Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale

di Angelo Australi

Quel pomeriggio Rutilio aveva faticato come un matto a strascicare fuori dal sottoscala un rotolo di carta enorme, spesso, carico di piegature incartapecorite nascoste da uno strato di polvere. Lo fece cadere dal piano più alto di uno scaffale ma alla fine, visto che non ci stava riuscendo, per poterlo trasportare fu costretto a chiedere l’aiuto di Spartaco.

Adesso vecchio e bambino avanzavano in quegli spazi angusti del retrobottega maneggiando il rotolo come se fosse un gigantesco tubo di gomma. Rutilio faceva strada salendo gli scalini all’indietro e il nipote lo seguiva barcollando ad ogni passo come ubriaco non per via del peso, ma perché quello che trasportavano era lungo perlomeno quattro metri e così flessibile da muoversi a zig-zag come un grosso pitone. Indicativamente, ma questo solo per darvi un’idea, era grosso come quelle condutture che passano sottoterra per rifornire le abitazioni di acqua potabile.

Nel salire poi quella ripida rampa di scale che portava all’abitazione a Rutilio venne un certo affanno, così Spartaco, che non riusciva ad abbracciare il rotolo da quanto era grande, cercava di sorreggerlo sopportando tutto l’ingombro sulla testa. Faceva molta attenzione a non cadere, e soprattutto temeva che il suo precario equilibrio intralciasse il salire all’indietro del nonno.

Fatti un tot di scalini, si fermarono a parlare. Rutilio aveva i piedi sul mezzanino, mentre più in basso Spartaco starnutiva a mitraglia per via della polvere che inalava ogni volta si assestava il rotolo sulla testa.

– A che ti serve nonno, questo rotolo pieno di polvere?

– Lo sai che non ti so dare una risposta. Stavo pensando a come progettare il presepe il prossimo Natale e mi è presa voglia di frugare nel sottoscala del retrobottega, dove conservo tutte le cose della mia vecchia compagnia teatrale. Visto non c’è più la bottega di barbiere, possiamo costruire un presepe molto più grande del solito. Poi lo faremo visitare ai nostri parenti e amici, e a tutti quelli che camminando per la strada si fermeranno a curiosare attraverso la vetrina.

– Facciamo anche pagare il biglietto?

– Non dovrà circolare un soldo, un po’ come si sente il bisogno di entrare in chiesa a pregare.

– Se lo fai con queste cose antiche, in paese tutti ne parleranno.

– Non esageriamo, … è solo per ricordarsi che Natale è una festa davvero speciale.

Nel fare le sue domande Spartaco si manteneva concentrato a sostenere gran parte dell’ingombro che gli gravava addosso anche stando in posizione statica. Aveva fatto indigestione di polvere e ogni tanto starnutiva ancora, facendo traballare il rotolo sulla testa.

É tutto lì, chiuso da un miliardo di anni – disse Rutilio ridendo. – Prima o poi dovevo frugare di nuovo nella valigia dei sogni.

– Nonno, se lo facciamo nel retrobottega, questo sarà un presepe più grande di quello che fanno in chiesa. Sarà gigantesco, … forse più grande di quelli che vengono realizzati nelle città.

– Puoi giurarci. Siamo appena ad ottobre, se tuo padre ci aiuta abbiamo tutto il tempo per costruire un palcoscenico dove immaginare le scene.

– Sarà bellissimo.

– Lo faremo così grande perché mi è preso il capriccio di usare i vecchi pastori in gesso che non mostro più da anni, ce ne sono alcuni alti anche cinquanta centimetri.

– Grandi come quelli che usa don Luigi?

– Sì, la sacra famiglia, i re magi e alcuni pastori sono più o meno della stessa misura. Questi li terremo in primo piano sulla scena, e poi tutti gli altri li piazzeremo a decrescere in grandezza. Tutto in proporzione alle case, alle montagne rocciose, gli animali, le palme del deserto.

– Madonna, … ci fai anche il deserto?

– A questo giro sì, e quando sarà il momento chiederemo a tuo padre di realizzare un impianto delle luci che racconti la giornata dall’alba al tramonto, … con la cometa e la luna che di notte resteranno fisse in un cielo stellato.

