Ezio Partesana: «Un giudice incapace» (2)

di Donato Salzarulo

SESTA POESIA

Il custode s’è perso
il cancello è chiuso,
sotto il muro un vitello
rincorre minaccioso
l’erba distesa sul prato.

C’è qualcuno in casa?

A precipizio la via
è tutto per terra
anche le assi di legno
nel piazzale con il custode
vestito di nero.

Non c’è nessuno in casa.

Dodici versi irregolari distribuiti in due strofe di cinque versi ciascuna. Tra l’una e l’altra un verso interrogativo («C’è qualcuno in casa?») a cui si fornisce una risposta con quello finale, distaccato dalla seconda strofa: «Non c’è nessuno in casa».
L’escursione metrica va da sei a nove sillabe con una prevalenza di settenari (vv. 1, 3, 4, 9, 12) e di senari (vv. 2, 6, 8, 11).
Ripetizioni: “Il custode” (in incipit al primo verso e in epifora al decimo) “In casa” (in epifora ai vv. 6, 12)
Rime: cancello / vitello, qualcuno / nessuno
Allitterazioni: perSO, chiuSO, SOtto, minaccioSO; cusTOde, soTTO, praTO, tuTTO, cusTOde, vestiTO…
Assonanze e consonanze varie.
Sintatticamente la prima strofa è composta da tre proposizioni coordinate per asindeto: 1. «Il custode s’è perso»; 2. «il cancello è chiuso»; 3. «sotto il muro un vitello / rincorre minaccioso / l’erba distesa sul prato».
Viene rappresentata, in terza persona, una situazione in cui il custode di una casa non c’è, è svanito. Essa ha il cancello serrato. All’interno, sotto il muro (della casa) un vitello incalza, pericolosamente e in modo inquietante, l’erba aperta sul prato. Una situazione che rasenta l’assurdo.
Tra la prima e la seconda strofa, una voce fuori campo pone l’interrogativo che si diceva all’inizio: «C’è qualcuno in casa?»
La seconda strofa è sintatticamente più tormentata. C’è il verso iniziale che suggerisce la presenza di una via “a precipizio”. Non è ben chiaro se attribuire la locuzione avverbiale alla via che potrebbe essere scoscesa, a strapiombo, o se attribuirla al custode “vestito di nero” che, di fronte al pericolo del vitello minaccioso, percorre celermente la via per andare alla casa e, arrivato lì, nel piazzale, trova «tutto per terra / anche le assi di legno».
Il verso finale risponde alla domanda posta fra le due strofe: «Non c’è nessuno in casa.»
Anche questo testo ha nuclei di oscurità sia sul piano dei nessi logici fra le sequenze delle due strofe, sia sul piano del significato complessivo. La casa è disabitata. Un vitello può distruggerla. Il custode è svanito o rientra a precipizio quando il disastro è già compiuto. L’universo è dicibile, approssimativamente dicibile, ma è incomprensibile. Ha perso il suo logos, il suo discorso. Rimangono frammenti, assi di legno.


SETTIMA POESIA


Contro natura
la foglia sopravvive
l’albero che muore
vestito e riparato,
quasi a picco, quasi
da solo sul mare.

Sei versi irregolari: tre senari (vv. 3, 5, 6), due settenari (vv. 2, 4) e il quinario iniziale
Ripetizioni di parole: epanadiplosi al quinto verso: «QUASI a picco, QUASI»
Allitterazioni: ContRO, albeRO; MuoRE, MaRE, vestiTO, riparaTO…
Varie assonanze e consonanze
Sul piano sintattico, i versi presentano una proposizione principale: «Contro natura / la foglia sopravvive» e una subordinata relativa («l’albero che muore»). I tre versi successivi indicano degli attributi dell’albero, relativi al suo modo di essere («vestito e riparato», «solo»), al luogo in cui si trova («quasi a picco […] sul mare»).
Tra la foglia che sopravvive e l’albero che muore vi è una chiara antitesi. Il terzo verso forse andrebbe letto «ALl’albero che muore». Comunque, che la foglia sopravviva all’albero che muore, cioè che la parte (sineddoche) viva più a lungo del tutto, viene ritenuto, come sostiene il primo verso, un processo «contro natura». Invece, a quanto pare, potrebbe essere abbastanza naturale per una pianta. La foglia, infatti, utilizza la linfa grezza proveniente dalle radici dell’albero, capta l’anidride carbonica contenuta nell’atmosfera e, grazie alla luce del sole, produce il nutrimento per l’albero. Forse, per quanto morente, l’albero di questa poesia ha corteccia integra («vestito») e si trova al riparo dei venti. Inoltre ha radici ben salde, sebbene si trovi su una costa alta, a strapiombo sul mare.
Ho l’impressione che la voce poetante desideri ricavare una riflessione da una contraddizione apparente tra la parte e il tutto. La domanda è: quando un albero sta morendo? Da cosa lo si capisce? Non sono un botanico. Ad occhio e croce direi che un albero non scortecciato, ma ancora “vestito” non è proprio moribondo. Occorrerebbe accennare anche al colore della foglia. Sopravvive, ma come? E in quale stagione si trova?… Il mio parere è che questa poesia sia solo un appunto. Lo sguardo dovrebbe andare più a fondo nel rapporto tra la parte e il tutto. Soprattutto, quando si crea un’antitesi. Penso ad antitesi celebri come quelle leopardiane fra individuo e Natura o individuo e specie. Solo che in quei casi il tutto durava più a lungo della parte. Qui, invece, la foglia (individuo) sopravvive all’albero (società). Pia illusione dell’individualismo? Se è così, giustamente l’autore la bolla come “contro natura”.


