Nel tunnel di metà settembre (9)

di Donato Salzarulo

AFRICA E LA VITA IN AGGUATO

Lascio alle mie spalle le Nature morte del soggiorno e torno in camera mia.
Prendo «La lettura», il supplemento domenicale del «Corriere della sera», lo metto sul letto, avvicino la sedia, mi siedo, mi allaccio all’ossigeno e al monitor e comincio a sfogliarlo.
Le prime quindici pagine sono tutte dedicate all’Africa, il continente che «sembra sprofondato nell’ennesima crisi esistenziale – una crisi alla base della quale si trovano, innanzitutto, le difficoltà da parte di numerosi Paesi africani di fare fronte a un debito pubblico nuovamente fuori controllo.»
Questo cappio al collo un tempo gli Stati africani lo contraevano esclusivamente con singoli Stati (comprese le ex potenze coloniali) e le principali istituzioni finanziarie internazionali (come, ad esempio, il Fondo monetario internazionale).
Tante volte abbiamo letto articoli di denuncia contro lo strangolamento che veniva operato ai danni di questi Paesi. La novità oggi è questa:
Il debito africano è «molto più diversificato, poiché tra i creditori si annoverano anche svariati obbligazionisti privati e, soprattutto, un nuovo attore globale dotato dei mezzi economici per proiettarsi verso l’estero con una forza senza precedenti: la Cina, che da circa quindici anni è il primo partner commerciale dell’Africa nel suo complesso e uno dei principali finanziatori di molte nazioni africane.»
Nell’articolo introduttivo si discute sul significato di questa presenza cinese, sui rischi e i pericoli; si accentra l’attenzione, in particolare, su due Paesi, il Ghana e lo Zambia.
La conclusione è questa:
«Le ragioni dell’attuale crisi del debito in Africa sono molteplici e intricate. Hanno a che vedere con l’espansionismo economico cinese e con la spregiudicatezza dei prestatori commerciali, ma chiamano anche in causa la responsabilità dei gruppi dirigenti africani e gli sprechi della spesa clientelare. Un discorso a parte, invece, meriterebbe il lascito del periodo coloniale, decisivo nell’avere relegato il continente al ruolo di esportatore di materie prime e nell’averlo reso cronicamente vulnerabile alle fluttuazioni dei prezzi sui mercati internazionali.»
Non mi sembra poco. Francamente siamo di fronte a un macigno che opprime i popoli di un enorme continente.

Salto il resto delle pagine e vado ai libri di poesia italiana. Ne sono recensiti due: uno di Giancarlo Pontiggia («Con parole remote», Vallecchi) e un altro di Maurizio Cucchi («La scatola onirica», Mondadori). Il primo da Daniele Piccini, il secondo da Roberto Galaverni.
Più giovane di me, Giancarlo Pontiggia è un milanese nato nel 1952. Quando ho ricominciato a scrivere poesie, con una certa costanza, dopo il decennio di militanza 1968-1978, Pontiggia era uno dei protagonisti della giovane poesia italiana.
«Aveva partecipato all’avventura della rivista “Niebo”, era stato co-curatore dell’antologia “La parola innamorata” (1978), aveva pubblicato in un quaderno collettivo di Guanda (1979) la silloge La gioia. Poi, la crisi.»
Anch’io in quegli anni vivevo la mia crisi. Il mio amico Ennio scrisse «Poesia della crisi lunga» ed io «Gli urli della crisi» (titolo espressionista, abbastanza munchiano). Ad altri andò anche peggio. Finirono suicidi. Vabbé.
Io, fuoricorso, mi rimisi a posto e diedi un’accelerata agli esami per laurearmi, Pontiggia, invece, come scrive Piccini, venne incaricato «di curare un’antologia scolastica di letteratura latina. Si immerse così nelle voci dei maggiori e minori poeti della classicità latina. E a poco a poco cominciò ad annotare a margine dei testi antichi alcuni versi, quasi generati per osmosi dal ripensamento della civiltà lontana. Prese così forma “Con parole remote”, ora ristampato, con alcune varianti, con un’introduzione di Sergio Givone, con il resoconto d’autore “Come nasce un libro” e alcune note esplicative, presso Vallecchi». Non male. Tradurre è un’ottima esperienza (poco pagata, mi risulta) per chi scrive poesie.
Il recensore ne offre due come assaggio per il lettore. Eccole:

Penso. 8

«E ciò che è stato?» chiedo
al genio della memoria. «Non deve essere più?»

Resisti, o vino, nel bicchiere dei morti,
nella pietà, nell’amore solitario; resisti
tra i forti angeli, nella nebbia,
e così sia.

Sono versi molto belli. Il tema è il “genio della memoria”. È questa nostra straordinaria facoltà che ci consente di far essere ancora ciò che è stato. In forme diverse, ovviamente. È questo un esercizio di resistenza: di pietà, di amore solitario, di nutrimento (vino) in compagnia di coraggiosi messaggeri; un esercizio che avviene in uno stato di visibilità ridotta (nebbia). Chiaro che l’allusione è allo studio dei poeti antichi.

