di Laura Castellano
Uno dei sonetti che meglio rappresenta la consapevolezza femminile in merito alle proprie capacità, non solo nella poesia, ma anche in altri ambiti più schiettamente maschili, è Sdegna Clorinda a i femminili uffici, di Petronilla Paolini Massimi.
Si tratta di uno dei sonetti più famosi della poetessa; le sue intenzioni, riportate sin dall’inizio nell’indice del tomo I delle Rime degli Arcadi, sono chiare: «Che alla Dama non disconvengono gli esercizj Letterarj, e Cavallereschi».
Dedicato al tema dell’uguaglianza fra i sessi, il sonetto ha donato all’autrice «la fama di femminista ante litteram». (Petronilla Paolini Massimi. Le rime: raccolta degli editi, a cura di Gamberoni et al., C.d.C, 2004, p. 84.)
Sdegna Clorinda a i femminili uffici,
Chinar la destra, e sotto l’elmo accoglie
I biondi crini, e con guerriere voglie
Fa del proprio valor pompa a i nimici.
Così gli alti natali, e i lieti auspici,
E gli aurei tetti, e le regali spoglie
Nulla curando, Amalasonta coglie
Da’ fecondi Licei lauri felici.
Mente capace d’ogni nobil cura
Ha il nostro sesso; or qual potente inganno
Dall’imprese d’onor l’alme ne fura?
So ben, che i fati a noi guerra non fanno,
Nè i suoi doni contende a noi natura:
Sol del nostro voler l’Uomo è tiranno.
Nelle quartine la poetessa porta due esempi di donne che, con il loro valore, sono riuscitea raggiungere vette elevate, in abilità prettamente virili; nelle terzine si sofferma su una riflessione generale sulle capacità muliebri e su chi sia responsabile di «aver convinto le menti femminili di una loro congenita debolezza e inferiorità». (Petronilla Paolini Massimi, op.cit., pag. 84)
La prima strofa fa riferimento al personaggio tassesco di Clorinda, la guerriera saracena di carnagione chiara e dalla bionda chioma. Quest’ultima, sdegnando di «Chinar la destra» (v. 2) «a i femminili uffici» (v. 1), si identifica subito nel ruolo di guerriera grazie ad alcuni elementi caratterizzanti. La «destra» (v. 2), da non chinare a compiti femminili, brandisce la spada; l’«elmo» (v. 2) protegge il capo; le «guerriere voglie» (v. 3) denotano impeto militare. Fra tutti questi elementi tipicamente bellici, fondamentale è il contrasto che si viene a creare, in particolar modo, fra l’elmo e i «biondi crini» (v. 3), accentuato dall’unione dei due sintagmi tramite un enjambement.
A evidenziare lo sdegno dell’eroina nei confronti dei «femminili uffici» (v. 1) sono le
«guerriere voglie» (v. 3) con le quali «Fa del proprio valor pompa a i nimici» (v. 4).
L’importanza della parola «valor» è rimarcata dal fatto che, sulla sua seconda sillaba, cadel’accento tonico del verso, creando un endecasillabo a maiore. L’io poetico mette in risalto, dunque, l’abilità di una donna nell’arte della guerra elevandola a exemplum di
colei che eccelle in un ambito considerato maschile.
Il tono della strofa è piuttosto altisonante e questo si nota dall’intimazione iniziale data,
a sua volta, dal verbo imperativo («Sdegna» v. 1); dai due versi centrali, endecasillabi a minore, costruiti parallelamente e uniti entrambi dalla congiunzione «e» (vv. 2,3);
dall’anticipazione dell’aggettivo rispetto al sostantivo concordato («femminili uffici, biondi crini, guerriere voglie», vv. 1 – 3) e del complemento di specificazione rispetto al sostantivo («del proprio valor pompa» v. 4).
Il periodo si chiude nella misura della strofa: essa è caratterizzata da una proposizione
principale che regge una subordinata completiva soggettiva e due proposizioni coordinate introdotte dalla congiunzione «e» (vv. 2, 3).
La seconda quartina riporta un altro esempio di donna che si è cimentata con grande
successo in un compito maschile: si tratta di Amalasunta, regina degli Ostrogoti nel VI secolo d.C., uccisa dal cugino che governava insieme a lei; episodio nel quale si possono rintracciare alcuni richiami alla vita di Petronilla. La donna, nonostante «gli alti natali» (v. 5), i «lieti auspici» (v. 5), «gli aurei tetti» (v. 6), che fanno il paio con le «regali spoglie» (v. 6), «coglie / Da’ fecondi Licei lauri felici» (vv. 7-8). Il sintagma «nulla curando» (v. 7) esprime come Amalasunta, nonostante la nobiltà di natali, la buona sorte e il gravoso compito di governo assegnatole, ottiene grandi riconoscimenti («lauri felici», v. 8), anche in campo poetico.