– Madonnina santa!!!

– Questa è una delle vecchie scenografie che aveva dipinto tuo zio, mi dispiacerebbe un monte se in tutti questi anni si fosse rovinata con l’umidità. Non lo sai, ma nel sottoscala c’è la botola dalla quale si scende nella vecchia ghiacciaia, là sotto l’acqua filtra dal terreno e trasuda dai muri. Adesso, cessata l’attività di barbiere, possiamo tirarle fuori e dare una sistemazione più salutare nella vecchia bottega. Non ho buttato via niente, ci sono un sacco di spartiti musicali e di manifesti, i vestiti e la valigetta con il trucco per gli attori.

– Dove la metterai tutta questa roba, nonno?

– Ci facciamo degli scaffali lungo le pareti, e se non basterà mettiamo mano a sistemare anche il retrobottega.

– Sarà come entrare in un museo.

– Intanto cominciamo pensando al presepe del prossimo Natale, dove vorrei utilizzare per sfondo il paesaggio di questa scenografia.

– Sono curioso di vederla dal vivo.

– Tu non lo immagini nemmeno le cose che ci sono lì, nel sottoscala. C’è perfino la sagoma in legno di un cavallo smontata in tre parti: testa e gambe anteriori, il busto con il pancione, le gambe posteriori con la coda.

– Non vedo l’ora che tutto venga alla luce.

– Questa scenografia, se ha bisogno di qualche riparazione, la dobbiamo fare in terrazza prima che arrivi la stagione delle piogge. E poi dovrà stare dei giorni all’aria aperta, per levarsi di dosso l’odore della muffa.

La terrazza illuminata dal sole sembrava immensa, dalla parte che sporgeva verso i campi saliva un roso che ormai copriva tutta la ringhiera. Un roso dove vivevano lucertole, vespe, calabroni e insetti di ogni tipo. E poi in un angolo c’era un susino gigantesco, così alto da sovrastare il tetto di un fienile di proprietà di un vicino. La fissa della madre di Spartaco, da quando ne aveva visto girare uno in casa, era di abbattere il roso perché insisteva col dire che la notte i topi si arrampicavano furtivamente come dei ladri, incuranti delle spine. Il roso incorniciava un piccolo tabernacolo ricavato in un angolo del muro, che da quando il disegno di una maternità si era rovinato Rutilio aveva fatto intonacare e colorato di azzurro splendente per appoggiarci una scultura in gesso di San Francesco, anche questa apparsa magicamente dal sottoscala del retrobottega.

Quella domenica il cielo chiaro si saldava come per incanto al tetto del fienile e alla facciata bianca della casa. Spartaco e Rutilio adagiarono con cura il rotolo sul pavimento in mattoni della terrazza, adesso sembrava ancora più grande, qualcosa di simile al tronco di una quercia, al pilone in cemento che sostiene i fili dove scorre l’alta tensione. Il riverbero del sole li stava accecando. Gli occhi del ragazzo già un po’ lacrimavano per via della polvere sprigionata dal rotolo, così dal fastidio quasi non riusciva a tenerli aperti. Invece la faccia di suo nonno luccicava di sudore.

Sistemato il rotolo Rutilio si avvicinò al fornello del gas per preparare della colla con acqua e farina, quando la mistura fu pronta recuperò dei ritagli di carta e tornò in terrazza. Distese il rotolo lentamente per controllare sul retro nei punti dove era necessario un restauro. Tolse le scarpe e, forbici alla mano, osservò attentamente tutta la superficie. Si mise in ginocchio e incollò le prime pezze di carta. Il lavoro di rattoppo si protrasse fino al momento che la terrazza non fu completamente in ombra, perché il sole si era già spostato dal centro del cielo.

Quando sentiva dell’intorpidimento ai ginocchi, Rutilio si alzava in piedi e li stropicciava con forza. All’acuirsi di un dolore alla schiena si dava una stirata alzando in alto le braccia, come fingendo di aggrapparsi alla trasparenza dell’aria e afferrare qualcosa.

