Uscire dal nero: un desiderio ostinato di umanità

di Donato Gervasio


«Uscire dal nero» è un libro di Georges Didi-Huberman, storico dell’arte e filosofo francese. Le parole del titolo ricordano ciò che Primo Levi diceva della Shoah “un buco nero dell’anima”.
“Uscire dal nero” significa essenzialmente non stancarsi mai di portare alla luce l’orrore dei traumi storici passati e recenti. Significa, nello stesso tempo, salvare quelle esperienze umane che hanno un senso profondo, che sono atti di resistenza da tramandare. È proprio il verbo “salvare” il filo che unisce le tre storie che vorrei raccontare e alle quali ho dato i titoli seguenti: «Salvare un morto», «Salvare un nome», «Salvare una vita».

SALVARE UN MORTO

Il libro di Didi-Huberman è in realtà una lunga lettera scritta a László Nemes, regista ungherese del film «Il figlio di Saul», uscito nel 2015. Lo storico dell’arte elogia il regista per il coraggio con cui ha affrontato una materia rovente e per l’originalità con la quale ha rappresentato l’inferno di Auschwitz. Il film è “il risultato di una scommessa estetica e narrativa straordinariamente rischiosa”.

Saul, ebreo ungherese deportato ad Auschwitz, è un componente delle squadre speciali chiamate Sonderkommando. All’interno del campo di concentramento, questi prigionieri hanno un destino doppiamente infernale: sono ebrei che aiutano i nazisti ad uccidere altri ebrei. I membri del Sonderkommando spingono i deportati nelle camere a gas, trascinano i cadaveri, li mettono nei forni crematori, disperdono le ceneri nelle acque della Vistola. Dopo qualche mese vengono uccisi e sostituiti, in primo luogo perché i membri del Sonderkommando sono “portatori di segreti”: una delle più grandi preoccupazioni dei nazisti era di non far sapere all’esterno quello che succedeva nei campi. Lo sterminio doveva restare invisibile.

Un giorno, mentre estrae i cadaveri dalla camera a gas, Saul sente dei rantoli: un bambino di dieci, undici anni respira ancora. Sembra un miracolo. Prende tra le braccia il corpo nudo, lo solleva e lo mette su un tavolo. Il dottore nazista, prontamente avvertito, arriva e, con un gesto calmo e brutale, preme una mano sulla faccia del bimbo, lo soffoca e lo uccide. Visto che si tratta di un sopravvissuto alla camera a gas, un caso molto raro, ordina che si faccia immediatamente la dissezione anatomica:
“Apritelo”, comanda.
Saul rimane per un istante a guardare il corpo senza più vita. Tutto il suo essere, a partire da questo momento, si rivolta e sarà animato da una volontà incrollabile: salvare quel bambino – un bambino morto.
Salvare significherà “conservare intatto il corpo”, sottrarlo alla dissezione, che lo avrebbe ridotto in parti, sottrarlo al forno crematorio, che avrebbe fatto di quel corpo cenere e fumo, sottrarlo, infine, alla dispersione anonima delle ceneri. Significherà dare a quel corpo, seguendo i precetti religiosi, una degna sepoltura nella terra, dove possa riposare in pace.
“Il racconto, scrive Huberman, è tanto più potente (in ciò che ha da dirci su un ostinato desiderio di umanità) quanto più è inverosimile (cercare un morto tra le migliaia di morti distrutti a catena dai forni crematori”.
Saul passerà le ultime ore della sua vita a nascondere il cadavere del ragazzo, in attesa di seppellirlo secondo la tradizione, e a cercare tra i deportati un rabbino che possa recitare una preghiera, il kaddish del lutto.

Nessuno capisce Saul.
“Saul, chi è quel ragazzo?” gli chiede un altro componente del Sonderkommando.
“Mio figlio” risponde.
“Ma tu non hai figli”.
“Sì. Devo seppellirlo”.

Nel campo scoppia una disperata rivolta. I prigionieri hanno delle armi e vogliono far saltare i forni. Saul vi prende parte, ma senza battersi: sappiamo che la sua forma di resistenza è il passato, è la tradizione, è inumare “suo figlio”.