Alcuni aspetti della vita della regina sono equiparabili a quelli della poetessa: gli alti natali, la speranza di un futuro di studi, l’abilità poetica nonostante il compito di governo, da un lato, le disgrazie della vita, dall’altro. È importante, però, non tracciare confronti troppo netti poiché spesso, è accaduto che «la poetica di questa rivendicatrice di diritti [Petronilla Paolini Massimi], invece, è stata diluita in un’interpretazione evenemenziale e il riduzionismo biografico, accentuando nei versi di Fidalma la dimensione individuale dell’esperienza vissuta, ha disinnescato la portata esemplare della voce di colei che, a nome di una collettività, affermava senza mezzi termini (AA. VV. 1997, II, p. 1221): “So ben che i fati a noi guerra non fanno / né i suoi doni contende a noi natura: / sol del nostro valor l’uomo è tiranno”. Analogo destino di silenziamento hanno del resto subito tutte le altre voci di donna che si siano levate, sollecitate dal favore dell’Arcadia del Settecento, a rivendicare spazi e ruoli da cui la tradizione le teneva escluse.» (Tatiana Crivelli, La donzelletta che nulla temea, Percorsi alternativi nella letteratura italiana fra Sette e Ottocento, Iacobelli, pag. 191-192)
I primi due versi della strofa rispondono a una struttura parallela, sia al loro interno che fra di loro. I sintagmi che li caratterizzano, infatti, sono composti da un aggettivo con il sostantivo posposto. Uno dopo l’altro, in maniera incalzante, si accumulano, sono uniti fra loro, per polisindeto, dalla congiunzione «e» (vv. 5, 6), e rimarcano – precedendolo – il sintagma finale «nulla curando» (v. 7).
Anche in questo caso il tono è solenne: notiamo l’anticipazione dell’aggettivo rispetto al sostantivo concordato («alti natali, lieti auspici» v. 5, «aurei tetti, regali spoglie» v. 6, «fecondi Licei» v. 8); la posposizione del verbo («Nulla curando, Amalasonta coglie», v. 7); l’anticipazione del complemento oggetto rispetto al verbo («nulla curando», v. 7).
Il primo e l’ultimo verso della strofa, endecasillabi a maiore, racchiudono i due versi centrali, endecasillabi a minore. Da un punto di vista fonico, l’ultimo verso della strofa è caratterizzato dall’allitterazione della fricativa labiodentale sorda /f/ nei due aggettivi in apertura e chiusura di verso che, al loro interno, presentano due sostantivi con allitterazione dell’approssimante alveolare /l/.
Se le quartine hanno un carattere esemplificativo, le terzine formalizzano chiaramente ciò che l’io poetico vuole comunicare, in modo netto, ovvero «Mente capace d’ogni nobil cura / ha il nostro sesso» (vv. 9 -10). Con un linguaggio altisonante, dato dalla sintassi marcata dell’anteposizione del complemento oggetto e dall’enjambement che lo divide dal predicato, la poetessa introduce la domanda cardine del sonetto: «or qual potente inganno / Dall’imprese d’onor l’alme ne fura?» (vv. 10-11). Come mai, anche se le donne possono vantare esempi di grande abilità e autorevolezza in ambiti prettamente maschili, poche si dedicano alle «imprese d’onor» (v. 11)? Qual è il «potente inganno» (v. 10) che le tiene lontane da queste imprese e dalla gloria? «La menzogna ha messo radici tanto profonde da aver convinto le menti femminili di una loro congenita debolezza e inferiorità». (Petronilla Paolini Massimi, op. cit., pag. 85)
Anche questa terzina, pur essendo formata da un unico periodo composto da due proposizioni coordinate per asindeto, presenta un linguaggio piuttosto formale dato da alcuni iperbati caratterizzati degli aggettivi rispetto al sostantivo concordato («nobil cura, nostro sesso, potente inganno», vv. 9-10); dall’anticipazione dell’oggetto rispetto al verbo posto alla fine della frase («Mente capace d’ogni nobil cura / Ha il nostro sesso» vv. 9-10, «or qual potente inganno / Dall’imprese d’onor l’alme ne fura?» vv. 10 -11). Nell’ultima terzina, la poetessa ha ben chiaro a chi si debba attribuire la responsabilità della subalternità femminile. L’incipit è alla prima persona singolare («So ben, che i fati a noi guerra non fanno, / Nè i suoi doni contende a noi natura», vv. 12-13), ma «Sol del nostro voler l’Uomo è tiranno» (v. 14). A fare in modo che le donne siano svantaggiate non è né la natura, dunque una iniziale condizione biologica di partenza, né il fato. Torna il linguaggio bellico- agonistico della prima strofa: «i fati a noi guerra non fanno» (v. 12), «Nè i suoi doni contende a noi natura» (v. 13), «Sol del nostro voler l’uomo è tiranno» (v.14). È impossibile non notare che «l’uomo merita l’appellativo di “tiranno” (in fine di verso perché sia rimarcato), lo stesso con cui la Paolini, nelle sue memorie, indica il marito: “[…] riflesso delle sue tristi esperienze coniugali”». (Petronilla Paolini Massimi, op.cit. pag. 85) La responsabilità è, dunque, «Sol» dell’uomo (v. 14); avverbio posto in incipit del verso affinché mostri chi è l’unico artefice della subalternità femminile. Ma, forse, per quel che si evince dal tono del sonetto, si potrebbe parlare anche di colpa.