Spartaco lo osservava pieno di stupore, senza dire una parola. Era la prima volta che gli capitava di vedere un foglio di quelle dimensioni. Quando provò ad alzare un lembo per capire cosa nascondesse, il nonno gli intimò di fermarsi perché altrimenti rischiava di strapparlo. Negli ultimi tempi questo antagonismo del contendersi gli spazi era cresciuto fino al punto che restava sempre più complicato da parte del ragazzo nascondere una certa sofferenza. Per il nonno provava un affetto sincero, ma non poteva accettare che la sua curiosità e la voglia di fare restassero inappagate.

Perso nei suoi egoistici pensieri Spartaco non si era accorto dei rumori che provenivano dall’orto, fu colto di sorpresa quando sentì un tonfo secco e insieme la voce di suo padre che chiamava il nonno. Poi vide spuntare la cima di una scala lunghissima a ridosso della ringhiera.

– Aspetta lì – disse Ernesto, passando a Rutilio alcune stecche di legno lunghe alcuni metri e sottili. – Salgo su io a posizionare la scala… Ciao Fringuello – disse infine ridendo al figlio.

– Ciao babbo – disse Spartaco, appena vide Ernesto scavalcare la ringhiera.

Intanto Rutilio aveva passato al nipote quelle stecche di legno e adesso non facevano che vibrare come se gli battesse il cuore dopo aver corso.

– Sì, è pesante – disse Rutilio, – mi sarei ammazzato a tirar su questa scala.

Spartaco non capiva la funzione di quelle stecche di legno che stava sorreggendo ma, nonostante adesso ci fosse suo padre, non riusciva ad esporre una domanda.

Ernesto estrasse dalla borsa da carpentieri il martello e alcuni chiodi, avvolse prima un lato di quell’enorme foglio e lo conficcò alla stecca, poi l’altro, poi fece scorrere un tratto di corda per annodarla alle due estremità, preoccupandosi di lasciarla in tirare. Intanto dalle parti arrotolate alle aste di legno erano apparse delle macchie di marrone, di verde, di nero e di blu. Depose la scala sulla facciata della loro abitazione e conficcò nel muro due chiodi enormi, ad una distanza ragguardevole. Sceso dalla scala, si appoggiò l’enorme foglio sulle spalle facendolo roteare nel davanti grazie alla stecca che vi aveva fissato, ci scomparve dietro e salì di nuovo, mentre Rutilio sorreggeva l’immensa scenografia da un lato aiutandosi con la granata.

Spartaco non aveva ancora inquadrato il tutto, ma ormai quei marroni, verdi, neri e blu trasparivano da ogni piega del foglio in mille sfumature che andavano verso il rosso, verso il giallo, verso dei colori più scuri. Dal rumore la carta dell’enorme foglio dava l’impressione di rompersi ad ogni movimento di suo padre, così Rutilio raccomandava di sollevarlo con cautela, per non procurargli dei danni non più aggiustabili. Lo scenario affisso alla parete aveva nascosto quasi tutta la facciata, era scomparsa la porta della terrazza, la finestra del bagno e quella della camera dove dormiva Rutilio, restava solo una cornice di bianco sotto gli spioventi del tetto e un’altra in basso, sull’angolo che formava il muro con il pavimento in cotto. Visto che nelle stanza non arrivava più un filo di luce, sua madre e la nonna cominciarono a urlare da punti diversi della casa.

Inizialmente Spartaco fu colpito dall’immagine di un tronco d’albero, riprodotto quasi a grandezza naturale. Era stato disegnato così grande che nella scenografia si scorgevano solo i palchi più bassi dei rami, la cima e tutta la chioma le potevi solo pensare. Nella prospettiva in primo piano si espandeva una vera e propria foresta dalle chiome spumeggianti che rispetto agli alberi confusi nella profondità degli spazi sullo sfondo, veniva messa in rilievo da dei colori sfumati sul chiaro. I colori chiari erano spostati in basso, come se le chiome si fossero distaccate dai tronchi e invece, sul terreno, il verde dell’erba era come se si accentuasse nel risalto della luce tra le ombre. Spartaco fantasticò che quella foresta arrivasse fino ai piedi di una montagna, perché in primo piano c’era uno spiazzo tutto affogato dalla luce che rendeva ancora più misterioso e inesprimibile ciò che si confondeva nel groviglio dei tronchi e dei rovi. Quando nella recitazione a teatro calavano sulla scena quel drappo, si doveva avere l’impressione fosse un’ora speciale nel giorno che stava sorgendo. Sullo spiazzo, in primo piano, i germogli e i fili d’erba erano stati dipinti nei particolari e si confondevano in ombre così esili che sembravano espandersi oltre i limiti dell’enorme foglio.