Riesce tuttavia ad evadere insieme a un gruppo di deportati e a un rabbino. La sua fuga, nel bosco che circonda il campo, è difficile e lenta perché Saul corre con il corpo del ragazzo, avvolto in un panno grigio, sulla spalla.
In un luogo in cui il terreno è più soffice, comincia a scavare una fossa con un pezzo di legno. Mentre scava chiede al rabbino che lo segue di recitare la preghiera. Ma il rabbino resta muto: è un bugiardo, un falso rabbino, ignora la Legge e le preghiere.
Le urla degli inseguitori costringono Saul a rimettere il corpo sulle sue spalle e a riprendere la fuga, ma nell’attraversare un fiume, ormai esausto, il prezioso carico sfugge alla presa. La disperazione è definitiva.
La camera indugia sul fagotto funebre che galleggia e poi affonda nelle acque della Vistola, trascinato dalla corrente. “Viene subito in mente, una versione atroce, capovolta, del racconto fondatore della storia ebraica, il racconto di Mosè: un bambino morto che annega contro un bambino vivo salvato dalle acque; la morte reale, storica di tutto un popolo contro la nascita, biblica, mitica, dello stesso popolo”. Saul verrà ucciso dai soldati.


“La vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente”, scrive Benjamin nelle sue considerazioni sul narratore. Le storie cioè assumono valore e autorità solo quando chi le racconta sta per lasciare l’esistenza.
Huberman, citando Benjamin, ci dice che Il figlio di Saul ha qualcosa di importante da dirci su questa autorità del morente. Prima di morire Saul compie “il gesto del morente per eccellenza, che consiste nell’inventarsi un figlio”, nell’affermare ad ogni costo un legame da trasmettere.

SALVARE UN NOME

Benjamin affermava negli anni Trenta, nel saggio «Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov», che “l’arte del narrare si avvia al tramonto”. In primo luogo perché è diminuita la nostra capacità di fare esperienza, e narrare significa essenzialmente scambiare esperienza. Ma ciò che ha dato alla facoltà del narrare il colpo decisivo è stato, secondo il filosofo tedesco, l’avvento dell’informazione. Racconto e informazione sono dunque due forze contrapposte. Nella nostra vita quotidiana, la comunicazione si basa principalmente sullo scambio di informazioni. Lo smartphone, per esempio, serve allo scambio veloce delle informazioni, non è un medium narrativo. L’informazione ci fa vivere in un eterno presente, nel contingente: gli istanti della nostra vita, divorati e annientati dall’incalzare del presente, non hanno il tempo di depositarsi nella nostra psiche.

Può una notizia, un nome di persona letto su un giornale, essere all’origine di un’esperienza, diventare narrazione?
Nel 1997 Patrick Modiano, premio Nobel per la letteratura nel 2014, scrive «Dora Bruder». Qui il lavoro sulla memoria comincia dalla lettura di una nuda notizia. I temi cari alla sua opera sono gli anni che vanno dal 1940 al 1945: gli anni bui dell’occupazione tedesca, del collaborazionismo, della deportazione degli ebrei. Lui stesso, nato nel 1945, si considera figlio di quel buco nero della storia.
«Dora Bruder» ricostruisce la vita di una ragazza parigina, di religione ebraica e di origine austriaca. Prima di essere il titolo di un libro, Dora Bruder è appunto un nome contenuto in una notizia che lo scrittore legge su un giornale nel 1988. Il giornale, una vecchia copia ingiallita di «Paris-Soir», porta in realtà la data del 31 dicembre 1941. Lo scrittore legge questa notizia quasi cinquant’anni dopo.
Si tratta di un avviso di ricerca pubblicato dai genitori di Dora: “Cerchiamo una ragazza, Dora Bruder, 15 anni, 1.55m, viso ovale, occhi grigio-marrone, cappotto sportivo grigio, maglione bordeaux, gonna e cappello blu navy, scarpe sportive marroni. Inviare tutte le indicazioni a Sig. Bruder, 41, boulevard Ornano, Parigi”.
Modiano indaga pazientemente per più di dieci anni. Quel nome ha una fascinazione particolare, irradia un’aura, diventa un’ossessione.
Cos’hanno in comune lo scrittore e Dora? Flebili legami: lo scrittore ha abitato nello stesso quartiere di Dora; inoltre, all’età di quindici anni, anche lui è fuggito di casa. Forse a far scattare l’indagine è un legame inconscio: “Bruder” in tedesco significa fratello, e Modiano ha avuto un fratello, morto all’età di dieci anni.