OTTAVA POESIA

La donna siede
è mezzogiorno passato
alla finestra
ridendo.
Le mosche ronzano,
piccoli mostri impazienti,
e fuori è sereno.
Solo a sera si sente
male la vecchia
e le mosche il rumore
posare per terra.

Via, lasciamo perdere.


Dodici versi irregolari, con escursione metrica da tre a otto sillabe. Versi prevalenti: quinari (vv. 1, 3, 5, 9) e senari (vv. 7, 10, 12). L’ultimo verso è isolato.
Ripetizioni: in incipit ai vv. 5 e 10, “le mosche” / “le mosche”
Allitterazioni: sieDE, riDEndo, perDEre; MOsche, MOstri, ruMOre, lasciaMO; SEreno, SEra, SEnte
Assonanze e consonanze varie.
A livello sintattico, i versi si distribuiscono in tre periodi.
Il primo (vv 1-4) è composto da una proposizione principale («La donna siede alla finestra»), da una subordinata modale («ridendo») e da una proposizione incidentale, temporale («è mezzogiorno passato»).
Il secondo presenta una proposizione principale («Le mosche ronzano, piccoli mostri impazienti») e da una coordinata per polisindeto («e fuori è sereno»),
Anche il terzo periodo presenta una proposizione principale («Solo a sera si sente / male la vecchia») ed una coordinata per polisindeto, caratterizzata da un’ellissi del verbo («e [si sentono] le mosche il rumore / posare per terra») e da una subordinata oggettiva.
L’ultimo verso è un invito a lasciar perdere e ad allontanarsi dalla scena oppure a non continuare le sequenze.
Nella prima sequenza la protagonista è la donna che siede alla finestra, curiosa ed allegra per ciò che forse accade fuori. Oltre a queste coordinate spaziali, la voce poetante, che rappresenta la scena in terza persona, offre a chi legge delle coordinate temporali, scrivendo che è trascorso mezzogiorno. Da quando? Probabilmente da poco.
Nella seconda sequenza, protagoniste sono le mosche, che non solo si vedono, ma si odono. Infatti “ronzano”, scrive la voce poetante con un verbo onomatopeico, e sembrano dei “piccoli mostri” insofferenti. Fuori è sereno. Antitesi tra l’impazienza delle mosche e la serenità del cielo, fuori.
Nella terza sequenza, la donna senza età del primo periodo diventa ora «la vecchia» e, quella che appariva, curiosa e ridente nella prima scena, a sera si «sente male». Anche le mosche, che prima ronzavano insofferenti, ora si muovono per terra non più agitate (antitesi).
Le tre scene sono chiaramente in rapporto tra di loro, un rapporto che definirei di sviluppo contraddittorio, dal punto di vista temporale (mezzogiorno-sera) e dal punto di vista delle condizioni delle protagoniste (donna allegra-vecchia che sta male; mosche, “piccoli mostri impazienti, diventate tranquille).
C’è qualche riflessione che si può trarre da questo sviluppo contraddittorio? Si può ricavare qualche generalizzazione, qualche insegnamento? A mio parere, sì. Quasi niente è nelle nostre mani: dal mezzogiorno alla sera può mutare totalmente la situazione di una protagonista, che sia un essere umano o un nugolo di mosche. Il “qui ed ora” si dilegua, mentre lo si enuncia. Se non sbaglio, è una riflessione hegeliana.
Ma la voce poetante, che forse un po’ si identifica con “un giudice incapace” del titolo del libro, preferisce non trarre giudizi o insegnamenti: «Via, lasciamo perdere». È un sintomo di reticenza. Perché lasciare perdere?… La situazione è incomprensibile, la vita è un mistero, inutile tirare in ballo lo sviluppo contraddittorio, l’aria soffia in tutt’altre direzioni, e via ipotizzando… Sono ipotesi per trovare una risposta che dia ragione o ragioni alla reticenza con cui si chiude questo testo.