Anche questa terzina è caratterizzata da un tono lapidario, dato dall’anticipazione del complemento oggetto rispetto al verbo («Nè i suoi doni contende a noi natura» v. 13); dall’anticipazione del complemento di specificazione rispetto al sostantivo («del nostro voler l’uomo è tiranno» v. 14).
Questo testo attribuisce le responsabilità della sottomissione femminile agli uomini. Tramite due esempi per antonomasia e la dichiarazione della prima terzina, si rivendicano le grandi abilità femminili in tutti i campi, compresi quelli maschili. Infatti, «è raro trovare nel XVIII secolo testi di donne nei quali il femminile si esprima, come in quelli di Petronilla, in termini di rivendicazione del proprio talento e della propria dignità in maniera così coraggiosa e inequivocabilmente contestativa nei confronti del potere rappresentato dagli uomini […]. Nel corpus paoliniano questo sonetto costituisce uno dei componimenti meglio riusciti, dove risulta equilibrata la fusione tra elementi autobiografici (l’odio per l’uomo che le ha devastato l’esistenza, […]) e percezione sociale delle regole su cui si declinano i rapporti tra uomo e donna, che anticipa di quasi cento anni il tema della rivendicazione della parità intellettuale fra i sessi.» (Luisa Ricaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e le loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, ed. Cadmo, 1996, pag. 139-140)
Del resto «il disorientamento psicologico indotto dalla lacerazione fra le aspirazioni dell’io e il mondo circostante si risolve nel linguaggio poetico che, […], innesca un meccanismo di catarsi verticalistica, cioè di movimento liberatorio che dal dolore, dal timore, […] procede in senso ascendente nella direzione dell’idealizzazione eroica». (Ricaldone, op. cit. pag. 153).
Non ci sono altri sonetti delle poetesse, fra quelli dei primi nove tomi delle Rime degli Arcadi (1716-1722), che esprimono in modo così chiaro la responsabilità della subalternità femminile.
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PETRONILLA PAOLINI MASSIMI
Petronilla Paolini Massimi nasce nel 1663 dal barone di Ortona, Don Francesco Antonio Paolini, discendente dai padroni di Magliano, e Silvia Caterina Argoli. La sua biografia è caratterizzata dalla privazione della libertà, poiché, come sostiene lei stessa, del volere femminile «sol […] l’uomo è tiranno». E ancora, «Qual onda al vento, e tra l’illustri cure / Sol potei numerar le mie sventure»: orfana di padre, reclusa in convento, sposa bambina del marchese romano Francesco Massimi, di cui subisce le angherie, torna in convento e cerca di riaffermare le proprie ragioni; tenuta lontana dai figli, conquista la sua indipendenza alla morte del marito.
La marchesa è animata dalla passione per la poesia, coltivata da sempre; una passione per la quale il rude marito sembrava aver paura più di ogni altra cosa. Proprio per questo motivo e per il suo “genio personale”, Petronilla attribuisce alla poesia un compito didattico e quasi salvifico.
Per vedere pubblicato il sonetto Pugnar ben spesso entro il mio petto io sento ne L’istoria della volgar poesia, dopo un primo rifiuto, nel 1698 entra a fare parte dell’Arcadia con il nome di Fidalma Partenide; questa adesione costituisce per la poetessa un riconoscimento delle sue doti letterarie e un modo per ottenere sostegno e protezione. Molti dei suoi testi sono pubblicati in diversi tomi delle Rime degli Arcadi e in varie raccolte. È citata nella Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli.
Muore a Roma nel 1726.