;
– perché la letteratura (o solo la letteratura e non anche le scienze o qualsiasi altra attività umana) «è di per sé una disciplina aperta»(25), «è un momento di ingresso in altri mondi, non di chiusura» (25-26) o può proporsi come «un momento di sintesi e di raccordo fra le altre discipline» (33);
– perché il rischio di ideologismo riguarderebbe solo o soprattutto quanti sperimentano le nuove tecnologie e non quanti s’occupano di letteratura (28);
– perché escludere – se davvero alla verità ci si arriva attraverso un «processo dialogico» – che possa sorgere, prima o poi, anche tra i fautori della lettura impressionistica. (Che è poi così totalmente autistica, arbitraria, impermeabilizzante?).
Inaccettabile trovo poi l’idea che «la democrazia deve essere composta di cittadini competenti, che conoscono ciò di cui discutono e su cui decidono»(28). Mi pare una visione “scolastica” (ristretta e meritocratica!) della democrazia. Taglia fuori, infatti, dal processo della lotta democratica una bella fetta della popolazione o del genere umano o, starei per dire, la moltitudine (Negri, etc.).
La società è ovviamente incompetente nella gestione di tantissime questioni. E non è pensabile che possa diventare in fretta competente. Ma allora? Si può accettare la esclusione degli incompententi? Specie quando sappiamo quanti danni ha fatto lo strapotere dei competenti (finti o veri)?
Preferirei , dunque, una idea di democrazia più “generosa”: quella che potrebbe prodursi da una pratica che intrecci competenze e incompetenze, legami dinamici tra saperi specialistici e saperi comuni o anche “sorpassati”. Anche la ormai sacralizzata «verifica collettiva» mi pare un giudizio di minoranze, magari anche rappresentative di maggioranze, ma sulla competenza e sulla democraticità di tali minoranze rappresentative non ci giurerei. E sprecherei, perciò, qualche parola in più in difesa della verifica (libertà) individuale.
Infine, tutta questa emarginazione della lettura, della letteratura e delle materie umanistiche non è un po’ gonfiata? E non si deve aggiungere che una buona parte dei rappresentanti delle potenti tradizioni umanistiche di un tempo, pur ridimensionate oggi nei loro poteri, non sono “vittime” ma convivono assai bene con logotecnocrati o tecnocrati, come con preti, cardinali e poteri privati d’ogni genere?
3. L’insegnante di lettere
L’insegnante di lettere fino a che punto oggi è ancora insegnante di lettere? E l’insegnante-tuttologo, figura estrema della crisi dell’umanesimo, non svela, per contrasto, la fossilizzazione e l’anacronismo dell’odierno insegnante di lettere?
Qui – credo di concordare con te – la «terza via» va perseguita saldamente contro ogni pendolarismo fra i due estremi. Non si tratta di attestarsi sullo scolasticismo contro il tuttologismo. Andrebbe ripresa e raffinata sia la critica allo scolasticismo (anche umanistico, anche disciplinare e autoritario, specie quello sacerdotale-sapienziale) e sia la critica all’esistente (la tuttologia, la cultura del frammento).
I bersagli dovrebbero essere due: la cultura per le élites (nella forma «alta» perseguita finora almeno in teoria nei programmi dall’università e dalla scuola) e la cultura di massa alimentata prevalentemente dall’industria culturale. Ma, per vedere quanto regge la tua ipotesi del professore come intellettuale nel senso gramsciano/sartriano, ci vorrebbe una reale conoscenza della condizione degli attuali insegnanti: quelli di lettere, i tuttologhi, gli acculturati di massa.
Gli insegnanti di lettere – colleghi volenterosi e non imboscati in doppi lavori – hanno dovuto subìre, ancora una volta, le scelte “culturali” editorial-universitarie, dei manuali in particolare. E lo scarto fra il loro senso comune e gli sviluppi degli studi di critica letteraria s’è accresciuto. Ma c’è di peggio. Mentre la critica letteraria, pur corporativizzandosi si rinnova, la categoria degli insegnanti (e non solo quelli di lettere) si corporativizzava al ribasso, rinunciando a ogni tentativo di rinnovamento culturale del loro lavoro concreto ormai declassato. Perché si è imposta una comunicazione unilaterale dei saperi dall’alto verso il basso almeno al 90%. E sono state cancellate tutte le pratiche, magari anche approssimative, che negli anni ‘60-‘70 provenivano sia dal basso che dall’alto e si alimentavano a vicenda.
