Nel tunnel di metà settembre (2)

di Donato Salzarulo

DONATO, COSA MI COMBINI?

«Donato, cosa mi combini?» domanda in una mail un’amica, quando apprende, domenica 29 settembre, che sono ricoverato nella stanza 326-2 del reparto di Medicina interna, al terzo piano del San Raffaele.
Cosa combino?… Nulla. È il mio corpo che se ne va per i fatti suoi. È la mia casa del respiro e il tamburo brachicardico del cuore che sembrano andare in tilt.
Sulla loro musica ho un potere scarso, quasi nullo. Intendo come persona che dice Io, caratterizzata da quella facoltà misteriosa che si chiama coscienza. Come psiche è tutto molto più complicato e dinamico, un mare, una foresta, una montagna su cui preferisco non avventurarmi. Ho un corpo e sono un corpo. Sono scisso e sono unito. Un enigma.

Martedì 17 mi alzo e qualcosa mi sembra mutato. Durante la notte, improvvisamente, ho avuto freddo e, al mattino, il cuore accelera il battito. Al risveglio, di solito, quasi non sento il mio muscolo vitale. Se batte a ottanta, mi allarmo. Sta succedendo proprio questo.
Ripeto i miei gesti mattutini. Qualcosa non va. Ho il corpo indolenzito, tutto dolorante: i piedi, le ginocchia, le anche, le spalle. Non avrò per caso l’influenza? Ma sono stato già ammalato a Bisaccia. Forse c’è qualcos’altro d’ignoto che mi covo dentro?… Entro in ansia. Ma poi le abitudini del giorno prendono il sopravvento. Vado a piedi a comprare i giornali, alle undici prendo la macchina e vado a bere il caffè da mia sorella. Prima, però, passo dal parrucchiere. Ho i capelli che sparano sulle basette, sulle tempie, dappertutto. Non li taglio da oltre due mesi. In quel momento non c’è nessuno, ma Matteo sta già aspettando un cliente.
«Posso tagliarteli per le diciassette e trenta…Ti va bene?»
«Benissimo».
Verso l’una pranzo regolarmente: pasta, patate e sedano. Una prelibatezza. Poi vado a riposarmi.
Nella settimana ad Agropoli avevo finito di leggere «Dove sei, mondo bello».
Anzi, avevo preso pure qualche appunto. Mi aveva colpito, ricordo, il capitolo 22. In particolare il passaggio in cui la protagonista sottolineava all’amica, la grande difficoltà a sposare “la logica cristiana”:

«Per me e per te è più difficile, perché a quanto pare non riusciamo a liberarci della convinzione che niente importa, che la vita è casuale, che i nostri sentimenti più genuini sono riducibili a reazioni chimiche, e che a ordinare l’universo non c’è alcun principio morale oggettivo. Vivere con queste convinzioni è possibile, certo, ma non è realmente possibile, almeno non credo, credere alle cose cui io e te diciamo di credere. Che certe esperienze del bello siano serie e altre triviali. O che certe cose siano giuste e altre sbagliate. A quali criteri ci rifacciamo? Davanti a quale giudice discutiamo il nostro caso? […] Non posso credere che la differenza tra giusto e sbagliato sia semplicemente una questione di gusto o preferenza; ma nemmeno riesco ad accettare l’idea di una moralità assoluta, vale a dire a credere in Dio. Ciò mi pone in un vuoto filosofico, senza il coraggio delle mie convinzioni in entrambi i fronti. La soddisfazione di sentire che servo Dio facendo il bene mi è preclusa, e d’altra parte l’idea di fare il male mi ripugna. Volendo essere ancora più precisi, trovo il mio lavoro [quello di romanziera] moralmente e politicamente inutile, e tuttavia è quello che faccio della mia vita, l’unica cosa che voglio fare.» (pag. 203-204).

Un brano così mi appariva una finestra aperta sulla vita sociale del nostro tempo. Meglio su alcune convinzioni diffuse, su certi pensieri che accompagnano le relazioni interpersonali: niente importa, la vita è casuale, i nostri sentimenti sono riducibili a reazioni chimiche, non riesco a credere in Dio, ecc. Insomma, il romanzo mi era piaciuto e il giorno seguente avevo comprato nella libreria Mondadori gli altri due libri di Sally Rooney: «Parlarne tra amici» e «Persone normali». Cominciai a leggere il suo primo libro e proprio quel martedì, in cui il mio corpo accendeva lampadine d’allarme, ero arrivato all’ultima pagina. Anche questa volta abbastanza soddisfatto. Rooney ha trentatré anni, io settantacinque. Leggere cosa potrebbe scrivere una mia nipote è una curiosità a cui non so rinunciare.

Alle diciassette e trenta vado dal parrucchiere. Il taglio è quello abituale da un trentennio e in un’oretta torna a scolpirmi i capelli come preferisco. Il mio corpo non smette di suonare le sue sirene. Tornato a casa, cerco il termometro e misuro la febbre: trentotto! Ceno in fretta, ingoio una pillola di Tachipirina mille e m’infilo a letto.