Giulia aveva tentato di sostenere con lo spazzolone verso l’esterno un lembo del foglio, in modo che potesse filtrare un po’ di luce nelle stanze, ma si fermò un istante a guardare il disegno e invece di tornare alle sue faccende avvolse uno straccio alla granata e con pazienza anche lei iniziò a togliere la polvere che si incrostava nelle zone in basso, pulendo fino ad un’altezza raggiungibile da terra.

Nel punto il cui Ernesto scompariva in cima alla scala, il foglio formava una gobba.

Rutilio dirigeva i lavori di pulizia, mentre a Spartaco ormai si era indolenzito il collo a forza di stare con la testa rivolta verso l’alto. Avrebbe dovuto fare i compiti, tuttavia non riusciva a staccare gli occhi da quella foresta dipinta su di un foglio che più o meno aveva le dimensione dello schermo al cinema. Man mano che veniva tolta la polvere i colori della vegetazione sembravano riaccendersi, nei tronchi ormai si distinguevano fin nei dettagli i colpi di pennello che evidenziavano i bitorzoli e le cavità. Alla fine Ernesto scese, sfilò la scala da dietro per adagiarla sul disegno, prese la granata di sua moglie avvolta allo straccio di lana e salì nuovamente per togliere la polvere depositata nella parte alta. Lassù il verde delle chiome si confondeva in una massa nera e informe, dove leggere pennellate di giallo e di bianco restituivano il senso di profondità nella poca luce che riusciva a filtrare. Prima che suo padre si mettesse a pulire, quegli slanci di colore chiaro Spartaco non li aveva notati, perché il grigio appiattiva tutto quanto sull’impressione di un color nero sbiadito. Era stupendo vedere tornato alla luce quel bosco disegnato sul foglio. Non faceva per niente paura, lo spazio che in primo piano si incuneava tra gli alberi sembrava invitare Spartaco ad attraversarlo. Pieno di gioia osservava ogni dettaglio, ogni minimo particolare. La pulitura del dipinto aveva messo addosso a tutti una grande allegria, anche se Ernesto, a chi si appressava a passare sotto la scala, per scaramanzia lanciava contro dei disumani urli di allarme.

– Il destino degli esseri umani è la cosa più assurda che possa esserci al mondo – disse Rutilio, cessando all’improvviso di sorridere. – Immagini chissà quali programmi, ma poi la vita ti porta sempre da un’altra parte.

– Non ci pensare babbo – disse il padre di Spartaco. – É passato tanto di quel tempo.

– Si, ma tuo fratello è morto a ventidue anni. Come possiamo fare a dimenticarlo, tutti quanti?

– Vedi babbo – disse Ernesto, – lo sapevo in partenza che a tirar fuori quei disegni dal sottoscala, per te non era solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale.

– Lì sotto, … sta andando tutto quanto in malora. Da quando c’è stata l’alluvione, ogni inverno nella ghiacciaia ristagna un metro d’acqua. Questi lavori fatti da tuo fratello è un peccato che marciscano in quel buio, soffocati dalla polvere… Sì, è giusto utilizzarli per realizzare il presepe.

