Di solito recensire un romanzo risulta più agevole che valutare criticamente un’opera di poesia o una raccolta di racconti, in sostanza è sufficiente seguirne la linea tracciata dalla trama e il pensiero dell’autore, sotteso al tema trattato e ai personaggi determinanti, finisce col delinearsi da solo.
L’impresa risulta decisamente più ardua quando si affronta un romanzo come Il Regno doloroso di Paolo Valesio, un romanzo <<disallineato per forma e contenuti>> in special modo adesso, all’interno di un contesto culturale dove l’allineamento risulta – e lo affermo senza troppo timore di essere smentita – il primo e basilare comandamento per una scrittura che chieda di essere pubblicata o perlomeno di non essere ignorata.
La recentissima pubblicazione dell’opera di Paolo Valesio de Il Regno Doloroso, per le edizioni Diaforia, nella collana Floema, maggio 2024 – riproduce fedelmente e integralmente, salvo minime variazioni, la prima edizione a stampa apparsa nel 1983.
Nel congresso del 1964, all’interno del Gruppo ’63, si era proposto un modello strutturale per il romanzo sperimentale, che si concretizzò in opere sostanzialmente de-strutturate, caratterizzate principalmente da un collage letterario, un pastiche narrativo che sminuzzava e e sezionava i tasselli, come nell’opera Oblò di Adriano Spatola. Anche all’interno di questo trend culturale però l’opera di Valesio finisce per allontanarsi, definendo uno sguardo non frammentario sulla realtà quanto piuttosto una disposizione particolare dello sguardo che registra, indaga ogni anfratto del reale per scoprirne l’afflato vitale e generativo, potremmo dire un bosone di Higgins,con l’attenzione conoscitiva e specifica del ricercatore che segue al microscopio pieghe e fratture di una realtà scandagliata nei suoi prismatici riflessi.
I tre protagonisti esplorano, scrutano, narrano la realtà e insieme ne sono guidati, condotti da una voce narrante che ne trattiene le fila; sono monadi che non si scontrano tra loro ma registrano la molteplicità aggrovigliata di cui fanno parte.
Come da una goccia di colore nasce la rappresentazione magmatica e labirintica di Pollock, artefice di creazione intrecci e grovigli, allo stesso modo i minimi lacerti della vita che scorre vengono scandagliati nei diversi piani, realtà-irrealtà-surrealtà, nella speranza di poterli afferrare per trovare un qualche bandolo della matassa, ma è una realtà pollockiana quella che avvolge i tre protagonisti, Leo Aurelio e Arianna, e quindi inestricabile, nonostante uno sguardo esterno che li segue, senza avere però alcun intento di riordinare spezzoni inafferabili.
Materia del reale penetrata attraverso una posizione spirituale di consapevolezza estrema, la spiritualità scaturita dalla nostra epoca che, abbandonata ormai la figura con barba e baffi a cui veniva attribuito il principio del mondo – ha sviluppato una mistica egocentrica, solipsistica, una self-mistic che indaga quasi esclusivamente se stessa nei suoi rapporti con il mondo esterno e in esso specchiandosi in un dialogo esclusivo e narcisistico. La self-mistic scandaglia la realtà ruotando intorno all’ego in cerca principalmente del benessere psicologico della propria individualità e lo persegue con tutti i mezzi, dallo yoga al life coach, alla seduta psicanalitica online. La scoperta è che si gira a vuoto in un labirinto di stimoli che conducono ad altro e altro ancora fino al dilemma della libera scelta – dilemma che esiste perché la confusione stordisce e il dubbio attanaglia dove domina l’incertezza: un regno doloroso da cui non se ne esce.
Narrazione complessa, questa del Regno doloroso, arricchita da un linguaggio che non tende alla trasposizione di una concretezza dozzinale attraverso un’espressività impoverita, anzi una lingua elegantemente letteraria che attraverso la ricchezza della tradizione italiana, e per mezzo di essa, si apre anche alla rottura di ogni purismo per accogliere con disinvoltura i contributi stranieri senza perdere le sue prerogative.
La lingua si apre a ventaglio per raccogliere anche le arditezze poetiche e segmentarsi in un prosimetro sincopato:
…ubriaca? No, la voce non era quella di un’ubriaca; ma sì di una donna inebriata da qualche cosa di sottile e mentale, da un’ilarità selvaggia residente in testa.
Ma l’altra possibilità è sinistra –
Tale che evoca una precisione cattiva, un atto dove ciò ch’è inquietante non è il fatto mero che violenza è presente, ma piuttosto che la violenza sia amministrata con tanta abilità: l’abilità di riconoscere che
la violenza dev’essere costretta,
ristretta ad una punta luminosa
non più grande della capocchia di spillo, per essere efficace.
Cioè, quel che è accaduto è forse che:
lei stessa, l’esilarata di furore ilare e improvviso –
ha calcolato nello spazio di un secondo quanto essa poteva dire :…
Con il Regno doloroso Paolo Valesio ripropone la necessità di un atteggiamento pionieristo nella ricerca letteraria in prosa, una tensione da cercatore d’oro, a volte isolato e abbattuto ma sempre inesausto, soprattutto in un periodo come il nostro di assoluto livellamento e omologazione, nel tentativo di scimmiottare i bestsellers d’oltre oceano, scritti con sapienza e con l’obbiettivo ben preciso di diventare fiction televisive o essere ridotti in sceneggiature per il cinema. Nella prospettiva utilitaristica del prodotto letterario, ogni tensione alla ricerca e alla sperimentazione viene cancellata in favore di un utilizzo editoriale o trasposizione mediatica che ne allarghi la visibilità e la leggibilità in chiave banalizzante con il conseguente appiattimento e la ripertizione di caché frusti e sbiaditi. Questa opera di Valesio è un romanzo che viaggia su di un binario desueto, al momento praticamente inutilizzato, soprattutto nel periodo attuale, che ci propone un’assoluta omologazione di forme e contenuti e prospetta un panorama ancora più appiattito – è infatti degli ultimi giorni la notizia di una nuova app che permetterebbe agli editori di sapere prima della pubblicazione, quante copie si potrebbero vendere di quel dato libro; le opere finiranno con lo scimmiottarsi a vicenda e nascerà un nuovo filone di remake, vale a dire libri che si rifanno a opere letterarie moderne e classiche ma categoricamente di grande successo per assicurarne la vendita.
Resta deserto il cammino faticoso e a tratti scoraggiante di scavo, di ricerca personale all’interno della materia letteraria per una forma d’arte o espressione originali, che ricerchi contenuti nuovi, anche audaci e scostanti, un viaggio lungo questo binario all’apparenza obsoleto, attraverso una terra inesplorata, in direzione di una meta tanto ignorata quanto futuribile.