di Marcella Corsi
perché
Perché ho paura, mi hai detto. Ti ho abbracciato. E non abbiamo più giocato a nascondino.
Eravamo a casa mia, che è grande più della tua. Erano quasi le otto di sera. Avevo acceso tutte le luci e ti mostravo i nascondigli: dietro le porte, nello sgabuzzino che fa da dispensa, dietro la tenda della doccia, accucciandosi di lato ai letti o ai mobili. Ma quando toccava a te sceglievi sempre un posto in cui eri visibilissima.
L’avevo notato che, sempre, giocando a nascondino il momento che più ti piaceva era quello in cui ci si ritrovava. Lì ridevi di gioia e volevi ricominciare.
Quest’oggi il tempo trascorso senza genitori si era già molto dilatato. Quando ti ho chiesto perché non usavi uno dei nascondigli che ti avevo indicato, mi hai detto di avere paura. E ieri, dopo quattro o cinque ore sola con me, mentre giocavamo sul lettore ti sei fatta seria. Perché, ti ho chiesto. Io non ho più la mamma, hai risposto.
Hai tre anni appena compiuti e ho cercato di essere convincente nello spiegarti che mamma stava per tornare e che la sera avresti ritrovato anche papà. Ti ho ricordato anche quello che tu stessa avevi sottolineato qualche giorno prima: io ho due nonne e due nonni, avevi detto, sono fortunata.
Domani andrai per la prima volta all’asilo dei grandi, senza dormire dopo il pranzo, senza pannolino per tamponare distrazioni nell’avvertire lo stimolo della pipì.
Abbiamo fatto parecchie volte tra ieri e oggi una sceneggiata che ti ha divertito molto: tu pestavi una cacca per strada e tornavi a casa con una scarpa puzzolente; io dicevo che puzza, che puzza, ma cosa hai fatto; e tu “stavo camminando e ho pestato una caccona”; e io “puzza troppo, vai a lavare la scarpa”; andavi e poi tornavi a farmi annusare la scarpa (“senti come profuma”, come quando ti sei lavata le mani e vai a farle annusare alla mamma prima di pranzo).
Sei piccola e insieme grande. Sei capace di nominare i sentimenti e non hai paura di parlarne.
Provo ad inventarti un destino.
Perché quando potrai costruirtelo non ci sarò.
(settembre 2024)
crescere
A volte mi sembra che crescere sia un po’ come morire. Morire alle sicurezze minime conquistate, alle abitudini nel tempo consolidatesi, a quello che appena prima si era.
A Beatrice piacciono le puzze. E i miei gatti. Saranno i tre anni appena compiuti. Nelle invenzioni linguistiche di questa minuscola cantautrice, che sono molte e spesso anche divertenti, imperano le sillabe cac-ca, a dimostrazione del recente successo nella gestione del suo apparato digestivo in uscita. E da quando le ho raccontato di Melissa, che sotto il pettine da striglio mi ficca il muso ronfando sotto l’ascella, vuole fare la gattina a suo modo: mi abbraccia avvicinando il naso alle ascelle e mi costringe a fasciarle le ginocchia con un paio di calzettoni (per salvare i suoi pantaloni) durante le passeggiate da gatti fatte sul pavimento di casa. Ci si arrampica come fosse un albero sulla spalliera del divano, dove spesso ci raggiunge Miù, l’altra femmina del trio; si percorre il corridoio tra reciproche raccomandazioni: «attenta alle macchine, eh!», «anche tu, anche tu!»; si fanno le fusa naso contro naso. E’ una bimba divertente e a suo modo, per adesso, risolta.
In un punto però il suo percorso soffre grosse difficoltà: il distacco, pur provvisorio, dalla mamma. E’ un nodo che ora le è difficile sciogliere. In asilo è appena passata dal gruppo dei piccoli, dove la madre era una delle maestre, a quello dei grandi, quasi la più piccola tra loro. Con la sua amica Lilì, che ha una settimana meno di lei, sono le più piccole. Il rapporto tra loro si è rafforzato e qualche simpatia anche con i più grandi si è instaurata, ma la mamma manca per quasi tutto il tempo. Per di più nei momenti di compresenza grandi-piccoli è impegnata negli inserimenti dei nuovi piccolissimi, e Beatrice la vede passare il tempo a mo’ di mamma con Gregorio, e poi con Valentina… Insomma una tortura, frequenti fitte di gelosia, una mancanza che dura, dura ed è dura da superare (Sara dice: le stiamo chiedendo tanto).