Cerco nomi felici: “oro” ripeto

Cerco nomi felici:
oro, ripeto,
cieli, meriggio, sole alto. Varco
i tuoi, tempo, fiammanti cancelli;
m’inoltro in un’aria tiepida, fra
anse e canneti, in una
verde corrente,
per rive docili, ombrose,
con voi, numi custodi, fratelli

di un argine più remoto,
in una rada di frondoso sonno,

in un salvo fuoco.

Qui l’io poetante cerca “nomi felici” e varca i “fiammanti cancelli” del tempo. S’inoltra in un’aria lievemente calda (tiepida) fra piccole insenature (anse) e canneti, dentro un’acqua che scorre continuamente, verde, caratterizzata da rive facilmente percorribili (docili), ombrose. L’io non è solo. È in compagnia di divinità capaci di conservare, curare, sorvegliare (numi custodi); cioè di fratelli appartenenti a un terrapieno che contiene un corso d’acqua più lontano nel tempo e nello spazio (argine più remoto), in un’insenatura di sonno abbondantemente coperto o adorno di fogliame, in un fuoco illeso (salvo).
Si tratta quasi certamente di temi e di un lessico che intendono rinnovare in un oggi confuso «lo splendore assorto e remoto di una sacralità arcaica».
Che io sappia, Pontiggia ha scritto in tutto due libri di versi: «Con parole remote», uscito da Guanda nel 1998 ed ora riedito, e «Bosco del tempo» sempre da Guanda nel 2005.

Anche per il libro di Maurizio Cucchi il recensore offre degli assaggi poetici:

Disteso come nella terra
non dico che mi compiaccio e crogiolo,
ma chi potrà violare il mio rifugio,
il guscio provvisorio, il mio essere
fluido e insieme rugoso, custodito
non so da chi né come? E in assurda
armonia dopo l’incrocio di fantasmi

nella notte riaprirò gli occhi ritrovando
l’incubo reale, quello che affossa
al sole solitario della veglia
mentre gli spessi accumuli del buio
si vanno assottigliando
nell’accidia mediocre del mio giorno
nuovamente in transito.

Rispetto a quelle di Pontiggia, le poesie di Cucchi sono più oscure. Qui l’Io poetante afferma di non provare nessuna intima soddisfazione né di deliziarsi se sta sdraiato nel letto (vivo), come fosse “nella terra” (quindi, morto, sepolto). E si domanda se qualcuno/a potrebbe profanare il suo rifugio, il suo “guscio provvisorio”, il suo “essere fluido e insieme rugoso”, conservato da un essere indefinito e con modalità che l’Io poetico non sa. Detta in parole semplici: mentre se ne sta a letto, c’è qualche essere indefinito che può danneggiare quell’Io custodito, magari, dallo stesso o da un altro essere indefinito… Macchinoso. Infatti, subito dopo evoca “un’assurda armonia”, “l’incrocio di fantasmi” che durante la notte lo costringono a riaprire gli occhi e a ritrovare “l’incubo reale, quello che affossa / al sole solitario della veglia”. Se non ho capito male, il vero incubo dell’Io è “l’accidia mediocre” del giorno, continuamente in cammino, di passaggio.

Eccomi infine ridotto così
nel piccolo recinto del mio
quotidiano, forse sfuggendo
il terrore dello sfinimento.


Questa la verità. Questo è il rischio che tutti corriamo.
Il titolo della raccolta, «La scatola onirica», «rimanda direttamente alla mente dell’Io poetico che si racconta, e dunque ai processi psichici, alle appercezioni e alle particolari dinamiche del pensiero che scandiscono il corso delle sue giornate».
Il “piccolo recinto del mio quotidiano” è in questi giorni la mia camera 326-2 del reparto Medicina interna del San Raffaele. Sto leggendo queste poesie per sfuggire all’”accidia mediocre del mio giorno”.

Soggetto all’abitudine e suo quieto
complice, rimugino sereno vecchie litanie
su questo marciapiede dove assorbo
la media quiete e la dolcissima
mediocrità innocua e gentile del mondo,
in cui, ancora, prospero nell’oblio.

Al quinto giorno in questo reparto, anch’io sono diventato complice delle sue abitudini e delle sue regole, su cui Valentina mi richiamò al mio primo arrivo.
I miei familiari sono arrivati per la visita. Sono tanti e ce ne andiamo nel soggiorno. Ci racconteremo la giornata, “la mediocrità innocua e gentile del mondo”, almeno per noi che viviamo qui e non in Africa, in Ucraina o a Gaza. Assorbiremo le nostre parole.
Poi mangerò qualcosa. Il mio stomaco si sta mettendo piano piano a posto. La serata si concluderà, inserendo nelle narici i tubicini dell’ossigeno, attaccandomi la spina del monitoraggio, sistemando lo schienale del letto e infilandomi sotto le lenzuola. Senza togliermi la vestaglia grigia. Il meteo sta cambiando.
Stanotte non incrocerò i fantasmi di Cucchi. Penserò parole volanti come Pontiggia, nelle pagine di «Bosco del tempo»

Pensavo parole volanti, frecce
dal leggero impennaggio,
o palloni in fuga, alianti
come foglie, sotto un palo lontano.

Non sapevo che sarei fatto terzino
di una squadra in affanno, assediata
dall’ombra, dal tempo, dal fiele
di una storia avara, immerdata.

Lettore giovane e ardente,
prendi nota del tuo destino
La vita è in agguato, sempre,
sulle strade del nostro cammino.

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