di Velio Abati
PREMESSA
La lingua
Parto da un dato qui assunto come presupposto, avendo bisogno di altra ampia argomentazione esorbitante il nostro oggetto: la lingua è essenzialmente una relazione.
Anzi, forse la più fine e versatile relazione, non solo, come dicono i linguisti, tra l’emittente e il ricevente, ma – dal momento che nessun emittente inventa da zero il materiale linguistico del proprio messaggio – anche tra questi e gl’innumeri che l’hanno preceduto, anonimi epperò socialmente e storicamente ben definiti. È questa una congiunzione certo non ignota, sebbene per lo più passata sotto silenzio, quale cosa ovvia.
Se ora guardiamo alle due modalità fondamentali, disponibili all’emittente nella nostra cultura, parlare e scrivere – includendo nella seconda anche la registrazione del parlato -, vediamo che esse si differenziano prima di tutto per la temporalità della loro messa in relazione: il parlare è al presente; lo scrivere è al futuro.
Parlare
Quando dico che il parlato istituisce una relazione al presente, non intendo certo contraddire quanto appena sostenuto, ovvero che il materiale linguistico messo a lavoro da chi parla non lo connetta ai parlanti che gli stanno alle spalle, né, tanto meno, persino più rovinosamente, sostenere che il messaggio orale non sia capace di sedimentarsi in chi ascolta. Cancellerei in un sol tratto le migliaia di anni di oralità che hanno permesso a noi, homo sapiens, di evolverci fino all’invenzione della scrittura, per non parlare di quel frutto splendido della letteratura mondiale, i cosiddetti poemi omerici, rielaborazione di una secolare tradizione orale, o anche – per dire di un tema che mi sta particolarmente a cuore – l’humus ricchissimo di enzimi e corrosività delle culture subalterne. No, intendo dire che l’atto del parlare, osservato nella sua forma ‘muta’, se mi si passa questa formula paradossale, è costitutivamente al presente. Come dice il mio amico regista teatrale, Mario Fraschetti, la rappresentazione, per quanto ben preparata, non avviene se non c’è nessuno a guardare e ascoltare, oppure s’interrompe se tutti se ne vanno; viceversa – continua – se la mia pièce calorosamente accolta è avvenuta senza un copione scritto, terminato lo spettacolo, svanisce come mandala disegnato sulla sabbia.
Scrivere
Lo scritto è un atto che muove dal presente verso chi non c’è ancora, o in senso forte perché non è ancora nato, o perché c’è, ma è da raggiungere. Il ricevente può essere altri dall’emittente o se stesso nel futuro.
Da questa condizione costitutiva, il lavoro della scrittura si dispiega nei tre seguenti ambiti; il primo è solo proprio, dei due successivi modifica la valenza per effetto della distensione temporale:
- istituendo, come si diceva, una relazione, temporale, smuove il presente dell’atto dalla sua puntualità, lo connette a un futuro;
- istituisce una relazione sociale, smuovendo il soggetto emittente dalla sua singolarità, per impegnarlo in una ricerca dell’altro, fosse pure un diverso se stesso;
- svolge una funzione pragmatica, muovendo da un bisogno attuale in vista di un soddisfacimento futuro.
Se poi prendiamo in considerazione non la generalità della scrittura, ma quella dotata di forma, sia essa letteraria, filosofica o scientifica, vediamo un’ulteriore valenza dello scrivere: genera piacere, tanto nell’emittente che nel ricevente.
Beninteso, dal momento che, come si diceva, il piacere non è generato dalla scrittura ma dalla forma, il piacere né è specifico di questa modalità della lingua, possedendolo anche il parlato, né solo della lingua storico naturale, ma anche di altre forme espressive. Va anzi osservato, nell’ampia varietà delle fonti del piacere, come il puro atto del parlare sia esso stesso piacere, sia, come ci dicono gli studi sull’evoluzione umana, perché parlare prende il posto nell’homo sapiens della pulizia reciproca dei primati, sia perché la messa in moto degli organi fonatori, come di qualunque altro organo del nostro corpo, dà piacere, valenza, questa, enfatizzata dalla poesia, almeno a partire dal simbolismo.
Ma ora stiamo parlando di piacere della forma. Spiegare perché questo accada, aprirebbe di nuovo un capitolo che ci costringerebbe a un’ampia deviazione, per cui mi limito ad un assunto apodittico. Si tratta del soddisfacimento di un bisogno fondamentale, in quanto l’uomo è un animale formale, tanto nel suo agire, quanto nel suo conoscere. Non agiamo, infatti, se non seguendo una forma, si riveli essa utile o fuorviante, tuttavia, senza assumerla in ipotesi, il nostro agire sarebbe caotico, in-sensato. Il piacere che ce ne deriva è quello del lavoro ben fatto. Parimenti, non conosciamo se non istituendo una forma, cui corrisponde il piacere della conoscenza.