Così, nonostante la bravura della madre e la buona volontà che lei stessa ci mette, ogni volta che si sveglia piange chiamando la mamma e quando è affidata ad altri è irriducibile nel suo continuare a chiedere di ricongiungersi con lei: lacrime a fontana e miserevoli suppliche, commoventi. E, per chi come me le vuole bene, quasi insopportabili.
«Nonnina, mi porti da mamma…»; «usciamo, andiamo da mamma per favore»; «per favore, nonna, per favore…». Non so nemmeno dov’è mamma (e davvero non lo so), le rispondo una sera che mi è stata affidata perché sua madre possa festeggiare il compleanno del suo compagno (che è poi il padre di Beatrice) con una cena a sorpresa in un locale, condita da qualche amico di lui e qualche amica di lei.
Le ore prima della cena sono una serie di tentativi di ogni genere di distrarre la piccola, che però dopo pochissimo torna alla sua disperazione. Nessuno dei giochi, anche nuovi, che le propongo la convince a non tornare al pianto. Nemmeno la televisione, che eccezionalmente ci è stata concessa. Negli intervalli tra una crisi e l’altra stringe il cuore la sua invincibile malinconia.
Infrango un altro divieto: le mostro le foto della mamma sul mio cellulare. Le guarda e le riguarda, ricorda le occasioni in cui sono state scattate, nota che c’è anche il padre che però non è inquadrato per intero. Questo sì, la calma. Finché dura.
Poi però bisogna cenare. Le ho promesso il risotto giallo, che le piace molto. Ma la preparazione richiede un po’ di tempo. In genere lo impegna ‘cucinando’ con le sue pentole (che poi sono le mie… quelle non pericolose ormai le tira fuori da sola dal mobile basso) oppure ascoltando le musiche dei libretti Gallucci ̶ Mozart in particolare le piace ma anche Tchaikovsky e le voci degli uccelli ̶ o girando col triciclo per le stanze nella speranza di intercettare Matisse, che è quello dei gatti che meno si fa vedere. Questa volta però no.
«Guardiamo ancora le foto di mamma sul telefono…»; «ora dobbiamo cenare, cara». Provo con un contenitore di foto cartacee, ma non funziona come il cellulare che, in quanto proibito, è molto più appetitoso.
«Dopo che ho mangiato, andiamo da mamma… per favore…». Le scendono lacrime sulle carote, che precedono il risotto alla milanese. Le piacciono anche le carote in padella, ma stasera… La mia sofferenza è pari alla sua, però non voglio sciupare ai suoi genitori questa rarissima occasione di svago, per la madre di comunicazione finalmente tra adulti.
Riesco a farla mangiare, poco e tra le lacrime, ma dopo… non bastano più nemmeno le foto sul telefonino. Chiede anche del padre. Alle nove le prospetto una telefonata alla madre per saper dov’è, se per caso è tornata a casa o se possiamo raggiungerla. La facciamo insieme. Per fortuna Sara mi dice che sono quasi alla torta, mi spiega dov’è il locale e accoglie la nostra richiesta di mangiarla insieme la torta.
Beatrice si veste da sola svelta svelta, finalmente quasi serena. E usciamo. Arriviamo a piedi fino al locale in cui sono i suoi genitori, che è vicinissimo a casa loro. Emiliano è all’ingresso con un amico. Chiacchierano. Lo indico a Beatrice. Lui la vede, l’abbraccia, sollevandola in alto. In braccio al padre cinguetta come un uccellino, ma stringe ancora la mia mano, non mi lascia. Le dico, vado a cercare mamma dentro. Ancora non mi lascia: è frastornata di gioia (e per la musica del locale). Quando la trovo, Sara esce anche lei e si ritrovano. Torna la luce sul visino della piccola. E poi dentro è tutto un abbracciare la madre, e poi un guardarsi intorno, un ballare. La torta non l’assaggia nemmeno. Finalmente ride.
(ottobre 2024)