di Ennio Abate
Su Disobbedienze
– al gergo, al cosiddetto «politichese» o «sinistrese»;
– alle burocrazie di partito con la loro «boria degli «eredi» e dei «saputi»»(24, I);
– al marxismo «di uso corrente», che, almeno da dopo Lenin, non ha saputo parlare più «del valore che si sposa alla disperazione (la solidarietà, il coraggio, la lealtà, l’amicizia, l’amore» (28, I);
– alla cancellazione della memoria e al sogno/utopia di abolirla (37, I);
– allo stacco fra parole e azioni; e quindi alla «riduzione a «cultura» delle opere, cioè, a erudizione, a nozione, a sapere slegato dai bisogni sentiti oinespressi o mal espressi.(«Da noi… puoi dire quasi tutto ma non puoi fare nulla senza l’immediato intervento del nemico», 39, I);
– a un «modo astratto e dottrinario» o, per contrasto, leggero e disincantato di guardare il mondo e gli orrori della storia;
– all’estetismo, che giudica bello anche «il falso», mentre per Fortini «non è possibile un «bellissimo» che sia falso» (49, I), essendo la bellezza per lui un valore, «non […] una decorazione, una gala, un vestito della festa, una consolazione» e,perciò, non slegata dal fare, dalla politica, essendo «ogni opera di poesia è una proposta politica perché ogni poesia è una notizia sui modi di essere degli uomini» (50, I), mentrearte e poesia sonosoltanto casi particolari della «più generale capacità formativa e formale» degli uomini; – alla visione illuministica dell’uomo tutto Ragione; e, quindi, alla riduzione della religione a «misticismo e irrazionalità» (48, I), del marxismo a giacobinismo, del comunismo ad antifascismo (49, I);
– a chi vuole «vivere di analisi già fatte, di sintesi che invecchiano»;
– alla faciloneria con cui si affronta di solito il rapporto vecchio/nuovo o «il mai concludibile discorso sul rapporto fra azione politica e azione intellettuale e morale» (90, I);
– alla tradizione ebraica paterna, per cui scelse posizioni sempre nettamente critiche nei confronti della politica di Israele verso palestinesi e arabi. ( Cfr. Cani del Sinai, ma anche Un luogo sacro in Extrema ratio, Garzanti 1990).
Potrei riassumersi così la sua posizione: Dire tutto il dicibile e tentare, il più possibile, di scavare nell’indicibile.
Sui futuristi
3. Essendo prevalsa con la Prima Guerra Modiae la faccia distruttrice e dominatrice del Capitale, quella esaltata dai futuristi italiani e marinettiani, e avendo visto che anche quella dei futuristi russi o di Gramsci fu proletaria e socialista solo nella Russia di Lenin del 1917 e davvero per poco tempo, si possono alimentare, a Novecento concluso, ancora speranze su una modernizzazione «buona» o «dal basso» (o pensare a dei futurismi buoni e dal basso), tipo quelle diffuse tra i primi gruppi operai torinesi raccolti attorno a «l’Ordine nuovo» di Gramsci?
Direi di no. Ed ecco perché tra un Sanguineti, che si attesta sul giovane Gramsci «movimentista» o sul Majakovskij antimperialista o sull’anarchismo Dada e un Fortini che tiene conto del Lukács de «La distruzione della ragione» mi pare più attuale e interessante il giudizio radicalmente negativo che Fortini dà non solo del futurismo italiano ma di tutte le avanguardie del primo Novecento (l’espressionismo, il futurismo russo, il surrealismo), perché indica il limite nichilista di fondo di tutti questi movimenti in cui almeno una parte della piccola borghesia intellettuale ,anche quando non fa la scelta bellicista e poi fascista dei futuristi italiani, con la sua esaltazione acritica e neutra del “nuovo” a tutti i costi si brucia o confluisce nella incessante “rivoluzione capitalistica”.
Fortini, infatti, coglie i gravi equivoci in cui incapparono sia l’avanguardia russa che i surrealisti, quando ebbero legami «molto complessi e talvolta tragici e sanguinosi» con anche con la rivoluzione socialista.
Majakovskij e l’avanguardia russa degli anni Venti, Brecht e una parte degli scrittori tedeschi dell’età di Weimar, i surrealisti francesi fra il 1925 e il 1935 e pure la neoavanguardia italiana degli anni ‘60 del Novecento «dimostrano che l’arte e la letteratura d’avanguardia esistono solo in quanto antagoniste di qualsiasi ordine» ma si ritrovano poi spiazzati o inerti quando o il fascismo o lo stalinismo o il neocapitalismo impongono loro il “ritorno all’ordine”.