NONA POESIA

Non c’è anima in stazione
l’orario forse o la pioggia
le han fatte tutte andare.

Scrivere i nomi
è stupido,
il controllore ha ragione:
il treno era perfetto.

In ritardo sono io
o la destinazione.

Nove versi irregolari distribuiti in due strofe irregolari e un distico finale. Il forte enjambement tra i versi 4 e 5 rompe un ritmo metrico che poteva regolarizzarsi su una prevalenza di ottonari e settenari.
Rime: stazione / ragione / destinazione
Musicalità assicurata anche da allitterazioni, assonanze e consonanze.
La sintassi della prima strofa si organizza in una proposizione principale («Non c’è anima in stazione») e in una coordinata alla prima per asindeto («l’orario forse o la pioggia / le han fatte tutte andare»). È la scena di una stazione vuota, con le anime andate tutte via, forse per l’orario o per la pioggia.
La seconda strofa è composta da tre proposizioni: la principale («Scrivere i nomi / è stupido») e due coordinate per asindeto («il controllore ha ragione», «il treno era perfetto»).
Difficile cogliere i nessi logici tra la prima e la seconda strofa. Dopo una stazione vuota o svuotata, la voce poetante enuncia una tesi, che risulta essere la conclusione di un diverbio tra il controllore che «ha ragione» e gli eventuali contendenti che vorrebbero «scrivere i nomi». Il perché non si capisce. Se il treno era perfetto, perché si è sviluppata la contesa? Questi versi fanno supporre che qualcosa non sia andato per il verso giusto.
Nel distico finale irrompe sulla scena l’Io poetante che afferma di essere lui in ritardo o la destinazione. Che lui possa essere in ritardo è logicamente probabile, che possa esserlo anche la destinazione è, invece, più discutibile. Anche perché fra l’Io e la destinazione sembra esserci una contrapposizione, un’antitesi. Qual è la sua destinazione? Conosciamo la destinazione finale di ogni Io. È la morte. L’unica che potrebbe essere fortunatamente in ritardo. Anche le destinazioni ideali potrebbero essere in ritardo. Chi desidera e lotta per una società di liberi e uguali, senza sfruttamento e oppressione dell’uomo sull’uomo, può sinceramente sostenere che è quanto mai lontano dal realizzarsi; in questo senso può sostenere che è in ritardo.
Il lessico della poesia è abbastanza afferente alla sfera semantica del termine «stazione». Nelle due strofe e nel distico leggiamo, infatti, «orario», «controllore», «treno», «ritardo», «destinazione»; ma, il senso, il significato della poesia rimane abbastanza oscuro.
In una stazione vuota di anime perché andate via forse per l’orario (tardi) o per la pioggia, arriva un treno “perfetto” (un aggettivo che probabilmente sta per “perfetto orario”). Tra il controllore e i viaggiatori nasce una contesa. C’è chi vorrebbe che si scrivessero i nomi e c’è chi ritiene che questo sia un atto “stupido” perché il controllore ha ragione: il treno era perfetto, cioè in perfetto orario. Da qui la dichiarazione-ammissione finale dell’Io: «in ritardo sono io / o la destinazione». Una dichiarazione sibillina. In ritardo rispetto a cosa o a chi? E se il ritardo riguardasse la destinazione, in che senso lo è?
E se l’anima dell’Io poetante fosse una stazione svuotata? E se quest’anima ritenesse che la discussione fra i viaggiatori e il controllore sull’eventuale ritardo del treno fosse stupida perché era in “perfetto” orario; in ritardo, invece, è l’Io o la sua destinazione…L’Io in ritardo di questa poesia potrebbe rinviare a «la verità / è in ritardo» della prima composizione.


DECIMA POESIA

L’incrocio bagnato piange
deserto alle sei di mattino,
il busto dell’edicola
asciuga senza passi
e dormono, dormono tutti
nel sonno e nella veglia.

Il temporale legge le pozzanghere
e sa dove versare
il suo ultimo rancore.
Ma nessuna voce mai
prima di poter parlare.