Le notti con Tachipirina sono bagni di sudore: tutto uno spogliarsi e rivestirsi, tutto un cambiar canottiere, mutande, pigiama, lenzuola. Comunque, la speranza è che la febbre, una volta crollata, vicino al trentasei, si accovacci e se ne stia nella fornace che abita da sempre. Invece, no. Mercoledì mattina, con un balzo felino, me la ritrovo a trentanove e sei. E qui saltano tutte le attese e le coordinate. Cosa mi brucia in corpo da spingere la lancetta di mercurio oltre il confine regolare del trentasette? Chi dà paglia al forno che mi anima? Penso a un’influenza. Penso a qualche virus che si sia installato in qualche parte del mio corpo e si riproduce beatamente. O sarà qualche batterio, una colonia casualmente incontrata? Non so dare risposte alle domande. Di un fatto sono certo. Occorre subito consultare il mio medico. La dottoressa in carica non c’è. C’è il sostituto. Deglutisco un’altra compressa di Tachipirina mille e torno a stendermi nel letto in attesa del sudore liberatorio. Pina, intanto, si piazza al telefono e chiama e richiama le assistenti del dottore. Finalmente ottiene l’agognato appuntamento: in ambulatorio alle diciassette.
A quell’ora la seconda compressa di Tachipirina ha abbondantemente esaurito il suo effetto. La febbre, ostinata, torna a risalire. Tremo, batto i denti, ho brividi dappertutto.
È in queste condizioni che rispondo a domande come:
«Sente dolore alla gola? Ha la tosse? Avverte del bruciore quando urina?…»
«No, no e no…È un dolore generale che sento, un esaurirsi delle forze del corpo.»
«Bene, vada subito in farmacia e prenda Cefixoral 400 mg. È un antibiotico. Sono cinque pastiglie. Ne prenda una ogni sera. Al quinto giorno, se la sua influenza è di origine virale, la Tachipirina l’avrà sconfitta; se, invece, è di origine batterica, ci avranno pensato le compresse di antibiotico…»
E se nel mio corpo fosse in corso qualcosa di più grave? Io non ci ho pensato, ma al medico neanche è venuto in mente di auscultarmi sul petto e sulle spalle…

Acquisto l’antibiotico nella vicina farmacia di San Maurizio e torno a casa febbricitante. Ingerisco la pillola. accompagnandola con due sorsi d’acqua, mando giù nello stomaco la terza compressa di Tachipirina mille e mi avvolgo tra le lenzuola.

Difficile raccontare la notte di mercoledì 18. Ho gli occhi chiusi, ma dietro le palpebre il cervello proietta i suoi film. Sto correndo verso un tunnel o il tunnel corre verso di me. Corre velocemente e velocemente cambia la grandezza circolare della sua bocca. Ci finisco dentro in un buio sempre più buio. Le bocche si trasformano in onde che si affollano, si frangono o infrangono sulle pareti della mia mente. Da qui la sensazione di essere travolto, di un corpo che si autodistrugge e proprio in questa pulsione distruttiva tende a farsi corpo-soggetto, foresta, bufera, mare, corpo che produce i suoi prodotti.

In un’altra parete del cervello si proietta un altro film: ho un appuntamento, un appuntamento importante con una scrittrice che vuole far quadrare i pezzi sparsi della mia vita; vuole insomma che il mio puzzle si ricomponga e acquisti un senso, un significato, un ritmo narrativo, una melodia. E il mio corpo dice di no. Tu non andrai a nessun appuntamento. I tuoi frammenti di legna bruceranno. Ricordati la vita è casuale, non sei che un insieme di reazioni chimiche, la Tachipirina ti spremerà come un limone, resterai senz’acqua, ti disidraterai…E qui mi svegliavo, affranto, afflitto da un sentimento di angoscia soffocante.

Giovedì 19 la situazione non migliora. La Tachipirina mi viene letteralmente a nausea. A mezzogiorno mangio del pollo in brodo, ma i cibi cominciano ad essere rifiutati da uno stomaco sempre più sottosopra. Cambiamo Tachipirina. Da quella in compresse, passo a quella orosolubile e poi alle supposte. Nulla da fare. Sviluppo un vero e proprio rifiuto di questo farmaco. Lo sento come nemico. I familiari, preoccupati, entrano ed escono dalla camera da letto. Vengono a trovarmi Laura ed Antonio, che è medico specializzando. Mi fa il tampone. Negativo. Non ho il Covid.

Intanto mi arrivano messaggi sulla chat della Redazione di Orione. Gabriella, la direttrice, mi dà il benvenuto e annuncia che la prossima settimana sarà pronto il brief sul tema “poesia”. Nel frattempo possiamo pensare ai destinatari da contattare. Le fanno coro Francesca, Stefania, Maria e Alessandra. Io non sono nelle condizioni migliori per rispondere e rimando i ringraziamenti al giorno dopo. Il giorno dopo scrivo anche alla direttrice, sulla posta elettronica, che sono a letto, con una febbre oltre i 39, e che così malandato non riesco proprio a lavorare. Secondo il medico, entro domenica 22, dovrei ristabilirmi, ma il mio scetticismo segue l’andamento del mercurio.

«L’antibiotico fa effetto dopo 72 ore.» È la frase continuamente ripetuta in famiglia e questa convinzione, per quanto malferma, rimane in sella per tre giorni: mercoledì sera, giovedì sera, venerdì sera…Arriva sabato. Ma sabato mattina non si vede l’ombra di un miglioramento. Anzi, il peggioramento è più che mai evidente. Sono confuso, faccio fatica a parlare, mi sento disidratato, spremuto, il mio petto è una corazza. Avverto chiaramente d’essere entrato in un tunnel senza speranza. La febbre non accenna ad abbassarsi, le cure risultano totalmente inutili. Domenica pomeriggio, 22 settembre, decidiamo per il Pronto Soccorso al vicino San Raffaele. In macchina riecheggiano nella mente alcuni versi di De Angelis:

Nell’invalicabile minuto tornano tutti
i giardini della nostra vita, tutte le ombre
che abbiamo calpestato, le foglie,
i saluti, respiri in soprassalto, estati, frasi
che sembravano sepolte, sepolture
che sembravano avvenute.

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