La ricerca non si fa solo negli archivi. Lo scrittore ripercorre le strade in cui Dora ha camminato più di quarant’anni prima, in un quartiere quasi del tutto trasformato. Modiano pensa come Proust che le cose o i luoghi sulle quali si è posato lo sguardo delle persone possano restituirci qualcosa di quello sguardo. Riesce a procurarsi una foto che mostra Dora insieme ai suoi genitori, conosce una persona che ha conosciuto la ragazza, fa ipotesi sui motivi che l’hanno spinta alla fuga, su dove ha trascorso quei mesi di assenza…
Il 1942 è l’anno delle grandi retate di ebrei. Dora ritornerà a casa, ma in una di queste retate viene arrestata. Sappiamo la data in cui è stata inviata nel campo di internamento di Drancy e la data in cui è partito il convoglio che l’ha portata ad Auschwitz, dove moriranno anche i suoi genitori.

Lo scrittore, scrivendo la biografia, ridà vita a questo nome anonimo. Una biografia che non può essere che lacunosa, un mosaico al quale mancano tanti tasselli. Ma senza la scrittura, Dora sarebbe scomparsa nel nulla.
Nello stesso tempo Modiano traccia la sua autobiografia, legge il proprio destino attraverso quello di Dora, nonostante la distanza immensa che li separa. Ricostruisce, infine, un’epoca.

Il libro, come si è detto, viene pubblicato nel 1997.
Gli anni Novanta sono anni in cui i francesi fanno i conti con la memoria storica. Il presidente della Repubblica Jacques Chirac riconosce ufficialmente le gravi responsabilità dello Stato francese di allora nella deportazione degli ebrei, in particolare per quanto riguarda l’episodio della retata del Velodromo d’Inverno, dove vennero internati migliaia di ebrei prima di partire per Auschwitz. Sembra che le autorità francesi fossero più zelanti di quelle tedesche nell’arrestare e nel deportare.


SALVARE UNA VITA

Nell’ultimo film di Gabriele Salvatores, «Napoli-New York», c’è un’immagine che fa pensare immancabilmente alla storia del nostro paese. I migranti italiani, arrivati a New York, scendono a Ellis Island e si dirigono verso le strutture sanitarie dell’isola per il controllo e le ispezioni mediche. Sono contadini meridionali, indossano abiti scuri, hanno dignitosi bagagli. I viaggiatori della prima classe, appoggiati al parapetto della nave, vestiti di abiti chiari, guardano dall’alto, curiosi e silenziosi, forse un po’ impauriti, la processione di migranti. Lo sguardo di questi viaggiatori in abiti chiari è lo sguardo che oggi, dietro uno schermo, riserviamo ai migranti che approdano a Lampedusa. Ellis Island come Lampedusa.
Una didascalia alla fine del film ci ricorda che dall’Unità d’Italia in poi milioni di italiani hanno lasciato il nostro paese per andare in America. Attraversare l’Atlantico, tuttavia, non è mai stato così rischioso, così mortale come attraversare il Mediterraneo. Benjamin avrebbe probabilmente definita questa immagine un’immagine pensiero, un’immagine che per la sua immediatezza ci permette di cogliere la realtà in modo più profondo.
Ci fa capire, quella scena dei migranti a Ellis Island, che da sempre si fugge dalla guerra o dalla miseria per cercare una vita migliore, che possiamo definirci tutti figli di migranti e che il parlare paranoico che si fa oggi, in Italia e in Europa, sull’identità, rischia di farci smarrire la diritta via. Solo i nazisti pensavano a identità “pure” e “pulite”.

Qualche giorno dopo aver visto il film, leggo dell’ennesimo naufragio nel
Mediterraneo. Mi colpisce la notizia di un salvataggio e la narrazione che ne fa Matthias Wiedenlübbert, comandante di Trotamar, un veliero appartenente a una ONG tedesca, Compass Collective.
Trotamar, dall’agosto del 2023, è impegnato in missioni a sud di Lampedusa, una delle rotte tra le più letali al mondo. Gli attivisti di Trotamar prendono parte a operazioni di salvataggio: comunicano alle autorità competenti, cioè i centri di soccorso di Italia, Malta e Tunisia, le informazioni in loro possesso, distribuiscono i giubbotti di salvataggio, a volte soccorrono prendendo direttamente a bordo i migranti.