Undici versi irregolari distribuiti in due strofe di 6 e 5 versi. Escursione metrica da sette a 12 sillabe. Prevalenza di ottonari (vv. 1, 9, 10, 11) e settenari (vv. 3, 4, 6, 8).
Ripetizioni: epanalessi al quinto verso, in posizione centrale: «dormono, dormono»
Rime: versare / parlare
Musicalità assicurata prevalentemente da allitterazioni, assonanze e consonanze.
A livello sintattico la prima strofa è composta da una proposizione principale (1. «L’incrocio bagnato piange / deserto alle sei di mattino»), da una coordinata per asindeto (2. «il busto dell’edicola / asciuga senza passi») e da un’altra coordinata per polisindeto (3. «e dormono, dormono tutti / nel sonno e nella veglia.»
L’incrocio della prima proposizione, essendo privo di persone, disabitato alle sei del mattino, è quasi certamente un incrocio stradale. Di esso ci viene detto che è bagnato (forse per una pioggia recentissima) e che “piange”. Il secondo verbo tende a personificare l’incrocio. L’immagine è probabilmente suggerita dalle gocce delle grondaie o dallo scorrere dell’acqua verso i tombini.
La seconda proposizione, sibillina nella sua semplicità, credo che vada intesa, pensando non all’edicola dei giornali, ma alla struttura architettonica del “tempietto” (la nostra “edicola” deriva dal latino “aedicula”, che è il diminutivo di “aedes” che significa tempio). Sono strutture di protezione per immagini o busti di culto. La nicchia votiva di questi versi ha un busto che, essendo immobile, indubbiamente si asciuga senza camminare.
L’ultima proposizione è meno sibillina, ma sicuramente più allegorica: «e dormono, dormono tutti / nel sono e nella veglia». Sono le sei del mattino. C’è chi è ancora a letto e giustamente dorme; ma c’è chi è si è svegliato, è in piedi, e dorme anche lui. Il verso fa venire in mente «I sonnambuli» di Broch. Milan Kundera, in una recente edizione dell’opera così ha spiegato il titolo: «Ciò che lo affascina [che affascina Broch] è la forza sotterranea, invisibile, che plasma le persone e i loro pensieri. Ecco il senso del titolo, “I sonnambuli”: tutti i personaggi di Broch sono ipnotizzati da forze sotterranee e agiscono come sonnambuli senza poter spiegare razionalmente perché fanno ciò che fanno, perché dicono ciò che dicono».
I Tutti di questi versi sono peggiori. Non sono neanche “sonnambuli”, sono dormienti, incapaci per la loro condizione di utilizzare facoltà cognitive (percezione, comprensione, giudizio) e pensieri affettivi. Possono soltanto accogliere sogni.
La seconda strofa è composta da due periodi. Il primo si organizza su una proposizione principale (1. «Il temporale legge le pozzanghere») e su una coordinata per polisindeto a cui si aggiunge una subordinata relativa (2. «e sa dove versare / il suo ultimo rancore»).
Il secondo periodo si apre con una congiunzione avversativa e una proposizione principale ellittica (1. «Ma nessuna voce mai») a cui si aggiunge una subordinata tramite la congiunzione temporale («prima di poter parlare»)
Il primo periodo è abbastanza chiaro: Il temporale, che sicuramente ha bagnato anche l’incrocio della prima strofa, viene personificato dalla voce poetante e «legge le pozzanghere», ossia riconosce le pozze d’acqua e quindi ha cognizione dei luoghi in cui versare «il suo ultimo rancore». Questo sostantivo finale fa pensare molto al nostro tempo, definito da alcuni “il tempo del rancore”, del risentimento, di chi non sa tradurre le offese che riceve in una lotta consapevole. Rancorosi e dormienti. Affetti da questa condizione riusciamo a contagiare con la nostra avversione anche un fenomeno atmosferico come il temporale.
I due versi finali non sono di facile comprensione. L’interpretazione più semplice potrebbe essere: non si dà “voce” senza il “parlare”. Ma è smentita dall’ampiezza semantica del termine “voce”. Limitandoci alla voce umana, si sa che può essere articolata, quando si parla, o inarticolata quando viene emessa da un infante.
I due versi potrebbero essere messi in collegamento con gli ultimi due della prima strofa, quelli in cui “dormono tutti”. Se dormono, non si ascolterà mai nessuna voce prima che si sveglino e possano parlare. Allegoricamente: senza svegliarsi e prendere coscienza della propria condizione, non ci sarà nessuna voce e nessuna “presa di parola”.











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