Il piacere particolare della scrittura formale, certamente di quella letteraria, la sua vastamente testimoniata ‘rapinosità’ ha fonti molteplici, che meriterebbero di essere enumerate e dettagliatamente seguite. Mi limito qui a indicarne due. Lavorare a un’opera creativa apre all’emersione incontrollata e addirittura inconsapevole delle istanze oscure dell’animo, che certa psicologia chiamerebbe piacere liberatorio del ritorno del rimosso. Inoltre, dar vita a un organismo in cui nessun suo minimo elemento alla fine risulta casuale, tutti concorrendo all’armonia del significato – questa è l’opera artistica di valore: la forma inseguita è pienamente raggiunta, posseduta – ti contrappone tanto alla casualità e alla morte biologica, quanto all’esproprio storico della tua vita; non è infatti un caso che sia avvenuto di paragonare l’autore, o addirittura paragonarsi, a Dio.
Va osservato per inciso che il valore è elemento decisivo dell’opera d’arte, tale per cui se l’attività di scrittura può giocare un ruolo terapeutico, come indicano certe esperienze cliniche, o emancipativo, testimoniato da certe pratiche sociali, il suo tasso di presenza discrimina l’opera d’arte da quella d’uso, o di consumo. Guardando il fatto da un altro punto di vista, ciò determina che il valore democratico di un’opera non è generato dalla collocazione sociale dell’autore, o dal numero degli autori, neppure, com’è noto, dall’intenzione, dall’ideologia del suo autore, bensì dalla qualità dell’opera stessa.
LA MIA ATTIVITÀ DI SCRITTURA
Lo sguardo sul presente
La spinta da cui origina ha radici in un certo sguardo sul presente, i cui aspetti pullulanti, multiversi e pulviscolari sono forse meglio riassunti nella definizione di civiltà dell’immagine. Può apparire paradossale, ove si consideri che la modernità è segnata dall’imponente sviluppo degli studi linguistici, che ha aperto la strada a invenzioni tecnologiche e trasformative impensabili tanto del tessuto linguistico stesso, quanto della sua funzione di mezzo, quindi reso possibile lo sfruttamento capitalistico fino all’intimo dell’uomo e della natura, del bios, spalancando frontiere di espropriazione inimmaginabili. Eppure, ogni dato di esperienza nell’odierna comunicazione sociale, dalla caduta della lettura dei giornali, allo strabordare dei cosiddetti social media con il loro impiego elementare della lingua, parlata o scritta, ancillare delle immagini di ogni tipo, provenienza e produzione, ci convince di essere immersi nella civiltà dell’immagine, dello spettacolo. Altra sua caratteristica è la rapidità del consumo, che riduce il tempo di vita di ogni prodotto a quello del moscerino, perché chi produce guadagna nel numero, nella sua innovazione e nella sua ‘personalizzazione’, per sottrarre consumatori alla concorrenza. Naturalmente, affinché chi consuma sia reattivo e disponibile deve essere educato, il suo bisogno fatto nascere. È la morale del tutto e subito.
Ogni aspetto di una forma di vita così fatta rinvia a una soggiacente logica unitaria, che si configura essere quella dell’immediatezza e, per maggior precisione, della falsa immediatezza. Le sue determinazioni più rilevanti, ai fini del nostro discorso, si radicano in tre diversi ambiti della vita sociale, conformando le concezioni del mondo e i comportamenti dominanti.
Sul lato del soggetto domina il narcisismo. Lo sguardo invece d’incontrare l’altro, vede lo specchio. Anzi, la patologica sostituzione dello specchio può raggiungere tale violenza da invadere il campo dello stesso fatto, generando un profondo sconvolgimento dell’esperienza percettiva, nella quale la comunicazione sostituisce la realtà, i dati di fatto sono ridotti a opinione, la verità a pregiudizio da mettere ai voti.
Sul lato dell’esperienza temporale, lo stato di cose s’impone come fatto naturale, che in quanto tale nega la soluzione di continuità di un futuro diverso. Il tempo, fagocitato il futuro, s’impietra in un eterno presente. Se tale meccanica non è una novità nella storia delle classi dominanti, ciò che caratterizza la presente fase capitalistica è la vastità della sua presa e la violenta accelerazione della distruzione del futuro, come ci ricorda l’aggiornamento, compiuto da volenterosi, di quanti giorni arretri ogni anno il termine ultimo di consumo, da parte dell’umanità, delle risorse totali della Terra, cosicché per il resto dell’anno tutti noi mangiamo il cibo dei figli che verranno. Inoltre, l’invadenza del presente è tale che silenzia il passato: sii figlio di te stesso è l’imperativo morale che ci predica ogni merce, ogni consigliere suadente. Sono figlio di me stesso, proclama il narcisista realizzato.