Da alcuni vicini Spartaco aveva avuto modo di ammirare dei quadri dipinti da quello zio che nonostante avesse il suo stesso nome non aveva mai conosciuto, in casa non c’erano che un paio di foto dove sembrava il ritratto della salute, una nel retrobottega, tra gli scaffali dei libri, l’altra sul mobile basso del salotto, e poi c’era un piccolo paesaggio fatto con gli acquerelli e messo in una cornice argentata. Anche i quadri visti dai vicini erano di piccole dimensioni, fatti su strisce di compensato, o su qualsiasi altra superficie liscia, non gli sembrava possibile che lo zio fosse stato capace di lavorare a qualcosa di così grande come quello che adesso stava nascondendo gran parte della facciata della loro casa. E non era neanche l’unico di quelle dimensioni, Rutilio precisò che la sua compagnia teatrale aveva utilizzato per molti anni le scenografie dipinte dal figlio. Nel sottoscala ne restavano almeno cinque, tutte di quelle dimensioni. Oltre a questa foresta che utilizzavano per recitare nel Tamburino sardo, lui aveva dipinto l’interno di una casa a grandezza naturale, lo scorcio di una strada di giorno e di notte, con tanto di lampioni accesi che illuminavano i palazzi. Le aveva dipinte a sedici anni, nelle vacanze estive dal liceo fatto in seminario. Nel sottoscala doveva esserci anche la scenografia di una città vista dai tetti.

Era una domenica pomeriggio dei primi giorni di ottobre e le rondini ormai non corteggiavano più il cielo ma le loro teste. La madre di Spartaco si era messa a gettare dei secchi d’acqua nel tentativo di liberare il pavimento dalla polvere tolta dal disegno, aveva messo dei grappoli d’uva a bagnomaria nel lavandino, dove l’acqua scendendo a scroscio formava un rigagnolo che si spostava verso la ringhiera.

Ernesto si era acceso una sigaretta, restando ammirato davanti al lavoro di questo sfortunato fratello morto a ventidue anni.

Di punto in bianco si mise a parlare, senza togliere gli occhi dal disegno.

– Ricordo che negli ultimi mesi di vita si era così consumato che non riuscivo neppure ad avere la forza di guardarlo in faccia. Era diventato pelle e ossa. Stava seduto in faccia alla finestra che guarda verso la montagna, con lo sguardo smarrito nelle sue confusioni e nelle sue paure. Povero ragazzo, non riuscivo a parlarci, mi mancava proprio il coraggio di immaginare a come potesse pensare il suo destino. Forse per distrarlo avrei dovuto parlargli di me, ma non ci riuscivo, non mi sembrava giusto. Sicché lo guardavo, gli poggiavo la mano sulla spalla e andavo al lavoro.

– Quando fu richiamato a prestare servizio nella Croce Rossa, tu eri già scappato in montagna – disse Rutilio.

– Sì, per quello che può servire, allora pensavo che comunque gli fosse andata di lusso, rispetto al rischio di beccare una pallottola in testa in ogni minuto della giornata.

Ernesto si passò una mano sulla fronte e buttò fuori il fumo dalle narici.

– Quando ricevetti il vostro messaggio ho pensato che almeno lui prestava servizio in un treno ospedale che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di bombardare.

La nonna Ginetta li ascoltava facendo ogni tanto dei profondi respiri.

– Un professore che aveva visto i suoi quadri mi consigliò di farlo frequentare l’accademia delle belle arti, ma lui aspirava solo a studiare in seminario per poi farsi prete.

– Sarebbe stato destinato lo stesso a quella fine, babbo.

– Io dico che è impossibile rassegnarsi alla perdita di un figlio. Spesso lo vedo ancora qui, insieme prendiamo una decisione più ponderata, senza le limitazioni imposte da una guerra in corso.

– Appunto per questo, quello che stai facendo non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale.

– Puoi darmi del pazzo se insisto a modificare la realtà, ma ormai sono decenni che non mi importa più di guardarmi allo specchio.

Rutilio iniziò ad elogiare alcuni particolari del disegno, rimandando continuamente ai ricordi con Ginetta e il figlio minore che gli era morto di pleurite a guerra finita da alcuni mesi. Poi aveva iniziato a scrutare meticolosamente la superficie per focalizzare i punti dove il colore era stato danneggiato dalle pieghe della carta o da altri fattori. Senza più parlare si era avvicinato al gigantesco foglio per passarci sopra la mano, cercando di palpare con una carezza la consistenza del colore. Nel punto in cui era stato mangiucchiato dai topi, la striscia di carta incollata pochi minuti prima sul retro sembrava un cerotto messo sulla carne di un essere umano, per disinfettare e arginare l’uscita del sangue.

  • L’immagine è di Nilo Australi

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