La notte del 10 dicembre il veliero lascia il porto di Licata in direzione di una zona di mare da cui è partito un SOS. Sulla barca sono in sei, cinque tedeschi e un austriaco. Navigano a motore perché non c’è vento. Quattro membri stanno riposando sottocoperta, due sono al timone. Quando arrivano a destinazione non trovano nulla. Non ci sono imbarcazioni, non ci sono relitti. Con le onde alte da diversi giorni, non c’è nessuna speranza. A un certo punto, i due al timone, uno dei quali è il comandante, sentono delle urla di aiuto nell’oscurità. Gridano a loro volta per richiamare l’attenzione del resto dell’equipaggio. Sono momenti molto concitati. Abbassano il rumore del motore, sentono più distintamente le urla di aiuto. Puntano le luci in quella direzione, riescono a individuare un naufrago e iniziano prontamente le operazioni di soccorso.
È una bambina che si tiene aggrappata a due tubolari gonfiabili, due camere d’aria. Ha un giubbotto salvagente ed è in ipotermia. Miracolosamente viva. Riesce tuttavia a parlare. Avvolta in una coperta dorata, tra le braccia di un soccorritore, risponde alle domande che le vengono rivolte in inglese: “Come ti chiami?” “Maria”.
“Quanti anni hai?”
“Undici anni”.
“Da dove vieni?” “Dalla Sierra Leone”.
Sapremo che gli altri migranti partiti sulla barca che ha fatto naufragio, più di quaranta persone, sono morti annegati, che altri due bimbi sono rimasti per alcune ore aggrappati al tubolare prima di lasciare la presa, e che il padre di Maria, rimasto a Sfax, in Tunisia, è in attesa di partire con un’altra imbarcazione.

Il capitano nel suo racconto – immagino la sua felicità, i suoi occhi stupiti e increduli, testimoni di un miracolo – ha utilizzato un’immagine che potremmo definire “sensibile”, un’immagine che “ci viene incontro”: “A quell’ora, alle 3:20 del mattino, il Mediterraneo è una massa nera che si incolla al cielo altrettanto nero. Sono state le urla a guidarci”.
Quella luce proiettata nella massa nera incollata al cielo deve essere un’immagine guida per il nostro pensiero, deve entrare nella nostra coscienza, nella nostra coscienza politica. Una luce che illumina e salva.

Conferenza tenuta, in occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio 2025 presso l’auditorium del liceo Darwin di Rivoli.



3 pensieri su “Uscire dal nero: un desiderio ostinato di umanità

  1. trovo molto interessante questo scritto, presentato in una conferenza per il Giorno della Memoria 2025 da Donato Gervasio presso il Liceo Darwin di Rivoli… Si presentano tre diverse narrazioni dell’atto di salvare, riferendosi rispettivamente a un film, a un romanzo, a un fatto di cronaca…Narrare non informare, come oggi imperversa sui social e sui media…Narrare come scambio di esperienze vitali dove spesso alcune immagini diventano lo spirito-guida del pensiero…’Salvare un morto’, un bambino due volte morto nel campo di sterminio, adottandolo come figlio, un gesto estremo di amore e di riscatto da parte di un altro prigioniero addetto alle mansioni piû disumane…Qualche anno fa ho visto il film, veramente una prova di coraggio da parte del regista, Làszlo Nemes…Segue ‘Salvare un nome’, togliendolo dall’oblio della storia: il romanziere Patrick Modiano rintraccia, in una ricerca decennale e mosso da un interesse anche autobiografico, la storia di Dora Bruder, una ragazza parigina di religione ebraica fuggita di casa durante il rastrellamento dei tedeschi, ritrovata dai genitori ma pure dai nazisti, finirà i suoi giorni nel lager…Infine ‘Salvare una vita’ è una storia dei nostri giorni, il salvataggio nel Mar Mediterraneo di una bambina di 11 anni, unica superstite di un naufragio dove trovarono la morte più di quaranta persone, tra cui la madre della giovane…Dal racconto del capitano di una ong tedesca, Trotamar, che nel buio di una notte fonda e tra onde altissime salva la vita a Maria, proveniente dalla Sierra Leone…Tre storie e piû di un filo rosso che le lega, emerse dal buco nero della Storia

    1. Ringrazio Annamaria Locatelli per l’interesse con il quale ha accolto il mio intervento e per il commento che ne ha fatto. “Narrare come scambio di esperienze vitali dove spesso alcune immagini diventano lo spirito-guida del pensiero” è una frase che sintetizza perfettamente il senso del mio scritto. Certo, sullo scambio vitale di esperienze ci sarebbe molto da dire, visto che ogni giorno sperimentiamo l’impoverimento, o lo svuotamento dell’esperienza. Fare esperienza è diventato una lotta. Sicuramente, la narrazione, le immagini-pensiero ci aiutano a ricomporre i frammenti, a ricostruire, a tessere un legame con il passato.

  2. …sono d’accordo sulla difficoltà di vivere e/o trasmettere oggi una piena esperienza, manca spesso la calma interiore per l’empatia e la riflessione necessarie, siamo persone distratte, tirate per la giacca in troppe direzioni…pur con la buona volontà calarsi nelle situazioni è più difficile. Grazie per la risposta

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