Nella pratica della scrittura domina la semplicità, l’emotività: sii te stesso, continua la voce. Magari è spettacolare, rassicurante anche quando gioca sul terrore. La sua lingua è destoricizzata, omogeneizzata anche quando – ed è il caso più devastante – giunge alle prode del triviale.
La mia scrittura
Io penso la pagina come messa in opera, al massimo grado possibile, delle tre funzioni del lavoro della scrittura sopra indicate.
Intanto, la spinta alla trasformazione del mondo, propria della forma artistica. Ogni opera d’arte di valore, di qualunque linguaggio espressivo umano, grazie alla forza estetica del suo essere un organismo vivo ad ogni fruizione, chiama il fruitore all’empatia e gli rivolge il proprio appello fondamentale: sii come me, chiudi la pagina e alzati, trasforma il mondo. Tanto più lo fa se, come nella pagina dei Fiori del male, smaschera insieme il lettore “ipocrita” e l’autore “fratello”. La mia scrittura nasce sempre come ultima istanza, quando – troppo spesso – la strada dell’agire pratico mi è impedita, così, ridotto a quel soffocamento, trovo il colpo di reni del dire.
Inoltre, la tensione all’altro viene condotta allo scandaglio della complessità e alle contraddizioni dei legami del soggetto con se stesso, con gli altri e con la natura.
Infine, vengono tenute vive, nei loro legami e nei loro contrasti, le interrelazioni tra il presente, le radici del passato, le trasformazioni future sperate o subite.
Alcuni suoi aspetti
Date le premesse, la lingua coltiva i fermenti delle stratificazioni tanto storiche quanto sociali, che sedimentano il vasto tessuto del nostro italiano. È la speranza di bucare la sterilizzazione oggi prevalente gravata anche dall’impidocchiamento dell’inglesano, non inseguendo però la modalità genericamente plurilinguista del gustatore della lingua, il quale a ogni passo teme che la volgarità semantica insozzi il suo vestito signorile, ma avvicinandomi quanto più possibile, per quanto consapevole di mai toccarlo, a quel fuoco di sfruttamento di corpi e spiriti, di sogni e parole, di violenza, repressione e resistenza, di morte consumata e vita che ripullula, un fronte d’incendio da cui escono le mie radici.
L’intreccio narrativo cerca di rispettare la complessità, la sovrapposizione, lo scontro dei rapporti tra generazioni passate e future, tra società e natura.
Lo stesso tempo narrativo si sottrae alla linea unidirezionale del tempo, certo vera e certo dominante, su cui è inciso il nostro memento mori, cercando invece di mostrare, dandone corpo, come nel nostro tempo di vita quella linea sia attraversata, preceduta, accompagnata, contrastata da una mirabile varietà di direzioni e durate.
Anche la costruzione sintattica ne risulta scheggiata, segnata da fratture e silenzi.
Infine, più recentemente, la mia scrittura è percorsa da una tensione all’attraversamento dei generi, non legato tuttavia a un avanguardismo fuori tempo massimo, o al panestetismo che lo sottende proprio quando lo disprezza, perché posizioni da cui mi sento assai lontano. Riconosco infatti il valore storico e conoscitivo dei generi, ma mi trovo alle prese con il bisogno profondo di alludere alla totalità della nostra esperienza, pur sapendola impossibile dalla realtà della nostra condizione biologica e storica. Così mi capita di far vivere una movenza poetica in un intreccio di prosa (come dar vita, diversamente, alla fisicità del rapporto con la natura, all’abbandono ad essa e ai moti di violenza, che accompagnano la più fredda azione strumentale?), o addirittura sperimentare il ritorno alle cadenze della poesia drammatica in un’azione teatrale, o magari la chiusura alle classiche unità aristoteliche in un capitolo di prosa interamente dialogato.
Se ogni atto linguistico, proprio in quanto relazione, chiede a chi lo riceve collaborazione per la costruzione del senso, questo è ancora più vero con l’opera d’arte di valore, per la doppia, opposta valenza sopra richiamata: la pretesa di essere sufficiente a se stessa, nutrita dal suo essere un organismo, con quanto questo comporta di chiusura, resistenza, non volerne sapere e invece l’appello esistenziale alla trasformazione necessaria rivolto al fruitore. Nel caso della mia scrittura, per quanto riesco a vedere, le sue fratture e complessità enfatizzano l’appello al lettore, alla sua complicità, alla sua partecipazione attiva nella costruzione del senso.
La mia pena e il mio orgoglio è che la mia scrittura non stringe la mano a tutti.
Perché sia orgoglio credo che sia chiaro. Perché sia pena, nasce dal fatto che invoca con tutta se stessa una società di eguali, di liberi.
Il testo è una rielaborazione degli appunti per una conferenza con il medesimo titolo, tenuta alla Nuova libreria di Grosseto, il 1° marzo 2025, insieme con Gianni Cutolo, Mario Fraschetti, Francesco Serino.