E’ venuta meno la spinta dal basso. Gli insegnanti più aperti e inquieti si sono ridotti a pubblico o a tifosi che nei corsi di aggiornamento si sono adattati a provare l’abito nuovo così com’era stato già confezionato dagli specialisti. L’hanno indossato per alcuni anni, influenzati dal battage pubblicitario della Macchina massmediale ed editoriale. E non per convinzione ragionata o accertata efficacia didattica. Altri (forse la maggioranza) hanno tirato dritto per la loro strada, continuando a insegnare sulla base di quanto appresero all’università in gioventù. ( E non so dargli del tutto torto).
4. L’ermeneutica
Un tantino élitario (e autoritario) mi pare anche il tuo modello di insegnante-ermeneuta. E, sempre a causa dello sprofondamento di quelle istanze democratiche vive nel ‘68-’69, credo che l’ermeneutica potrà migliorare poco la didattica della letteratura nelle scuole superiori. Anzi rischia di essere usata come vernice d’ordine proprio come, negli anni dei movimenti, una certa vulgata marxista fu usata da vernice rivoluzionaria.
Non sottovaluto le questioni teoriche. Né voglio contrapporre alla tua proposta di «sviluppare gli aspetti positivi dell’ermeneutica per favorire la formazione civile e democratica dei giovani» (p. 125) la “nuda realtà”, l’esistente. Penso, però, che gli attrezzi, a volte sin troppo raffinati e aggiornati costruiti a livello universitario, a causa della strozzatura fra alto e basso di cui ho detto, non arriveranno mai alla massa degli insegnanti della scuola superiore. E questo capiterà all’ermeneutica oggi, come è gia capitato a Ceserani ieri e forse agli stessi logotecnocrati.
Le teorie letterarie e i manuali scolastici ispirati a teorie più aggiornate hanno la stessa sorte che è toccata a certe tecnologie avanzate quando vennero esportate nel Terzo mondo.
I loro fautori sottovalutano che i rapporti gerarchici e burocratici della scuola nuovamente irrigidita proteggono inerzie e routine, deformando o ridimensionando pesantemente qualsiasi innovazione. Questa possibilità di innovare è stata sottratta a insegnanti e studenti e, infatti, viene decisa dall’alto, dagli specialisti, dai gruppi di saggi, e viene imposta senza guardare in faccia nessuno, pur sapendo che o resterà lettera morta o otterrà adesioni gregarie.
5. La classe come comunità ermeneutica
Come fare una selezione “ragionevole” dei testi letterari del passato. Cosa avviene o può avvenire nel rapporto didattico tra insegnanti e studenti. Sono tutti buoni e appassionanti problemi. E le tue indicazioni – approccio linguistico, conoscenza della semantica testuale, corretta lettura del senso materiale, possesso di alcuni strumenti storico-filologici (29) – sarebbero ottime, ma se ci fosse una efficace mediazione politico-culturale tra il livello universitario, che oggi è l’unico a proporle e la realtà di insegnanti e studenti che le dovrebbe accogliere, valutare e rielaborare ed è, invece, in gionocchio e inerte. E sono venute meno o si sono inquinate tutte le organizzazioni legate al movimento operaio, che nei decenni passati facevano da sponda critica. E, dunque, si rischia di fare un discorso idealistico e doveristico sui valori o sulla valorizzazione della scuola o sull’autovalorizzazione degli insegnanti come intellettuali.
Spiego con un esempio questa mia perplessità: ad una folla esasperata e disorientata, che cerca di sistemarsi in un vagone della metropolitana troppo stretto, trascurato e sgangherato, viene chiesto di avere gli stessi comportamenti ragionevoli che avrebbe un gruppo limitato di persone che accedesse ad un vagone spazioso e comodo.
L’inganno del “doverismo” sta in questa pretesa di ottenere dagli insegnanti e dagli studenti gli stessi comportamenti “normali” o “virtuosi”, che sono stati acquisiti dalle élites in condizioni mille volte più favorevoli. Gli studenti e gli insegnanti della scuola pubblica di massa dovrebbero convincersi o essere costretti per il loro bene a fare in fretta e “ammucchiati” quello che gli studenti delle scuole ben attrezzate e d’élite (e ce ne sono di pubbliche e di private) fanno con agio in cenacoli e seminari per pochi.
6. Lo scolasticismo
I processi di apprendimento scolastico non sono mai lineari e oggi risultano sempre più sconnessi da quelli vissuti nell’extrascolastico. Quel che di buono o di ottimo si imparasse in classe in questa tua ideale comunità ermeneutica può essere perduto o stravolto, appena insegnanti e studenti entrano in contatto con gli altri ambienti sociali che impongono regole ben più crude e spicce. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle strade la “comunicazione democratica” o “umanistica”, il cui fantasma sembra ancora aleggiare a scuola, è sostituita dalle manipolazioni e dagli inganni più insidiosi.
Il filo che, secondo te, unirebbe l’apprendimento nella comunità ermeneutica e il «non tirare i sassi dal cavalcavia» o il non uccidere la dostoeskijana vecchietta, non lo vedo. E non posso risparmiarmi l’esempio abusato dei giovani nazisti che, pur educati dai loro insegnanti alla musica di Beethoven, fecero quel che sappiamo.
Un testo non è la realtà, mi pare sottolineasse spesso Fortini. Da esso non si ricava, cioè, quello che ricaviamo da un rapporto reale, aggiungerei io. Da un testo possiamo ricevere un’eccitazione del pensiero o dell’immaginazione, un desiderio di maggiore libertà o di felicità o di agire. Orienterà – ma alla lontana – le nostre pratiche nella vita reale. Non è, cioè, automatico che «imparare a dar senso al testo significa imparare a dar senso alla vita» (19) . Ahimè, quante amare esperienze lo confermano! Quanti buoni teorici hanno visto smentite, nella pratica della vita, le conquiste di senso che pensavano di aver guadagnato studiando i testi amati e egregiamente interpretandoli!
Quanto di democratico può essere costruito in un’aula scolastica mai o quasi mai si diffonderà automaticamente a comunità più ampie, se non si costruiranno le condizioni sociali, politiche, culturali favorevoli alla democratizzazione dei rapporti sociali.
Insomma, la scuola non è tutto e non dovrebbe essere tutto. Né può essere la dimensione paradigmatica delle esperienze umane possibili.
Le pratiche scolastiche (anche buone) sono necessarie ma perché mancano altre pratiche migliori. Proprio perché scolastiche, cioè in apparenza autonome ma in fondo autoreferenziali, sono sempre più insufficienti.
Fui poco affascinato dalle posizioni contro la scuola o dalle teorie della descolarizzazione (Pasolini, Illich) in voga negli anni ’70. Esse però non trascuravano l’elemento di violenza implicito in ogni educazione, anche buona. E continuo a guardare con sospetto l’enfasi posta sul rapporto scolastico – quello tra maestro e discepolo, tra professore e studente – in buona parte ormai defraudato della sua tradizionale ma troppo mitizzata funzione formativa. Esiste tanta cattiva pedagogia che produce tanto scolasticismo gregario. E fa chiudere gli occhi sui rapporti sociali reali – umani e disumani – in cui gli individui vengono a trovarsi e nei quali, volenti o nolenti, si costruiscono o vengono purtroppo costruiti.
Due osservazioni, en passant. Su Luperini e la “riforma” Berlinguer, ricordo che Luperini, durante una riunione di “Allegoria”, se ne uscì dicendo, in modo molto transchant, che Luigi Berlinguer era stato il peggior ministro dell’Università che l’Italia abbia mai avuto.
Sull'”auspicio” di Fortini di farla finita con Dante nella scuola, oggi entrambi gli schieramenti politici convergono sull’idea di, per dirla alla Fortini, “una energica riduzione dell’insegnamento delle patrie lettere”, a favore delle materie “tecnologiche”.
Come per la “svolta green”, anche per “Dante” il capitalismo ha fatto propria l’idea di ridurre l’insegnamento delle materie umanistiche nella scuola italiana, col risultato di stravolgere l’auspicio fortiniano.
@ Roberto ( Bugliani)
1. Lo disse in anni precedenti la stesura di questo suo libro o dopo?
2.Mi pare che Fortini dicesse che la scuola italiana, ridottasi in condizioni miserevoli, non era degna di occuparsi di Dante, perché della verità contenuta nella Commedia non poteva passar nulla agli studenti.
Errata corrige: il minstro era Luigi (Berlinguer).
Quando lo disse Luperini non me lo ricordo proprio.